Premio Racconti nella Rete 2020 “Lettera a Licia Marani ” di Matilde Sciarrino
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020Gentile Licia,
chi le scrive è quella ragazzina impertinente che riuscì a carpirle tanti segreti una mattina d’autunno di tanto tempo fa.
Saranno passati quarant’anni. Era il mio primo viaggio in treno. L’espresso Roma – Bologna partì di colpo nello stesso modo in cui lei entrò nello scompartimento dove io sedevo sola, la testa appoggiata al finestrino fra i raggi del presente e le ombre del futuro. Lei riempì tutto lo spazio con il suo profumo speziato, il suo corpo austero, snello in un tailleur Armani color antracite. Mi colpirono i suoi capelli cotonati allora di moda, il foularino color turchese attorno al collo sinuoso, la spilla di pietra dura dello stesso colore sgargiante sul bavero sinistro della giacca e l’ombretto celeste sui piccoli occhi da gazzella. Posò la valigia di pelle con un movimento lesto, si sedette sulla poltrona dirimpetto alla mia, inforcò gli occhiali e si mise a leggere. Si comportava come se io non esistessi. Si sentiva solo lo sferragliare del treno che a tratti ci cullava e a tratti ci faceva sobbalzare all’unisono.
“Scende a Firenze?” cercai di imbastire una conversazione. Lei poggiò appena il suo sguardo su di me.
“Bologna” rispose secca e seccata.
“Io vado a Firenze. Mia zia è all’ospedale in fin di vita” dissi come se dovessi darle delle spiegazioni. “Lei dove va?” chiesi d’istinto non so neanch’io perché.
“Bologna”
“Vive lì?” insistei pentendomene immediatamente.
“Sono di Roma. Vado a Bologna per lavoro” disse non celando una certa insofferenza. Alzò il giornale come una barricata. Non so se lo fece di proposito oppure inavvertitamente, ma sulla pagina che mi mostrava c’era una foto che la ritraeva accanto all’immagine della copertina di un libro. Lessi il titolo dell’articolo: ‘Licia Marani terrà domani una Lectio Magistralis nell’Aula Magna della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Alma Mater Studiorum di Bologna. Il successo del suo ultimo romanzo “Chiara e Mauro” conferma il suo grande talento’.
“Lei è la famosa scrittrice Licia Marani?” chiesi non riuscendo a celare il mio stupore. Abbassò il giornale e mi guardò da sopra le lenti cerchiati d’oro. Il suo ‘sì’ suonò più come un rimprovero che come una risposta. Seguì un lungo silenzio. Lei continuò a leggere o a far finta di leggere, io a riflettere, o a tentare di riflettere. Nella testa mi frullavano tante domande. Mi sentivo piccola, d’età e di statura. Poi, con la sfrontatezza dei miei vent’anni le chiesi a bruciapelo: “Perché scrive?” Non si scompose, rimase zitta per un pò, forse per decidere se ignorare la domanda o prenderla sul serio. Per mia fortuna scelse la seconda alternativa.
Piegò il giornale in quattro, lo poggiò sul sedile accanto, accavallò le gambe e si raschiò la gola. Iniziò a parlare piano e lentamente, poi sempre più forte e veloce, come se davanti a sé non avesse una ragazzina impertinente, ma una platea di intellettuali. Mi parlò della sua vita, dei suoi personaggi, delle sue storie, delle sue fonti, delle sue abitudini di scrittrice, del suo lessico prediletto, persino delle sue vicende personali. Mi raccontò di come la sua vita si trasferiva nella pagina bianca e diventava vera, più vera di quella reale. Più bella o più brutta, non importava, ma pur sempre più significativa perché fatta di emozioni palpabili, imperiture. I suoi pensieri, i suoi sentimenti, gli accadimenti del suo quotidiano, anche i più banali, si trasferivano in un mondo che esisteva solo sulla carta tramite la sua immaginazione. E così i suoi viaggi diventavano diari di viaggio, i suoi compagni di vita complici o rivali nella scrittura, i suoi incontri, anche quelli casuali, materiale narrativo.
