Premio Racconti nella Rete 2020 “Particolate sospensioni Milla: una voce tra i pensieri” di Francesca Beozzo
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020Pensavo da un po’ di tempo, e quando sto così, mi vedete no? Insomma, così a testa in giù, con le gambe appoggiate alla parete, i capelli che cascano dal letto e sfiorano di poco il pavimento, i binocoli che sono costretta a portare buttati sul cuscino. Perché a che servono degli occhiali per pensare? Solo così rifletto meglio. Riesco a far fluire le idee come un Bacco pronto a sbronzarsi ad una festa di matrimonio pagano, senza però dare nell’occhio. Tutta la mia vita è stata un continuo, inesorabile, incessante passare inosservata; come posso spiegarti, direi come quei pacchettini di caramelle senza zucchero in mezzo ad una spesa per il cenone di Capodanno. Sarà perché non ho questa primaverile bellezza da Venere del Botticelli; il mio migliore amico un giorno di chissà quale estate, era piuttosto caldo in effetti, mi guardò trasognato e ridendo disse: – Milla, non te la prendere. Stai simpatica.- Poi si girò di nuovo a guardare “Flora” di Arcimboldo, piegò il labbro in una mezza smorfia divertita e se ne andò lasciandomi con un palmo di naso a guardare il pavimento della stanza. Avevano intassellato proprio con cura le assi orizzontali e poi quelle verticali, ripetute in serie, sfalsate, un modulo semplice che ripetuto una, due, tre, cento volte era diventato caotico. In tutta me stessa ho sempre visto la complessità dei fili intrecciati, i pavimenti piastrellati, ma dove fosse il primo tassello o che forma avesse, probabilmente, non lo avrei mai saputo.
Giustamente, però, voi sarete interessati a sapere che fine avesse fatto il mio amico. Quel pomeriggio, percorsi a ritroso i corridoi del museo e ne uscii ancora mezza stordita dal colpo subito. Lo vidi. Se ne stava appoggiato con mezzo avambraccio al banchetto della biglietteria, mentre con fare disincantato e un sorriso appena abbozzato s’intratteneva con la ragazza che ci aveva fatto pagare qualche ora prima per accedere alla galleria. Iniziai a vederci nero e rossa di rabbia con la bile verde, presi la mia bicicletta e senza una parola me ne tornai a casa. Non lo volli vedere mai più. Non so che fine abbia fatto. Guardando i fatti come un narratore esterno, direi che questa è la migliore storia che riuscii a cucirmi addosso; assomigliava molto a quel pane e zucchero che nonna mi preparava per nascondere il sapore amaro dello sciroppo, che con ogni influenza si presentava meschino sul comodino del mio letto.
Per dimenticare, ma io non scordavo. Devo essere sincera: quel giorno non andò proprio così, che ci volete fare, vi sembro una persona che può permettersi di perdere l’unico essere umano, oltre mia madre, che spreca il suo tempo ad ascoltarmi? Lo vidi parlare con la ragazza della biglietteria, mi sedetti sui gradini consumati dalle suole di chissà quanti bambini urlanti, genitori disperati, maestre furibonde. Forse, mi ero seduta dove l’anno prima un ragazzino di prima media aveva fatto cadere il suo pranzo in gita di classe o dove il vigilante si era fatto scivolare tra le mani il primo caffè della giornata, quello senza il quale il mondo non può proprio, assolutamente, partire. Aspettai. Non so quanto rimasi in attesa. Prima la mano destra, appoggiata, come quei barocchi fermalibri marmorei, sotto il mio osso mandibolare, le unghie impuntate sull’arcata zigomatica; dopo un po’ cambiai verso, era adesso il mio gomito sinistro che schiacciava il ginocchio omolaterale, incrociato per non perdere l’appoggio su quello di destra, e così in quest’intrico di arti me ne stavo a sgranocchiare meccanicamente le cuticole del mio dito indice. Mi addormentai sotto il caldo atroce di quel pomeriggio.
Perché lo aspettavo? Ve l’ho già detto, anche se ammetto che ancora adesso, così con i talloni appesi alla parete della mia stanza, ci penso in modo furibondo. Tornammo a casa insieme, quella sera, scherzando come niente fosse accaduto e in fondo non era successo proprio nulla. Quando entrai per porta, la cena era già pronta in tavola; andai così a lavarmi le mani e alzai gli occhi, che per tutta la giornata avevo tenuto abbassati, rimuginando su me stessa. Vi dico, lo spettacolo non era dei migliori, i capelli stavano arruffati, le congiuntive erano arrossate da tutte le lacrime che sarebbero saltate fuori come le armate di Torismondo nella battaglia dei Campi Catalaunici. Così sbagliata. Possibile che in me nessuno vedesse nemmeno una spoletta di filo mezzo sfilacciato da tirarci fuori qualcosa di sufficiente, insomma, di mediocre?
