Premio Racconti nella Rete 2020 “Il ritorno di Clara” di Renzo Mostini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020“Sono cinquanta”, pensa Clara mentre si accinge a percorrere la rampa d’uscita dell’autostrada che si congiunge con la strada provinciale che da Vercelli sale fino alla cittadina dei suoi nonni, incastonata fra le colline moreniche a ridosso della fascia prealpina.
“Cifra tonda, mezzo secolo compiuto l’altro ieri”.
Ha deciso di tornare dopo venticinque anni passati a girare l’Europa, da nord a sud, da est a ovest: Scandinavia, Germania, Spagna, Grecia, Gran Bretagna, Ucraina, Russia; si trovava dove c’era da sfidare la sorte, da raccontare una storia.
Scriveva con uno stile agrodolce che sapeva ammorbidire le vicissitudini dei personaggi coinvolti dal destino in situazioni disperate da non sembrare reali. Questo modo di narrare piaceva all’editore che, con ritmo incalzante, la saturava di missioni presso luoghi a volte difficili da localizzare, anche sulle cartine stradali più precise.
L’auto scivola tranquillamente sull’asfalto tiepido riscaldato dal sole delicato d’inizio Ottobre e il pensiero di Clara ritorna a una primavera di ventiquattro anni prima. Era il 15 d’Aprile del 1986, si trovava a Pripyat, una cittadina vicina a Chernobyl, dove era stata inviata per testimoniare la grigia vita quotidiana di un tecnico sovietico padre di tre bambine e addetto a una centrale nucleare.
Aveva varcato il confine tra Polonia e Unione Sovietica grazie all’aiuto ricevuto da attivisti di Solidarnosc, sindacato fondato nel 1980 conseguentemente agli scioperi nei cantieri navali di Danzica. Dopo quattrocento chilometri di strade dissestate in territorio Ucraino, seduta accanto all’autista, che le faceva anche da interprete e con il terrore di essere scoperta, era giunta a Pripyat.
La dimora di Aleksey era una casa di campagna bassa senza fronzoli, un parallelepipedo bianco sormontato da un tetto di tegole rosse, come la maggior parte delle abitazioni circostanti. All’interno, in una grande stanza, esisteva ancora il forno stufa centrale alimentato a legna, combustibile che era fornito gratuitamente dai boschi circostanti.
Nella casa, accogliente nella sua essenzialità, aleggiava, assieme all’odore della minestra di cavoli e patate, un senso di mestizia e di rassegnazione che si avvertiva in modo deciso nel sorriso malinconico di Elena la moglie di Aleksey.
Elena avrebbe desiderato raggiungere un paese dell’ovest per offrire alle figlie la possibilità di costruirsi una vita libera.
Clara, anche se era rimasta per pochi giorni con la famiglia sovietica, si era affezionata a loro profondamente, perché credeva nel rapporto umano diretto e detestava chi giudicava le persone con superficialità, catalogandole unicamente in base all’esteriorità e alla provenienza etnica. Quando Clara aveva terminato il reportage e salutato Elena, Aleksey e le tre bambine, con grande malinconia aveva promesso loro di risentirsi in futuro per non rompere quel nuovo legame, indispensabile soprattutto per Elena, cui dava uno spiraglio di fresca speranza.
Aveva ripercorso il viaggio a ritroso, con molte difficoltà e con la paura che la polizia sovietica le trovasse la cassettina con registrata l’intervista rilasciata dal tecnico ucraino.
Lunedì ventotto Aprile era giunta a Torino, città sede della rivista, dove viveva da quando i genitori avevano lasciato nel 1962 la cittadina originaria della loro famiglia.
Alla sera, mentre sedeva a tavola con alcuni amici, il telegiornale aveva comuncato la notizia del danneggiamento di un reattore nella centrale nucleare di Chernobyl in Ucraina.
Clara immediatamente e senza riuscirvi aveva cercato di prendere contatto con Aleksey.
