Premio Racconti nella Rete 2020 “Francesco è scomparso”di Pierfrancesco Prosperi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020All’epoca della sua sparizione, Francesco M. era un ragazzo di quasi tredici anni, robusto e dall’aria sveglia, con due chiodi fissi: skateboard e computer.
Tutto iniziò una domenica, ai primi di gennaio. Subito dopo pranzo, Francesco chiese di andare al parco con lo skate. – Torno alle quattro.
Era appena uscito che squillò il telefono. – Sono Luca, un amico di Francesco. Può mandarlo al cinema con me e i miei?
– È andato al parco – rispose il padre. – Se lo incontri, portalo pure al cinema.
La madre e la sorella di Francesco sparecchiarono la tavola, il padre lesse il giornale da capo a fondo. Alle quattro e un quarto disse: – Francesco non si vede. Dev’essere andato al cinema con Luca.
Il sole si abbassava sull’orizzonte. Le cinque arrivarono in fretta. Francesco, calcolò il padre, era uscito poco prima delle tre. Se Luca lo aveva trovato al parco pochi minuti dopo, calcolando il tempo per arrivare fino al cinema… avrebbe dovuto essere di ritorno verso le cinque e mezza.
Poco prima delle sei disse alla madre: – In fondo, non siamo nemmeno sicuri che sia andato al cinema. Non vorrei…
– Ma certo che è andato al cinema – replicò la madre. – Altrimenti, sarebbe rientrato alle quattro.
I minuti scorrevano lenti. – Vado a dare un’occhiata al parco – disse il padre ostentando tranquillità, – così faccio due passi.
Inforcò la bicicletta e girò per i viali deserti del parco nella luce incerta del crepuscolo. Cominciava a fare freddo. Di Francesco, nemmeno l’ombra.
- Non è rientrato? – chiese alla madre, leggendole negli occhi la risposta.
Guardò l’ora. Le sei e un quarto.
– Adesso comincia ad essere un po’ tardi – borbottò. Prese il telefono, cercò il numero di Luca. Rimase ad ascoltare gli squilli all’altro capo del filo.
– Non sono ancora rientrati – disse alla moglie.
Le sei e mezzo. Il padre tornò al parco ormai buio. Poi ritelefonò a casa di Luca, e riprovò ogni quarto d’ora, finché alle sette e mezzo rispose il padre del ragazzo.
– Sì, siamo stati al cinema, ma Francesco non lo abbiamo trovato al parco; abbiamo girato un po’ e poi ce ne siamo andati perché si faceva tardi.
Depose il ricevitore mentre dita sottili di ghiaccio gli stringevano la bocca dello stomaco. Incontrò lo sguardo muto della moglie.
– Non era con loro – esalò. – Non lo hanno incontrato al parco.
La madre si incaricò di dar corpo ai pensieri che lo agitavano. – Ma allora avrebbe dovuto rientrare alle quattro! E adesso dove sarà?
Era ormai sera fatta. – Dove può essere andato? Dobbiamo fare qualcosa!
Già, ma cosa? Era una situazione nuova per lui. La madre riprese con tutta la sua buona volontà: – Forse è andato a casa di qualche altro amico. Magari si sono messi a giocare a videogiochi, e in quei casi le ore volano.
Le fu grato del diversivo. Telefonò a tutti i compagni di scuola di Francesco. Naturalmente, nessuno lo aveva visto.
Era ormai ora di cena. Sua moglie: – Bisogna avvertire qualcuno, farlo cercare.
Telefonò all’ospedale, dette una descrizione del ragazzo, pregò di essere avvertito nel caso che… Poi chiamò la questura, e infine i carabinieri. Quindi, inevitabilmente, si trattò di informare i nonni materni e quelli paterni.
Quella sera per la prima volta in tanti anni, cenarono a TV spenta. Lui disse una sola frase: – È stato il fatto del cinema a fregarci. Ce ne siamo stati tranquilli fino alle sei invece di cominciare a preoccuparci fino dalle quattro…
Chiara si alzò appena terminato di cenare. – Devo finire di studiare. – Lui restò a fumare la pipa davanti allo schermo buio della TV, mentre lei si tormentava le mani. – Insomma, sei solo capace di startene lì a fumare? Quel ragazzo è fuori, da qualche parte, a quest’ora… Dobbiamo fare qualcosa!