Ditemi se sbaglio, allora non stavo chiedendo che qualcuno mi salvasse, elemosinavo un orecchio che sapesse prestare attenzione alle parole. Non mi sarei mai spinta, con tanta arroganza, a chiedere dell’attenzione per delle virgole, sarebbe risultato eccessivo, magari nemmeno per delle singole e solitarie parole, mi sarei accontenta dei periodi o dei paragrafi o anche del riassunto di me stessa.
Mi sto domandando se questo può essere definito un soporifero monologo. Magari, voi che state leggendo, proprio ora, queste righe sbilenche, in realtà state solo in un nebbioso dormiveglia. Abbassate le palpebre fino alla rima degli occhi, si dischiude una minima feritoia, un oblungo orizzonte attraverso il quale le realtà si mescolano, un vetro corneale in cui si dispiegano nuove consapevolezze e poi per essere un monologo, quando mai sono stata effettivamente sola? Certo, amici con tutte e duecento-sei ossa, un polmone bilobato a sinistra e trilobato a destra, una peristalsi intestinale come si deve e su per giù trentacinque vertebre non ce li ho mai avuti, però questo non significa che tutto il mondo sarebbe dovuto crollare. In qualche modo bisogna arrabattarsi in questo brodo primordiale che è la vita.
Prendevo un vinile dalla libreria di mio padre, lo appoggiavo sul giradischi e iniziava quel leggero silenzio di suono mancato, i bianchi veli delle tende si spostavano nell’aria giocando strane forme di luce sulle pareti, sul pavimento, il pulviscolo sospeso, in attesa di chissà quale evento, il profumo dei peschi danzava fino alla mia finestra e stavo ore distesa sul tappeto a guardare il soffitto attraverso la mia mano stretta in un pugno quasi completo. Arrivò così, come arriva la primavera, la notizia della morte di mio padre. Gli ultimi raggi del sole accompagnavano ogni sera le mie lacrime lungo le guance, verso i lobi delle orecchie, lungo il collo e di colpo, come la vita passa alla morte, le ritrovavo disperse allargate deformi tra i fili blu e panna del tappeto o incise come marchio infernale tra le righe orizzontali, una seguente alla successiva, in lenta ripetizione, stampate da chissà quale editore sui fogli delle mie agende. Attila sarebbe stato felice di vedere le armate barbare di Torismondo il Visigoto ritirarsi, convinte di vittoria certa e lasciare il povero Ezio, lì sperduto, combatterlo faccia a faccia senza inganni; eppure la perdita delle mie lacrime aveva poco a che fare con qualche vittoria e tanto meno con qualche resa. Era un limbo senza dolore, dove la rabbia lasciava spazio alla solitudine di un’anima, le domande che in un primo momento si erano accalcate, come quelle tonde massaie che andavano a far la spesa all’alimentari del paese, soffocavano nell’indifferenza, negli occhi abbassati di chi non ti conosceva, ma alla fine sapeva tutto di te e come se provare vergogna fosse la mia punizione passò anche quell’estate. Smisi di essere indifferente e con la perdita della mia indifferenza finirono anche i sorrisi. Piano, piano non compresi più come le persone potessero provare gioia, amore, libertà, fiducia. Ditemi, non le sentite anche voi, in questo preciso momento, così dette, fuori da ogni contesto, delle parole così nude, così sterili? Delle statue granitiche di dimensioni colossali, d’ineffabile bellezza, ridotte ad essere viste come laborioso artificio umano, un’abile mano che ha però solo scolpito della grigia e fredda pietra, una Nike alata di un qualunque museo parigino che non vive più la sua pagana commedia, ma recita solo una terribile parte, prigioniera di una tragedia non più sua, ma che non apparteneva nemmeno più a me.
Ci impiegai qualche mese per ritrovare tutti i cocci dispersi negli angoli più impensabili della mia vita, sicuramente tutto questo tempo fu dovuto al mio miopismo che non mi permetteva, senza gli occhiali, di riconoscere in modo molto distinto se a parlare fosse mia mamma o la suocera dell’amico del marito della figlia della nostra vicina di casa.
M’innamorai quando i cocci non si erano ancora per bene incollati tra di loro. Il risultato fu quello d’aver costruito un Burj Khalifa senza minimamente aver pensato di metterci delle fondamenta. Crollò tutto al primo battito d’ala d’una elegantissima Morpho menelaus.