“Scriverà anche di questo nostro incontro?” le chiesi già lusingata. Mi diede un buffetto sulla guancia “Forse” rispose sorridendomi per la prima volta. Lessi l’insegna ‘Santa Maria Novella’ con sorpresa e disappunto. Presi la valigia. Mi sembrò più pesante di prima. Lei non mi tolse gli occhi di dosso, ma non mi tese la mano. Disse soltanto:”Ricordati che fra il bene e il male c’è un velo di cipolla”. Scesi e sostai sotto il finestrino in attesa che il treno ripartisse. Ci scambiammo uno sguardo d’intesa come due vecchie amiche. Ma lei aveva il doppio dei miei anni e ci conoscevamo da poco meno di tre ore. A pensarci bene, non sapeva neanche il mio nome.
A Firenze rimasi appena una settimana. Dopo il funerale della zia, prima di ripartire, andai in una libreria del centro, comprai tutte le sue opere, un taccuino verde con i gigli dorati e una matita con la scritta ‘I love Firenze’.
Al rientro a casa lessi i romanzi nell’ordine in cui erano stati pubblicati. Quando prendevo il libro in mano, lei appariva al mio fianco ed era come se me li leggesse ad alta voce. Presi a scrivere il mio diario sul taccuino, come lei mi aveva suggerito:”Solo quello che scrivi resta!” La sera, prima di spegnere le luci, aprivo una pagina bianca, scrivevo la data e l’ora e poi un breve resoconto della mia giornata di studentessa universitaria, di insegnante, di moglie e di madre. “Spegni, è tardi!” diceva mio marito, ma io non gli davo retta.
Negli anni di taccuini sul mio comodino se ne accumularono tanti. Era come se dovessi rendere conto a qualcuno della mia vita. Di tanto in tanto pensavo a lei e continuavo a leggere i suoi libri. Quando i figli, tre avuti uno dopo l’altro, erano piccoli registravo nei minimi particolari i loro progressi affinché un giorno potessero leggerli: i primi dentini, le prime pappe, le prime parole, i primi passi. Quando ero troppo indaffarata scrivevo solo participi e infiniti. E date e dati che nessuno ha mai letto.
I figli crebbero più velocemente di quanto immaginassi o sperassi. Andarono a vivere lontano. Non ebbi più nulla da scrivere sui miei diari. Io e mio marito ci ritrovammo soli in una casa ormai troppo grande. Durò poco. Una mattina non si svegliò; il suo cuore si era fermato mentre dormiva accanto a me senza che io me ne accorgessi. In fondo anche in vita spesso non percepivo la sua presenza.
Quell’anno decisi di andare in pensione: non avevo più voglia di raccontare la stessa solfa a dei ragazzini a cui la storia non interessava. Io, invece, cominciai a nutrirmi di ricordi. Scavavo dentro il passato con la stessa solerzia con cui frugavo armadi, cassetti e scaffali per liberare spazio. Trovai i miei vecchi taccuini, sistemati in perfetto ordine, anno dopo anno. Li sfogliai, non riconobbi neanche la mia stessa grafia e li riposi con cura insieme ai vecchi album di fotografie nella speranza che, se un giorno le immagini sbiadiranno, potranno essere chiamati come testimoni delle stagioni andate. Chissà se mai avverrà. I miei figli, i miei nipoti sono tutti proiettati verso un futuro a cui io non apparterrò mai. La donna di quei taccuini adesso non esiste più anche se tutti mi dicono che ho sempre la stessa aria curiosa e impertinente.
Non esco di casa. La spesa e le medicine me le consegnano a domicilio e il medico viene una volta al mese. Alla compagnia delle persone preferisco la lettura, le orchidee sui davanzali e il mio gatto persiano. E’ lui che mi sveglia la mattina quando reclama i croccantini. Peccato che la domenica non mi porta il caffè come faceva mio marito. La scrittura riempie le mie giornate. Non ho più fatti da registrare, ma storie da raccontare, storie che trovo dentro di me, dove si sono accumulate negli anni, fantasmi che appaiono all’improvviso e guidano le mie dita. Alcune volte ho l’impressione di scrivere sotto dettatura.