Il giorno dopo aveva appreso che il guasto alla centrale era avvenuto alle ore una e trenta del ventisei aprile e che nessun piano d’emergenza specifico sarebbe stato varato dalle autorità governative. Le operazioni d’evacuazione della popolazione che risiedeva nell’area circostante Chernobyl, erano iniziate solamente trentasei ore dopo l’incidente, quindi nella mattinata di sabato ventisette aprile.
Al momento del tentativo di contatto da parte di Clara, la famiglia del tecnico era già stata evacuata.
Da allora non non aveva avuto più notizie di Aleksey e di Elena e sperava unicamente che tutti si fossero salvati e che nessuno avesse contratto delle malattie che, a causa delle radiazioni nucleari, avrebbero potuto manifestarsi anche dopo diversi anni dall’esposizione.
Continuando il viaggio verso la città, il pensiero di Clara veleggia anche su ricordi più felici. Aveva ventinove anni quando, nel mese di Novembre del 1989, un vento di libertà spazzava l’Europa anche grazie a uomini di pace come Giovanni Paolo II e Gorbaciov. Berlino viveva l’emozione della caduta del muro, il simbolo più crudele della guerra fredda e Clara era là per immortalare sulla carta le vicende in tempo reale.
Iniziava il suo articolo con la frase “Irgendwann fällt jede Mauer” (prima o poi ogni muro cade), parole profetiche scritte da qualcuno sul muro stesso, quando questo divideva ancora. “Nessuno all’inizio dell’anno pensava che ci saremmo riusciti, ormai la gente dell’est si era assuefatta e viveva praticando una sorta di training autogeno per convivere con l’idea del muro. Solo ultimamente si avvertiva un certo nervosismo e si capiva che qualcosa si stava concretizzando”. Così parlava un abitante del settore est, con l’animo colmo di stupore e felicità per quella nuova situazione, mentre nella mano destra sorreggeva una bottiglia scura di Paulaner Hefe Weissbier, una varietà di birra Bavarese dalla schiuma fine e compatta che sprigionava freschi profumi floreali accompagnati da aromi fruttati, che nel pensiero del giovane intervistato si potevano paragonare al sapore della libertà nell’istante dell’acquisizione materiale di questa, ancor prima di quella spirituale.
La luce cede il passo alla prima oscurità della sera, quando Clara percorre il lungo rettilineo che dalla periferia conduce verso il centro storico della sua città.
Prima di entrare nel borgo, Clara decide di fare visita all’azienda vitivinicola dove, già negli anni sessanta, ci andava con il nonno ad acquistare il vino da tavola. Parcheggiata l’automobile sotto i tigli secolari che sembrano essere posti a guardia dell’antico caseggiato, apre con delicatezza la porta di ferro battuto che immette, annunciandoti con un fresco tintinnio, nella sala adibita alla vendita dei prodotti aziendali. “Buona sera, vorrei acquistare del vino importante, da meditazione” così Clara si rivolge al personale addetto alla vendita. “Le consiglio un cru dell’anno 2000, sa è di produzione limitata ed è ottenuto da un vigneto particolarmente vocato. Dovrà stappare la bottiglia e trasferire il vino in un decanter o in un contenitore che ne permetta la rapida ossigenazione. Passata qualche ora potrà degustare questo nettare regale servendosi di un bicchiere tipo grand cru, grande e molto panciuto, in maniera che possa sprigionare anche i profumi terziari che si definiscono nel loro insieme come bouquet da invecchiamento ”. Dopo questa lezione di alta enologia, Clara esce dall’azienda con le bottiglie confezionate in un elegante contenitore di cartoncino ondulato di colore rosso porpora abbellito da un nastrino dorato e sale sull’automobile per recarsi verso l’antica casa di famiglia che si trova all’interno di un edificio eretto nel corso del sedicesimo secolo da un illustre personaggio dell’epoca, Mercurino Arborio di Gattinara, Gran Cancelliere di Carlo V° di Spagna, nominato Cardinale da papa Clemente VII nel Concistoro dell’otto Agosto dell’anno 1529. Il complesso abitativo era stato costruito per ospitare le suore di clausura dell’Ordine delle Clarisse, la cui madre superiora era sorella del cardinale. Entrata nel cortile Clara rivede le arcate sostenute dai pilastri ottagonali in laterizio imbiancato, sotto alle quali spiccano le porte di legno massello delle stanze dove all’epoca ci vivevano le religiose.