Cambio un attimo posizione, tutto questo pensare oltre alle idee mi sta facendo fluire anche troppo sangue tra le arterie cerebrali. Lo avete mai visto un cervello? Quella silhouette tozza, massimale, grossolana avviluppata da rossi fili come un enorme batuffolo di zucchero a velo? Nessuno ci pensa mai a riderci sopra? Ricerchiamo quotidianamente, in modo ossessivo la perfezione della forma, l’eleganza del gesto, l’essenziale bellezza eppure dipendiamo da una massa poderosa, ridicola, troppo alta, troppo grossa, troppo poco femminile, troppo fuori dai canoni. Tutte le galassie che riempiono le trecentosessantacinque notti dell’anno colmano i nostri occhi e fanno traboccare i nostri pensieri, ogni filo d’erba su un prato di campagna è misteriosamente compreso tra esterno ed interno, ogni dio è nato prima di noi e con noi, non si allontana mai dalla nostra più profonda essenza ed il limite si riduce ad ogni passo. Non vi sembra tutto così terribilmente sbagliato e ridicolo?
Dicevo, ora che la testa la tengo in alto e i piedi saldamente adesi al suolo: m’innamorai, follemente, di un’idea o forse era un ideale e così, come certe volte accade, quando si riversano troppe speranze, si resta tramortiti a brache calate a testa in giù, in pochi centimetri di acqua, ad annaspare. Amare troppo, incondizionatamente, senza dare un fondo alle proprie risorse e alle proprie riserve, lentamente consuma, e senza rendersene conto si arriva alla fine e in mano non si hanno più pagliuzze e pepite d’oro di un qualche fortunato protagonista d’un film di Sergio Leone, ma resta soltanto la polvere e lo sterco di vacca di qualche mandria passata di lì mesi o settimane prima. Ma, ormai mi conoscete, questo mio filo dei pensieri lentamente si aggroviglia e poi si distende e certamente voi siete solo curiosi di sapere che fine abbia fatto quello che un tempo, per pochi brevi istanti, per una qualche irriverente inconsapevolezza giovanile avevo creduto, scambiato, preteso essere l’amore della mia vita. Sarò molto sincera: lo dimenticai, come tutti i grandi amori che nascono dal niente. Il sangue mi ribollì nelle vene per mesi interminabili, piansi come se fosse stata tradita una promessa, mi vedo ancora, lì, a guardare febbrilmente il mio riflesso nello specchio, come a cercare delle risposte che non trovavo, ma lentamente tutta la rabbia, il dolore, l’umiliazione passarono tra i veli nebbiosi dei ricordi. Non so dove sia ora, ma so dove sono io adesso.
Tutto questo chiacchierare in religioso silenzio, mi ha fatto perdere la cognizione del tempo. Sento solo il brontolio sommesso del mio stomaco, una ciurma pirata in rivolta tra acqua, sale, acido cloridrico e tanto muco. Dovrei alzarmi per andare a preparare la cena. Da quando decisi di lasciare casa per trovarmi un lavoro, lontano da tutti quei volti smilzi che conoscevo ormai a memoria, i nasi aquilini, che diventavano rossi per la vergogna o per qualche bicchiere di borgogna di troppo, gli occhi ravvicinati, le sopracciglia folte e corrucciate, quelle sottili e quasi invisibili, le labbra affilate come lame di coltelli con denti sottili come palazzi parigini, da allora la cena me la preparo da sola. Pensate bene, vivere in solitudine, non è tutto questo gran affare. Ditemi voi, che si guadagna? La libertà, direte voi. Eppure questo spazio aperto, informe, lusinghiero e alle volte ostile, che mi si presenta ogni mattina quando apro la porta di casa, mi lascia sempre un retrogusto amaro, un non so cosa di pauroso, un’incertezza bambina. Mi sento come uno di quei rossi aquiloni che proprio non riescono a prendere la rincorsa e a spiccare il volo. Carte brillanti ed impertinenti che ad ogni giro di vento svoltano bruscamente percorso, rischiando terribilmente di rimanere impigliati e strapparsi tra qualche appuntito ramo.