Ho già riempito cinque quaderni, grandi, di quelli che usavano i miei studenti delle medie. Con la mia vecchia stilografica anche i caratteri appaiono più forti, marcati e belli. Le storie che scrivo, però, non sono belle. Sono storie in cui quel velo di cipolla di cui lei mi parlò fra Roma e Firenze viene squarciato e non esiste più il confine fra bene e male, quel male che era dentro di me, tenuto a bada da anni di ordinaria inquietudine sotto la cappa di quotidiana banalità.
Nel silenzio delle stanze vuote sento una potenza demoniaca che, se non fosse mia, mi metterebbe paura. Provo un piacere demiurgico nel far nascere i personaggi che diventa più intenso quando soffrono o provocano sofferenza. Nella scrittura sono martire e carnefice, tolgo e do la vita, tradisco e vengo tradita, uccido e mi uccidono, condanno e perdono e pago in prima persona oppure la faccio pagare. E’ la potenza della mia immaginazione che diventa tanto più forte quanto più deboli si fanno i miei occhi e fragili le mie ossa. E’ una forza che mi trascina in un’altra dimensione al punto che perdo la cognizione del tempo e mi ritrovo la sera tardi ancora china fra pagine imbrattate e pagine intonse con l’indice e il medio della mano destra neri d’inchiostro.
Scrivo di lacrime e sangue, storie che forse nessun editore oserebbe mai pubblicare e nessun lettore leggere. Ma sono le mie storie, originali, tutte mie. Storie di madri che uccidono figli, di figli che uccidono padri, di pazzie e di rinsavimenti, di carnefici, di deviati e di redenti: la suora che scappa con il panettiere, l’imprenditore che abbandona famiglia e carriera e si rifugia in un monastero, la madre che taglia la corda e scompare per sempre, uomini che sterminano la famiglia, incidenti che tolgono la vita o la stravolgono tanto improvvisamente quanto inesorabilmente. I miei personaggi sono tutti dei funamboli: consapevoli o ignari, camminano tutti su un filo sottile fra il qui e l’aldilà, fra l’innocenza e il peccato, fra il caso e la determinazione.
Ogni volta che prendo in mano la penna penso a quel velo di cipolla che lei squarcia in tutti i suoi romanzi. Anch’io lo faccio adesso dando corpo e sostanza a tutte quelle persone che si affollano dentro la mia testa.
Ho letto da qualche parte che lei, ormai novantenne vive in un pensionato per artisti dove spero che questa mia lettera la raggiunga insieme alla mia devozione e alla mia gratitudine. Grazie per avermi insegnato che le parole scritte ci costringono a guardarci allo specchio, fanno uscire le bestie tenute a bada dentro di noi che, una volta liberi, ormai innocui, ci fanno compagnia,. E’ questa la magia della scrittura.
Cordialmente,
Matilde Sciarrino
Marsala, 06.04.2019
Non so se la destinataria esista o meno, ma non importa: anche fra il vero e il verosimile c’è un velo di cipolla. E qui c’è tutta una vita legata da un unico filo, quello delle parole scritte, con quello che suscitano e quello che placano. Mi è molto piaciuto, un messaggio in bottiglia, lanciato dallo scoglio di Racconti nella Rete.
Un racconto particolare che mostra la casualità della vita. L’incontro in treno tra un ragazza e una scrittrice assume un significato quasi surreale che porta la ragazza a vivere in uno stato di totale ammirazione verso la scrittrice condizionando la sua vita. piacevole.
Chi di noi non ha mai fatto un incontro di cui si è sempre ricordato? Io ne ho fatto tanti, di questi incontri. Ma, in questo caso, si tratta di una signora borghese, molto raffinata, incontrata sul un treno che portava a Moneglia. Mi disse la frase: “Fra il genio e la pazzia c’è un velo di cipolla” a proposito di suo marito deceduto in un manicomio, un ex docente universitario. Avevo 17 anni e quella frase rimase scolpita dentro. La signora non era una scrittrice, ma mi sarebbe piaciuto che fosse Dacia Maraini. Da qui il nome che ho scelto per lei. Grazie per aver letto e commentato il mio contributo!