Una di quelle stanze era stata battezzata “la sala della musica”da Clara e dagli amici, perché lì si ritrovavano per cantare accompagnati dalla chitarra a sei corde di Massimo e dalla chitarra a dodici corde di Claudio. Le sembrava di risentire ancora le note delle melodie che fluivano dalle casse acustiche dei costosi strumenti acquistati dai ragazzi con i risparmi settimanali.
Una canzone su tutte ricordava Clara con infinita nostalgia, un brano de “La Buona Novella”, la cantava Claudio con la voce profonda simile a quella di Faber: “… Ave Maria, adesso che sei donna, ave alle donne come te, Maria, femmine un giorno per un nuovo amore …”. Nelle parole di quella breve composizione, avvertiva l’ansia di intraprendere il cammino attraverso la sua primavera, di divenire donna, consapevole delle difficoltà che questo comportava con la paura di non essere capita e di non poter mostrare come la sua presunta fragilità femminile celasse una ferrea volontà di imporsi in una società fondamentalmente maschilista. Claudio stava dalla sua parte, sensibile nell’affrontare situazioni delicate, non era il classico maschio destinato a proteggere la donna. Si trovava sempre in perfetta sintonia con lei e questo allineamento di ideali sfociava in un amore platonico che gli amici, ironizzando, paragonavano all’antico sentimento provato da Dante per Beatrice “.. oh beata Beatrix..”, sospirava Massimo, rivolgendosi a Clara che fingendo imbarazzo, era nel suo intimo contenta di essere idealizzata come “…cosa che sia venuta da cielo in terra a miracol mostrare…”.
Un soffio delicato di frizzante brezza serale riporta Clara al presente e così, senza indugiare ulteriormente, sale il grande scalone che conduce all’appartamento dei nonni. Il nonno Carlo se ne era andato nel 1980 e due anni dopo lo aveva raggiunto la nonna Lorenza. Ancora oggi non riesce a pensare a loro senza commuoversi. Da quando i locali sono rimasti disabitati, Giovanni, un vecchio amico di famiglia, provvede a mantenere in ordine l’abitazione. Superata la soglia che immette nel grande salone Clara, dopo avere depositato le bottiglie sul mobiletto vicino alla porta d’ingresso, avverte un senso di leggero stordimento costatando che tutto è rimasto come un tempo: i mobili in noce trattati con l’olio rosso e lucidati con la cera d’api; il portariviste posizionato di fianco al tavolino del televisore; le tende socchiuse che lasciano trasparire la luce giallastra dei lampioni cittadini; la grande credenza che nel silenzio emette di tanto in tanto degli scricchiolii, come a pretendere l’attenzione dei presenti per trasmettere loro la sensazione che anche le cose possano avere un’anima.
Per rendere più sopportabile l’emozione del ritorno, decide di recarsi nella sua camera, che la moglie di Giovanni aveva provveduto a sistemare per il suo arrivo e di coricarsi immediatamente sperando di affrontare serenamente la prima notte in solitudine nella casa dei nonni.
I sette rintocchi del campanile della chiesa di San Francesco, svegliandola dolcemente, interrompono i sogni del primo mattino, quelli che si ricordano meglio e che se piacevoli, non ti abbandonano per tutta la giornata.
Verso le otto, dopo aver preparato la colazione al sacco e dopo aver calzato le pedule nuove acquistate per l’occasione, Clara decide di incamminarsi verso la strada che porta a San Lorenzo attraversando i “Loss”, zona storica di produzione vinicola. Salendo la mulattiera, in prossimità della chiesetta diroccata di San Grato, dove la vite lascia spazio alle prime zone boschive, le sembra di avvertire il profumo dei funghi nuovi appena spuntati frammisto all’odore di terra bagnata delle rive umide dei fossi, favorito dal tiepido sole ottobrino che a fatica s’ impone sulla bruma mattutina.