Lo avete mai assaporato un caffè, alla sera, appoggiati alla ringhiera del balcone della vostra casa, mentre guardate la notte che sale? Diciamo che è come stare davanti ad un Rothko e non avere la minima conoscenza logica dei processi mentali ed artistici che ne fanno un’opera di valore inestimabile, ma nonostante tutto restare lì, fermi, spezzati, ipnotizzati da limiti orizzontali, confini che non sussistono, campiture definite, prossime all’indeterminato. Il cielo s’è coperto e fino all’orizzonte si sono distesi lunghi e gonfi nuvoloni carichi di tempesta. Si approssima l’autunno ed io ho ancora in testa il profumo acre e pungente della vecchia casa di campagna. Il pagliericcio rinsecchito, abbandonato agli angoli della stanza comune, le grasse galline che gironzolavano, beccando tutto quello che trovavano, senza poi grande interesse, le bianche pareti, fredde ed umide, anche in piena estate, come solo i muri delle vecchie case sanno poter essere. Diciamo che quando andavo a trovare nonna, era come ricevere un biglietto di sola andata per le isole Svalbard e il deserto del Kalahari. Eppure ogni pomeriggio, quando mi distendevo sulla brandina mezza arrugginita al primo piano, sentivo quanto la vita fosse completa, piena. Il sole che filtrava tra le tende e si distendeva assonato, pigro tra le assi del pavimento, accompagnava tutti i miei pensieri, l’informità dei miei vagheggiamenti molto simili a chi completamente fradicio di alcol cerca di riavvolgere il filo logico delle proprie parole e inciampa sul chi e sul come di ogni azione. Un’estate di sonore risate, folli ubriacature, il primo e ultimo passo che sentii appartenermi. Niels Bohr sarebbe stato soddisfatto nel sapere che ogni singolo, esuberante atomo del mio corpo stesse in un’orbita fissa, quantizzata, ma precisa; eppure qualcosa stonava anche in tutta quella perfetta linearità. Non mancò molto che anche il sogno di razionale precisione teorizzato venne scardinato e quella determinatezza abbandonata per orbitali, equiprobabilità, e percentuali. Tornata a casa, sprofondai tra i cuscini del vecchio divano e quello che tornai a vedere fu soltanto lo smalto del soffitto un po’ scrostato. La mia mano, me la ricordo ancora, si muoveva avanti e indietro, spostando il velluto color cachi dei cuscini, e i pensieri galoppavano veloci fuori da quelle quattro pareti. I Padaung, come mi piaceva chiamare quei sottili papaveri che allungavano il loro esile collo leggermente oblungo verso il sole, erano ormai lontani, lasciati riposare tra le pieghe dei ricordi, stoffe ritagliate e dimenticate, un po’ per caso, un po’ per noncuranza sul pavimento di una sartoria.
Infinita libertà, in fondo anche amore, risicato, ma pur sempre amore, pienezza di vita, bellezza avevano riempito i miei occhi folli. Quella tenacia, che solo nel silenzio cresce, che germoglia dopo le peggiori tempeste, una sorta di sopravvissuta, sta ancora qui sulle mie spalle ad accarezzarmi i capelli. Sapete, con lei ci parlo certe volte quando mi sento sola, spezzata, incompresa. Scruto l’angolo delle sue sopracciglia, vedo l’incrinatura delle sue labbra, mi faccio accompagnare ad ogni ticchettio del vecchio orologio. Lui ha visto tutto; stava sopra il frigorifero della casa dove vivevano i miei genitori quando arrivò la notizia della dipartita di mio padre, della resa alla armi. Vide tutto. Vide la carta nel caminetto che si accartocciava e bruciava ogni lettera d’inchiostro, la vide scomparire tra le fiamme e restare cenere. Vide che non tornò più indietro. Vide la cucina, svuotarsi, prima degli oggetti che l’avevano resa giovane, provocante, materna, poi delle persone. Rimase solo lui. Penso.
L’aria che all’inizio sferzava violenta il mio viso ora è solo una materna carezza, un dolce cullare dove anche il mio corpo ha perso di sostanza, sospeso, etereo, immortale in un battito eterno.
Dalle nuvole sopra la mia testa sfuggono tonde e pesanti gocce di autunnale pioggia. La tazzina che mi ero portata alle labbra l’ho dimenticata sul balcone. M’era balzata in testa un’idea così folle, imprevedibile, informe che avevo abbandonato tutto.
Mi ero ricordata di qualche estate fa quando con mio marito andammo in un paesino dell’entroterra, il viaggio con i finestrini abbassati, il vento caldo che batteva sulle nostre pelli, una musica in sottofondo che le stazioni della radio erano solite mandare, e svoltata la curva, quell’immenso campo di papaveri, come una abnorme e primitiva ferita della terra, colavano rosso sotto un infuocato sole di mezza estate. La vidi, lì, tra quegli steli raccogliere gli ultimi fiori, farne corone. Quel quadro rapito, rapido e fuggevole aveva catturato la mia attenzione e per anni lo avevo portato con me senza rendermene conto, come una cicatrice dell’anima.
