Premio Racconti nella Rete 2020 “La suonatrice di violino” di Gaia Lauria
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020Non ci credereste mai. La gente che affolla i corridoi e le banchine della metropolitana – di qualsiasi metropolitana in qualsiasi città di qualsiasi continente – va di fretta per un unico motivo.
Ha paura.
Davvero! Una fottutissima paura.
Io lo so perché la sento. La paura ha un odore forte, pungente, nauseante. Sa di sudore. Di piscio vecchio. Di fiori marci. Non puoi sbagliarti. Le persone si accalcano alla biglietteria, si incolonnano ai tondelli, salgono e scendono scale e tappeti mobili, si spingono dentro e fuori dalle porte scorrevoli dei vagoni e, per tutto il tempo, si lasciano dietro quell’odore rivoltante. Li avvolge, li sovrasta, si spande in tentacoli di fetore, si mescola ai miasmi dei vicini in concerti ributtanti che, a paragone, la cloaca di una metropoli è un campo di viole.
E volete sapere di cosa ognuno di loro ha paura?
Di tutto.
Giuro!
Di ammalarsi, di sentire dolore, di morire o di dover sostituire il collega morto. Di perdere il treno, il lavoro, il partner o i documenti. Di fare tardi a cena, a teatro, al corso di mambo. Di dimenticarsi la spesa, l’appuntamento dal dottore, lo smartphone, le camicie in lavanderia. Di saltare il pranzo, la lezione in palestra, il ciclo. Di essere scoperti a rubare, a fingere l’orgasmo, a scopare con l’amante in ufficio o a scaccolarsi il naso. Che il tacco crolli, che la scala crolli, che la Borsa crolli o che magari l’intera metropolitana – per effetto di un attentato o un cataclisma, tanto è lo stesso – venga giù come un maledetto castello di carte. Del surriscaldamento globale, delle monetine incastrate nel distributore di bevande, dell’instabilità del Governo e, soprattutto, dei vicini in metropolitana. Quelli che stanno davanti dietro di fianco, che ti scavalcano e ti spintonano: che non ti facciano perdere tempo.
Ecco, questa di perdere tempo, è una cosa che proprio non capisco: corrono corrono corrono per tutto il tempo. Sbuffano e si agitano per ogni secondo di intralcio. Si scambiano messaggi di insofferenza, sguardi di malcelato odio per ogni passo incerto, per ogni incespicare dubbioso. Arrivano, si affrettano per le scale, montano in treno, scendono, imboccano l’uscita e via.
Io, beh, dovrei esserne contento. In fondo, se non si guardano intorno, tanto di guadagnato per me. Passo inosservato. E posso agire nel modo che preferisco: sguscio via radente ai muri, mi acquatto nell’ombra mentre le banchine si affollano, mi getto rapido sulla mia preda e, in un momento, mi do alla fuga.
Io? No: io non ho fretta. C’è tutto il tempo che voglio. Tanto qui, in questo groviglio di tunnel rotaie banchine scale e cancelli – che sia giorno o notte, estate o inverno, un anno o l’altro – non fa la minima differenza.
Tranne oggi. Oggi è una giornata speciale.
Oggi c’è lei.
Vi starete chiedendo chi è, questa misteriosa creatura che mi distoglie dalle mie attività.
La verità è che io non lo so. È la terza volta che la vedo, da quando mi sono trasferito qui, nella metropolitana. Però ne sono, letteralmente, incantato. Il suo viso di smalto, la figura sottile, l’unico gesto distratto con cui solleva il braccio piegato, raccoglie i lunghi capelli neri, si sfiora la nuca, li deposita compatti su una spalla mentre l’altra, in sincronia, si solleva ad accogliere il violino. Ne pizzica un poco le corde, ne saggia il suono, prova l’archetto. Socchiude gli occhi in cerca dell’attimo. Trattiene il fiato.
Le prime note si perdono nel tuonare di un treno in arrivo. Il frastuono isterico del suo partire ne trascina una manciata con sé, nel tunnel livido. Le successive sembrano levarsi incerte, disorientate. Presto il suono si adatta all’atmosfera del corridoio, si libera delle catene del rumore e lo sovrasta di un buon mezzo metro, librandosi nel canale a volta sopra le teste dei passanti. La musica, accorata, si arrotola in volute, rimbalza sulle piastrelle, si insinua nelle bocchette dell’aerazione, gioca a rincorrersi su per le scale, sfugge al controllo. E nemmeno per un momento lei solleva gli occhi dalla tastiera: il mento trattiene la base, la guancia sfiora la cassa, la ghiera dei denti bianchissimi si serra e si scioglie all’unisono con i passaggi che indovino più complessi.