La salita è molto ripida fino al momento in cui il sentiero svolta a sinistra e attraversa il querceto sul lato est del colle che proseguendo come un colubro addormentato, giunge ai piedi della rupe dove si trovano i ruderi del castello di San Lorenzo, edificio eretto nel XII secolo dal Comune di Vercelli per poter controllare la strada che conduceva in Valsesia e in Ossola.
Entrata nel castello diroccato Clara si siede sulla radura erbosa, vicino alla cappelletta, per lasciarsi accarezzare dal vento che spira dalla valle del Monte Rosa e per gustarsi il panorama che, grazie alla limpidezza della giornata, permette di ammirare la piramide del Monviso e di intravedere la sagoma della Basilica di Superga, sulla collina che s’innalza sopra Torino.
Indescrivibile è il piacere che prova nel ritornare in questi luoghi quasi dimenticati che ora può apprezzare nuovamente ma purtroppo da sola, senza le persone a lei più care.
Il tempo, padrone degli eventi, le ricorda che è ora di ritornare a valle. Procedendo con andatura veloce sulla via principale che scende dal colle viene avvolta dalla nebbia serale, nel punto in cui la strada sterrata svolta a sinistra sotto la grande quercia che domina il crocevia dove transitò un tempo l’eresiarca Frà Dolcino per dirigersi in alta Valsesia per sfuggire dall’inquisizione vercellese.
L’ovattata situazione creata dall’impalpabile coltre grigio-azzurra, proietta la mente di Clara in una dimensione onirica che la isola dalla realtà, trasportandola in un mondo quasi fiabesco dove i cespugli di sambuco si trasformano in creature bizzarre che sembrano prendere vita risvegliandosi da un sonno centenario. Lasciandosi trasportare da quella nuova dimensione si ritrova, quasi senza accorgersene, alla fine della discesa illuminata dal chiarore satinato delle luci stradali.
È ormai buio quando rientra, lasciandosi alle spalle una giornata particolare che consacra il ricongiungimento con i luoghi d’origine. Il ritorno per Clara, riconoscendosi negli alberi, nell’erba, nell’aria e nei visi dei contadini che lavorano la vite, è un qualcosa di dolce e rassicurante. Fin dall’inizio, quando neolaureata aveva intrapreso la carriera di giornalista che l’avrebbe portata sulle strade del mondo, sapeva che un giorno sarebbe tornata per restare, perché l’attrazione che provava per la sua terra era qualcosa di straordinario che si rinnovava e si acuiva sempre di più, in modo inversamente proporzionale alla distanza che intercorreva tra la cittadina dei nonni e il luogo dove era inviata per svolgere il proprio lavoro. – È una questione di sangue – pensava – che ti lega al passato e alle tue radici.
Rientrata nella sua “nuova” dimora pensa a Claudio a Massimo e agli altri amici che desidererebbe avere con lei per festeggiare il ritorno a casa.
Clara è convinta che la propria felicità vada sempre condivisa con le persone che si amano e poi, se l’ospite d’onore è un grande nebbiolo vestito a festa che per l’occasione si risveglia da un sonno durato diversi anni, facendoti comprendere che l’attimo della degustazione è una delle cose per cui vale la pena vivere, allora non resta che organizzarsi per la serata.
Il telefono suona libero quando all’altro capo risponde quella voce profonda che il tempo non ha trasformato minimamente: – Pronto, casa Brentano? – Sì, sono Claudio.
Clara per un interminabile istante è come paralizzata, poi si fa coraggio e con fermezza per nascondere l’emozione dice: – Sono Clara, so che è da molto tempo che non mi faccio sentire, sono arrivata oggi e vorrei invitare te, Massimo e gli altri, questa sera dopo cena a casa mia per un saluto. Claudio, sorpreso dalla chiamata improvvisa di Clara, riesce a dire solamente: – Va bene, verrò, anzi sicuramente verremo, mio Dio quanto tempo è passato, ….. ma sei proprio tu?