Cercò di mantenere calma la voce. – Vuoi che stia fuori a cercarlo tutta la notte? Ho già avvertito tutti quelli che potevo. Mi dispiace, ma non c’è altro da fare che aspettare.
Lei se ne andò in silenzio. La sentì prepararsi per la notte, e rimase a fumare finché la pipa si spense. Andò a letto a sua volta, ripetendosi: domani sarà tutto normale, sarà tutto come sempre.
Si svegliò con la sensazione di aver fatto un brutto sogno. Deve essere tutto finito, si disse. Oggi è un altro giorno.
Intravide nella penombra la moglie infilarsi la vestaglia. Con voce impastata chiese: – Sono svegli i ragazzi?
In quell’istante, dalla finestra una lama di luce andò a cadere sugli occhi di sua moglie, li fece brillare di una luce fredda, splendente. – Cos’hai detto? – chiese la sua voce. Sembrava lontana, aliena.
Allora capì, in un lampo velocissimo, istantaneo. Capì che doveva adeguarsi, fingere. – Volevo dire Chiara – mormorò.
– Certo che è sveglia. Ti ha già preparato il caffè; vai, vai.
Si ritrovò a camminare per quel lungo corridoio. Si accostò tremando alla porta dell’ultima camera a destra, la spinse piano.
Aveva cercato di prepararsi, ma fu ugualmente atroce. Fece scorrere lo sguardo sugli armadi guardaroba, l’asse da stiro, la lavatrice, i cesti della biancheria. Del letto di Francesco, della scrivania ingombra di fumetti e della libreria in perenne disordine, nessuna traccia.
L’ho perduto, disse a se stesso. E adesso devo stare molto attento se non voglio perdere tutto il resto.
Più tardi, mentre accompagnava Chiara a scuola fu a un passo dal chiederle se non ricordava di avere un fratello minore, di averlo avuto come compagno di giochi e di litigi fino al giorno prima. Ma si morse le labbra e riuscì a resistere all’impulso.
Visse la giornata di lavoro come in trance, rispondendo a monosillabi alle domande dei colleghi. Quando rincasò, sua moglie era ancora fuori. Ne approfittò per passare la casa al setaccio, cercando una traccia qualsiasi dell’esistenza che Francesco vi aveva condotto fino al giorno prima. Nulla, era tutto sparito. Guardò anche in soffitta. Non più uno skate, una bicicletta, un vecchio quaderno delle elementari, un maglione, niente di niente. C’erano solo oggetti di Chiara. Prese un album di fotografie. Provò una stretta al cuore nel constatare che, come nel 1984 di Orwell, le forbici di un invisibile Grande Fratello avevano censurato le foto scattate in vacanza o in occasione di feste e compleanni. C’erano solo lui, sua moglie e Chiara, anche in quelle istantanee in cui ricordava benissimo di aver ripreso anche Francesco.
È colpa mia, si disse. Non ho vigilato abbastanza, e le ombre della notte se lo sono ripreso. E ora devo stare più attento che mai, non devo mollare o sarà la fine di tutto…
Quella sera a cena si sforzò di apparire normale, di trovare del tutto regolare la loro condizione di coppia con una sola figlia e una casa troppo grande per tre persone. Quando andarono a letto sua moglie gli chiese: – Che cos’hai? Sei bianco come un panno.
Rispose che non si sentiva bene. – Forse sto covando l’influenza. – Poi, d’impulso, le prese la mano. – Per favore, dimmi che non mi lascerai mai. Ti sembrerà strano, ma voglio che tu me lo dica adesso.
Lei lo guardò un po’ spaventata. – Stasera sei proprio buffo, sai? – Poi vide che tremava e la sua espressione si addolcì. – Lo sai che non ti lascerò mai, – gli disse accarezzandogli la tempia. – Lo sai che voglio bene solo a te.
Si sentì sollevato, solo un po’. Si distese sempre tenendole la mano. Stentò a prendere sonno, aveva paura. Non devo mollare, ripeté addormentandosi, non devo mollare…
La mattina dopo seppe di aver perduto tutto. Lo capì prima ancora di aprire gli occhi. Attraverso le palpebre chiuse i suoi occhi scrutarono il grande appartamento. Le camere dei ragazzi vuote, occupate solo da scatoloni e bauli polverosi. La cucina in disordine, il bagno desolato, privo delle mille cose colorate che Chiara e sua madre vi avevano ammucchiato via via. Il tavolo da pranzo ingombro di giornali. Una casa grande e tristemente sciatta, in perenne attesa della visita bisettimanale della donna delle pulizie.
