Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2020 “Imperfetto” di Valentina Mattiello

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020

Quando aveva ricevuto la telefonata di Carlo, aveva capito dalla voce che qualcosa era successo.

“Prendi il primo treno”, gli aveva detto. “Papà”.

Alfonso aveva provato a prenotare un frecciarossa, poi si era deciso per la macchina, cinquecento chilometri senza soste, senza il tempo per i pensieri che il treno gli avebbe affibbiato. Stava male da qualche tempo, suo padre, e l’ultima volta che lo aveva visto, a Natale, la malattia si era manifestata ammantando la pelle del viso di una sfumatura come l’oro vecchio.

Era arrivato in serata. Il portone era spalancato, su un tavolino un panno viola che toccava terra, un quaderno aperto con le grafie scarabocchiate e una stilo che voleva sembrare solenne.

Aveva cadenzato i passi, poggiando punta e tallone su ogni scalino, la schiena curva. Sul pianerottolo i primi corpi gli avevano toccato il braccio, altri gli avevano afferrato il viso, dandogli un colpetto veloce e baciandolo, alcuni parenti avevano esclamato: E’ arrivato Alfonso.

Sua madre si era stretta, piccola, intorno al tronco, i capelli erano fili grigi raccolti da un elastico, lui non si era abbassato. Sentiva su di sè l’odore delle sigarette che aveva acceso e buttato a metà. Erano rimasti così, senza piangere. I fratelli stavano in piedi ai lati del letto, gli occhi bassi. Enza sciorinava i grani troppo grossi di un rosario in legno scuro, che pendeva sulle gambe.

La luce dell’abat-jour tagliava il corpo di suo padre in due. Era ancora più piccolo.

Sembrava inadeguato anche in quella posizione. Le sopracciglia interrogative, l’espressione rigida di chi chiede scusa per la sua esistenza terrena, e per l’ineluttabilità di quella futura.

Gli avevano chiuso la bocca e i piedi, con una stoffa celeste, sfilacciata ai bordi.

Alfonso gli aveva posato le dita sul viso, i peli della barba interrotta pungevano. Era freddo. Aveva istintivamente ritratto la mano e un calore aveva preso a fluttuargli nelle vene, come se qualcuno gli stesse iniettando un liquido caldo.

Com’è successo?, mormorava una voce giovane nel salone, interrotta da quella di un bambino lallante.

Era questione di giorni, ha smesso di soffrire.

Sul comodino Luciana e Tommaso sorridevano in una cornice, vestiti di bianco e nero. Lei con un bouquet di rose ad altezza ombelico, lui con le braccia lungo il corpo.

La gente avrà da dire se nessuno si alza prima della benedizione. Te le scrivi su un foglietto due parole, dici quanto era buono, quanto ci teneva a farvi studiare, il bene che vi ha voluto. Una cosa semplice. Così Luciana, prendendolo in disparte e dandogli un bicchiere d’acqua dal rubinetto.

Nessuno di loro era mai stato un grande oratore, eppure adesso la situazione richiedeva un atto di riconoscenza, un gesto di generosità verso quella figura paterna, eppure estranea.

Alfonso agli occhi di sua madre era quello con la laurea, quello che andando via, finiti gli studi, aveva visto e vissuto più degli altri. Scriveva quotidianamente degli altri. Di estranei a cui succedevano cose. Era lui quello adatto a pronunciare un discorso sull’altare.

Il “bene che gli aveva voluto”, solo perché aveva messo al mondo tre ragazzi, Tommaso non era mai stato bravo a dimostrarlo. Non per cattiveria, o per egoismo, piuttosto per una specie di inettitudine agli affetti, un’impreparazione congenita che non aveva mai arginato.

Con Alfonso ci aveva anche provato a fare il padre: lo aveva tenuto in braccio, come un oggetto sconosciuto e fragile, gli aveva dato da mangiare, con la sua forchettina e il suo piattino, lo aveva pulito col tovagliolo, provocando minuscoli bronci.