Clara non ha mai avuto una relazione fissa, gli uomini le erano scivolati fra le mani, quasi impalpabili con i loro volti dissolti in una breve storia d’amore.
Si che l’avrebbe voluto un uomo da amare che sapesse togliere il respiro con le carezze con i baci più segreti e che non fosse solo un’illusione , c’era però il giornale, l’articolo da terminare, la notte dietro le vetrate della casa editrice, le luci dei viali umidi di pioggia e la nebbia che saliva dal fiume e si fermava contro la collina triste e malinconica. Senza rimpianti sulle onde della vita, cavalcando il vento dell’avventura: “always on the fast line”, a volte diceva per giustificare la mancanza di un legame fisso e duraturo. Si accorgeva poi che il tempo trascorreva e la speranza moriva in una sorta di patetica illusione. Oltre al lavoro un altro elemento che la faceva desistere dalle relazioni durature era la paura di soffrire per amore. Quel magico sentimento che annienta e rende vulnerabile un individuo, lo aveva provato molti anni prima per Claudio. In quel periodo Clara si sentiva infuocare l’anima tutte le volte che lo vedeva e quando non c’era le mancava come l’aria.
Alle ventuno in punto squilla il campanello perturbando lo stato di quiete della casa dove Clara si è assopita sul divano rivestito di velluto porporino. Alzandosi di scatto è assalita da una strana sensazione di stordimento dovuta al risveglio improvviso e, con il cuore che batte con ritmo veloce e disordinato, si avvia verso l’ingresso del salone.
Dietro alla porta ci sono tutti, Massimo, Daniele, Anna, Laura, Lorenzo, Francesca e per ultimo Claudio; gli amici di un tempo. L’emozione è grande, intensa, due lacrime scaturiscono dagli occhi di Clara e scendendo lungo il profilo degli zigomi, cadono sulla porzione di seno lasciata scoperta da un decolté raffinato che da tempo non aveva avuto il piacere di indossare.
Li avrebbe voluti abbracciare tutti insieme i suoi cari amici per far loro sentire il calore del suo amore, della sua amicizia che malgrado il distacco non era stata minimamente scalfita. Le abbraccia invece una ad una quelle care persone, le abbraccia così intensamente con una grande energia che solo un amore sincero ha la forza di creare.
Claudio, con lo sguardo che è rimasto quello di un tempo è l’ultimo a cingerle la vita. Le sue mani calde le fanno ricordare l’ultima carezza che le diede molti anni prima quando si videro per l’ultima volta. Si ricorda anche il profumo della sua pelle dopo una giornata di sole in quell’estate che sembrava non finire mai. Era un profumo particolare, eccitante e delicato, che faceva sognare e faceva innamorare.
La festa è terminata, gli amici se ne sono andati e Clara è felice per averli ritrovati ma, mentre si prepara per andare a letto, squilla il cellulare e una voce lontana, indecisa, in un italiano approssimativo dice : -Pronto, parlo con Clara? – Sì, chi è? – Ciao sono Elena, chiamo da Ginevra, ho avuto questo numero dal tuo giornale.
Ciao Renzo, la storia c’è, tutta. Mi chiedo se il racconto breve sia il modo giusto per raccontarla. Troppe informazioni e troppe descrizioni per poche pagine e i personaggi finiscono per essere solo descritti invece di essere lasciati vivere. Mi verrebbe da dirti esplodi il racconto, fallo crescere in un romanzo. Oppure scegli un momento di questa storia, fai vivere quel momento e facci entrare il trascorso ma scegliendo solo quei frammenti che servono all’economia di quel momento.
Molto bello, molto intenso e denso di emozioni. Forse come dice Davide è un po’ sacrificato in uno spazio contato, comunque mi ha fatto commuovere. Bravo.