Una studentessa. Ne passano tanti da qui. Li riconosci per l’aria impacciata con cui prendono posto e la stessa ostinazione a tenere gli occhi bassi, rapiti nel compito, assenti.
La gente per lo più li ignora o li gratifica di uno sguardo distratto, si sofferma un momento, lascia una moneta. Chissà perché vengono proprio qui: qualcuno li obbliga? Devono espiare una colpa, pagare un pegno, assolvere una missione? Sapete dirmelo?
Qualunque cosa sia, ha portato lei qui e me da lei. E non c’è niente da fare: mi blocco qui, mio malgrado. Lo so che è pericoloso: un rischio assurdo. Se i miei compagni mi vedessero perderei in un istante la mia affidabilità e il ruolo che mi sono conquistato qui sotto. Se gli altri mi scoprissero metterei a rischio la pellaccia. Eppure sono qui. Ancora pochi secondi, mi dico. Appena solleva gli occhi, mi ammonisco. Quando smette di suonare, mi ripeto. Che siano gli ultimi movimenti lo capisco dall’archetto che strappa acuti più enfatici, dal braccio che si tende drammatico, dal ritmo in crescendo isterico.
E, mentre mi preparo a vederla sollevare la testa dallo strumento e regalare alla folla distratta intorno a lei un unico sguardo distaccato, lo sento. Il tipico formicolio dietro le orecchie, i peli si sollevano, la schiena si inarca. Mi hanno beccato: qualcuno si è accorto di me. Mi guardo intorno nervoso e ne aggancio lo sguardo: eccolo là. Proprio di fronte a me, all’altro capo del corridoio. Una rapida occhiata mi basta: non è una guardia. Ma questo non vuol dire, direte voi: potrebbe avere lo stesso cattive intenzioni, essere – che ne so – uno di quei sadici che vanno in giro per la città.
Ma no, lui no: è uno che conosco. Passa di qua ogni mattina, alla stessa ora, cinque giorni a settimana. Stesso genere di vestiti, stessa aria frettolosa, stessa espressione annoiata.
Eppure si è fermato. E guarda me. Cioè, guarda lei e me. A turno. Quasi non potesse credere ai suoi occhi che ci sia vita al di fuori di sé e di averci incontrati, entrambi, in questo luogo squallido, caldo e sovraffollato. Che mi abbia visto non ci sono dubbi: so riconoscere lo sguardo tipico di chi si accorge di me. Sono pronto a scappare, a strisciare lungo la parete, prendere la prima svolta e cominciare a correre. Mi basta uno sguardo, un unico sguardo della mia sconosciuta incantatrice, e me la batto. Arrivederci, dita di farfalla. Ci rivedremo quando la tua condanna ti riporterà in questo pozzo e il suono del tuo violino mi richiamerà a te.
Mentre già scendo le scale al livello inferiore, attento che l’ultima infornata di passeggeri vomitati fuori dal treno non mi calpesti, rifletto sulla faccenda. Se uno come me potesse mai provare quel sentimento assurdo che voi chiamate amore, ecco: mi direi innamorato. E, in verità, potrei benissimo esserne capace: di provare amore, voglio dire. Perché quello sì che ha bisogno di esseri che sappiano riconoscere il valore del tempo. E che se ne facciano dono. E di tempo io, quaggiù, ne ho quanto ne voglio.
Come dite? Chi sono io?
Che sbadato: non ve l’ho ancora detto. Il mio nome è Dirp. Che nella mia lingua suona più o meno come “Passo veloce”.
Nella vostra invece mi chiamereste, semplicemente, ratto.
UN racconto incalzante, veloce come lo è oggi la vita specie in città in cui nessuno ha mai tempo. Piacevole seguire questo strano personaggio indefinito e sconosciuto, sorprendente il finale. Anche i ratti hanno un’anima.
Grazie per il tuo commento Maddalena. Conoscere le percezioni di chi legge ciò che hai scritto è un elemento importante. Se osserviamo attentamente, di personaggi strani e originali intorno a noi ce ne sono tantissimi: ognuno di loro ci racconta un pezzettino di verità.