Poi erano arrivati gli altri due, Carlo e Umberto, gemelli dai capelli rossi che somigliavano poco ad Alfonso e molto a lui, e da allora non aveva più saputo rincorrere il concetto di famiglia, non era più riuscito a comprendere il motivo del suo matrimonio con una donna così giovane, riservata e inadeguata, almento quanto lui. Aveva percepito solamente l’urgenza  di Gigliola di organizzargli l’esistenza, attraverso l’uscita di casa e l’unione con  Luciana, venuta al mondo quando lui di anni ne aveva già diciassette.

Tommaso era cresciuto senza genitori, allevato da quella sorella che gli aveva fatto anche da madre, non lo aveva fatto più studiare, e lo aveva mandato a lavorare, ad aggiustare macchine all’età di 11 anni. A imparare, così, un mestiere.

Era stato sempre un gran faticatore, dicevano al rione, un uomo casa e lavoro: usciva alle sette, non tornava a pranzo, non prendeva i ragazzi a scuola, non li aiutava con i compiti.

Rincasava alle sei, si lavava fino ai gomiti, si spazzolava le unghie per togliere il grasso.

Luciana riponeva gli aghi, gli scampoli, chiudeva la Singer e accendeva il forno. Lo sentiva pisciare a lungo, dalla cucina. Tommaso arrivava, con le scarpe pesanti ancora ai piedi, dinoccolato, i capelli rossi in disordine, i lacci lenti, la tuta.

Si sedeva a tavola e mangiava quel che gli aveva riscaldato, apparecchiando la tavola solo da un lato, con la tovaglia piegata per metà.

Lo aveva fatto Gigliola, per quarant’anni, poi Luciana, sposando quell’uomo taciturno, dall’anima affastellata. Si sedeva con lui a volte, abbassava il volume della tv, e gli raccontava i fatti di Enza, che ogni giorno alle due bussava alla porta, e con la scusa del sale, dello zucchero, di una testa d’aglio in prestito, si fermava a prendere il caffè e la aggiornava su decessi, matrimoni, litigi, separazioni, aumento del gas e della luce, testimoni di geova, scout che cercavano soldi, eredità, lavori in nero e altre cose del vicinato.

Negli ultimi tre anni quando lo guardava cenare, gli parlava di Alfonso.

Ha telefonato stamattina, diceva, ti manda un saluto.

Alfonso aveva preso il diploma scientifico, si era iscritto a Filosofia, e aveva cominciato a lavorare nella redazione di un quotidiano, a Firenze, allontanandosi da tutti alla prima occasione.

Adesso sono tutti in chiesa, disposti nella prima fila del banco. Il prete sta per celebrare l’eucarestia.

“Prima di dare un ultimo saluto al caro Tommaso, il figlio Alfonso vuole dire qualche parola”.

Alfonso sale sul pulpito, le gambe sono due tronchi vecchi con le scritte degli innamorati incise, guarda a destra la bara aperta prima dell’ultimo scalino basso e largo. Si ferma, va dietro il leggìo, aggiusta il microfono, che emette un sibilo.

“La prima volta che siamo andati al mare, la prima che ricordo, ho preso la mano di mio padre, e l’ho trascinato a riva. Lui era sotto l’ombrellone, la crema sulle spalle e sul naso ancora bianca, e fumava, facendo cerchi nella sabbia con la mano inoccupata. Vai tu, aveva detto. Ma io lo tiravo. Senza guardarlo allora lui mi ha detto Non andare troppo in là, che ci stanno i mulinelli. Mia madre ci guardava. Non mi ha insegnato a nuotare, mio padre, perché lui non sapeva nuotare. Un giorno si era messo in testa di voler imparare, aveva già superato i cinquanta. Un bambino si era avvicinato ridendo, vedendolo muoversi sul bagnasciuga, a pancia in giù, come un coccodrillo. Si reggeva con le mani sulle pietre. Allora gli ha allungato i suoi braccioli, e mio padre li ha indossati.