Adesso posso aprire gli occhi, si disse. E non si ferì più che tanto nel vedere i pochi mobili che circondavano il suo letto da scapolo. Gli altri mobili e la sua famiglia non c’erano. Non c’erano mai stati.
Uscì senza essersi fatto la barba, per evitare di guardarsi allo specchio. Sapevo che sarebbe finita così, si disse. Mi ero adagiato troppo in questa situazione. Avevo dimenticato che ‘loro’ esistevano solo perché io… finché io… insomma ho abbassato la guardia. Dovevo pensarli in continuazione, anziché accettare tranquillamente il fatto che esistessero, che sarebbero sempre esistiti.
E adesso? Non era così disperato da non pensare che poteva esserci un altro tentativo. Sapeva però che sarebbe stato l’ultimo. Pensò alla vecchia pistola militare d’ordinanza, chiusa in un cassetto del guardaroba, abbastanza in alto perché Chiara e Francesco, quei due piccoli che un tempo erano stati suoi, non vi potessero arrivare. E in un’armeria di Piazza Grande comprò una scatola di cartucce. Non ci sarà prova d’appello, si disse.
Rincasando, passò anche da un cartolaio. Capodanno era passato da poco, e si trovavano ancora i calendari coi foglietti da staccare. Rientrò nel palazzo sfiorando un paio di vicini che – si rese conto – gli gettarono uno sguardo di commiserazione, e uno si toccò la tempia con l’indice. Maledetti voi e tutte le persone cosiddette normali, pensò salendo le scale.
Appese il calendario appena comprato. Strappò via i foglietti fino all’ultima domenica: due giorni prima. Restò a fissare la data, ripetendo a se stesso: tutto può ancora ricominciare. Regolò l’orologio sulle cinque e mezza. Disse a voce alta:
– È domenica, sono le cinque e mezza. Fra poco Francesco rincaserà.
Una fitta acuta al centro della nuca. Girando la testa ebbe una fugace visione, come in una pubblicità subliminale. Per un istante vide due figure aleggiare diafane contro lo sfondo scuro della casa vuota e sorda. Un attimo ed erano scomparse, ma le aveva viste bene: una donna e una ragazzina. Chiuse gli occhi stringendo i pugni contro le tempie. Devo insistere. Devo farcela, oh Signore devo farcela. Ripeté:
– È domenica e sono le cinque e mezza. Fra poco Francesco rincaserà.
Poi si lasciò cadere su una sedia in tinello, inerte come un fantoccio, fissando il pacco delle cartucce che aveva posato sul tavolo. Restò a guardare il vuoto.
E a pensare.
Complimenti Pierfrancesco, molto bello, disturbante, splendidamente scritto. Il lettore è disorientato in più dimensioni perche’ il racconto ha uno spostamento di baricentro dagli avvenimenti esterni a quelli interni e perché quella che sembra progressiva caduta, dimenticanza, confusione, forse è risalita, consapevolezza, lucidità. E alla fine io ci ho visto una scelta da prendere fra le due direzioni. Un bellissimo meccanismo.
Bel racconto. Il pensiero che prende corpo e la realtà che evapora, il tutto in un divenire temporale inaccetabile e drammatico. Molto interessante.
Grazie Marco, sono d’accordo sulla tua interpretazione: una scelta da fare tra caduta e tentativo di recupero. Quello che volevo evidenziare è che le persone che abbiamo attorno a un certo punto non le vediamo quasi più, quasi come se non ci fossero. E se…
Scusami Pierfrancesco, il mio precedente commento ha bisogno di una puntualizzazione perchè non sono stata chiara: divenire inaccettabile, naturalmente intendo inaccettabile per il papà di Francesco, per il dramma che ha vissuto.
Sì Pasqualina, che “inaccettabile” si riferisse al punto di vista del papà lo si capiva anche se non era esplicito. E’ un racconto autobiografico, nel senso che una trentina di anni fa quello che è descritto nella prima pagina mi successe veramente. Poi mio figlio (che si chiama Francesco!) rincasò tardi (era stato effettivamente al cinema) e si prese un bel risciacquone. Restai talmente impressionato che qualche giorno dopo, sul treno per Firenze, “dovetti” per forza scrivere questo racconto sul mio portatile.