Era ora che tornasse a volare in cielo libero e solitario, senza repentini cambi di rotta dovuti alle mutevoli correnti aeree. Si librava solo, audace, bambino. Sarebbe cresciuto, ma i suoi occhi sarebbero rimasti gli stessi.
Pensavo.
Ora però, mi servono proprio quei binocoli che ho lasciato… non li trovo più. Sotto il cuscino. Devono essersi spostati mentre mi rigiravo sul letto. Il sangue al cervello non fa mai pensare troppo lucidamente e quando ci si alza tutto il mondo gira, ha una luce un po’ sua. Non credete anche voi?
Ora, sicuramente, in questo tempo, che vi ho sottratto, ho tediato le vostre orecchie anche troppo. Erano solo pensieri, resti, frammenti, particelle scomposte di voci che s’interfacciano le une con le altre senza un ordine, senza un orizzonte, senza confini.
Certo, avrei voluto scrivere di sistemi quantistici e massime teorie irrisolte, di Dante ed Ariosto, nella stessa stanza, ad accapigliarsi su chi abbia più di tutti conquistato l’amabile cuore della lettrice, forse un po’ troppo appisolata su pagine e pagine di terzine e fili che si lasciano e si riannodano in un labirinto verticale di poesia e violenta realtà, del povero Niztche che non trova mai il suo superuomo, disperso ad osservare fumosi arabeschi, che salgono sonnacchiosi da una tazzina di caffè amaro alla prima luce dell’alba; cosa starei raccontando? Vorrei scrivere di logica e perfezione, trafiggerei così con acuminata freccia il superbo Antinoo. Chi li racconta però gli occhi del triste principe greco che si invaghì dell’avveduta Penelope e dopo lunghissimi anni di fervida attesa si vede scivolare addosso la vita, rossa come il sangue che zampilla oltre ogni misura e ragione dallo squarcio feroce nella sua carne, sconfitto dalla sorte che ha fatto cadere la moneta sulla faccia sbagliata. Scriverei di Antinoo che si vede sottratte le lacrime, la donna amata, il desiderio, la vendetta, scriverei dei giorni che passano nei ticchettii delle lancette di un vecchio orologio anni settanta dimenticato in una cucina, scriverei di Milla che in una vita mancata ha scoperto quante lacrime possono scorrere tra le particolate particelle, le bianche nebbie del cielo che leggero le pesa sopra la testa. Scriverei. Scriverei per lasciare spazio all’inutile gesto, al pensiero scomposto, all’intrecciarsi furibondo di oblunghi papaveri nei lunghi pomeriggi assolati di mezza estate. Scriverei del vento che nel silenzio ha trasportato i nostri sguardi di perfette sconosciute da un capo all’altro di questo mondo.
Scrivo di Milla che una voce non ha mai avuto, o forse è la voce di tutti noi.
Ho letto più volte di seguito questo complesso racconto, fino a che non ho cominciato a confondere il prima con il dopo e mi sono fermata. Mi affascina anche se non lo capisco. Forse mi affascina anche perché non lo capisco e ci vedo dentro spazi sconfinati, specchi che ripetono all’infinito gallerie interiori, mille facce sovrapposte di un coro greco. La tua scrittura è sapiente e sofisticata, molto suggestiva. Un po’ mette soggezione, un po’ meraviglia. Tornerò a leggerlo per cercare di scoprire il filo che tiene insieme le tante vivide istantanee e i quadri profondi. Mi piace.
Ti ringrazio veramente per aver speso del tempo nel leggere il racconto. Mi fa molto piacere. Per sciogliere un po’ i fili, le voci narranti sono due, oppure è una sola che si è calata completamente nella storia che sta narrando, forse ad un certo punto la protagonista dalla storia scompare per lasciar spazio alla vera narratrice.
Il famoso stream of consciousness… un pensiero aggancia l’altro, nella frenetica corsa alla ricerca della propria identità. Chi siamo? Ci piacciamo? Le analogie sono vivaci e molto creative. Ottimo lavoro!
Grazie mille Michela!
Una magnifica scrittura piena di riferimenti colti. Sarebbe un ottimo capitolo per un romanzo autobiografico. Direi proprio l’ultimo, quello che chiude tutto lo sforzo narrativo con un bel flusso di coscienza.
Il racconto breve, forse, ha un’altra tessitura, esige altri tempi. Spesso è poco più di una barzellettona che fa subito splash.
Se ne ricaverai un romanzo lo vorrò proprio leggere.
Commento molto apprezzato. Grazie mille Leonardo.