Si era prima bagnato le braccia, in modo che potessero scivolare meglio, ed era riuscito a farli salire solo sull’avambraccio. Con quei palloncini mezzi sgonfi era rimasto lì, e le braccia galleggiavano. Altri due bambini erano accorsi, con le pistole ad acqua, e sghignazzavano, indicandolo.

Avrei voluto dare un pugno a quei bambini, e allontanarmi, sparire, non farmi vedere mai più su quella spiaggia. Invece poi mio padre uscì dall’acqua, si tolse sgraziatamente i braccioli, li restituì, mia madre gli fece segno di comprarmi una granita, lui non capì, allora lei indossò un pareo e venne a portargli una banconota stretta in un pugno. Poi tornò sotto l’ombrellone, girandosi ogni tanto. Lui prese la granita dalle mani del ragazzo col carretto, e pagò dandogli la banconota piegata.

Mio padre non mi ha insegnato a nuotare, e non mi ha insegnato molte cose. Ad andare in bicicletta, sui pattini, a disegnare, a parlare bene. Aveva appreso la lingua semicolta, e a sforzarsi sbagliava i congiuntivi. Era imperfetto.

Una volta mi portò in officina, e mi fece vedere come aveva lisciato un’ammaccatura. Prima si mette la pasta, aveva detto, quella gialla, e poi la vernice. La vedi che è brillante?

È metallizzata?, gli avevo chiesto. Sì, brillante.

Senza guardarmi negli occhi, curvo, piccolo, aveva passato un panno daino sullo sportello.

Sei bravo, lo avevo incoraggiato. E questo faccio, io qua, aggiusto.

Lui aveva sorriso, con una contentezza che non era mai rotonda, era inadeguata e dubbiosa pure quella, un sentimento che lo metteva sempre nella condizione di chi sta chiedendo scusa. Arrivò un collega e lui agitò il panno in aria. Io dissi Ciao, mettendomi una mano in tasca e prendendo la sua, che era sudata e molle.

Mi imbarazzava quando fumava davanti agli altri, perché era avido con la cenere, e avrei voluto che quella avidità l’avesse riposta nelle cose della vita, con mia madre, con me, nei suoi desideri, se ne aveva mai avuto. Non fumavano mai insieme.

Quel sorriso gliel’ho visto in riva al mare, quel giorno di luglio, mentre mi dava la granita, solo che non l’ho capito. Non ho afferrato la pienezza, la felicità di chi sta facendo una cosa che gli piace.

Perché aveva paura del giudizio di tutti, mio padre, forse anche di noi, dei suoi figli. Tranne quel giorno, in spiaggia.

Non sapeva levigare i rapporti, non vedeva le ammaccature negli altri, viveva per sé, provando a stare a al mondo, galleggiando.”

Alfonso guarda la bara. C’è silenzio. Poi guarda sua madre, tiene gli occhi sulla bara pure lei, e stringe le mani di Carlo e Umberto. Un canto si leva.

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7 commenti »

  1. Il ritorno di Alfonso e l’elogio della imperfezione, elogio tardivo, come capita, a volte. Brava Valentina.

  2. Grazie per averlo letto, Luca.

  3. Caspita Valentina che bel racconto
    Fluido e incalzante. L’ho letto tutto d’un fiato.
    brava

  4. Ti ringrazio davvero, sono contenta. 🙂

  5. Che bel racconto, ma proprio bello bello. Complimenti

  6. Un racconto molto bello, tutto fatto di ricordi e silenzi, su quello che si lascia e su quello che non si riesce a comunicare, su come i sentimenti restano a volte imprigionati, e vengono solo intuiti attraverso piccoli gesti o un inatteso sorriso. Bellissime le immagini della contentezza “che non era mai rotonda, era inadeguata e dubbiosa pure quella” e delle ammaccature che “non vedeva negli altri”. O forse sì, ma non sapeva ripararle. Complimenti Valentina, brava.

  7. Grazie Ottavio e grazie anche a te Marco, siete davvero gentili.

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