Premio Racconti nella Rete 2010 “Il sapore del mare” di Paolo Sterlicchi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010
Il caldo, quell’estate, ci aveva inghiottito. L’asfalto scivolava lentamente e le lunghe linee delle strade sembravano curvarsi sotto i raggi del sole. La città era letteralmente impazzita. Gli abitanti si affollavano nei bar, mentre i ventilatori pigri e chiassosi solleticavano la canicola senza che quella massa metallica si facesse tagliare. Il vociare delle donne al mercato e dei bambini che scendevano le scale della scuola si perdevano e si dilatavano nell’aria.
Quei giorni anche per me trascorrevano come quasi eterni attimi di nulla. Avevo perso il mio lavoro di operaio specializzato e stavo cercando una nuova occupazione. Proprio quella mattina, la mente fatica a ricordarlo, ero diretto al centro per l’impiego. Chissà se avessi avuto qualche chance. Ero ancora giovane e il mio corpo forte e fiero mi seguiva ovunque. Ma la crisi, quella maledetta voragine, quel buco nero. Che rabbia. Migliaia di persone avevano perso il loro impiego: crollo di banche, imprese e dirigenti con i debiti alla gola. I giornali grondavano pessimismo e la situazione certo non sarebbe migliorata.
Mi incamminai.
“Crac della finanza”. Cento metri dopo: “Le piazze accusano il governo”. Subito dietro l’angolo: “La città è morta”. Di questo passo, pensai, verremo soffocati prima dalle parole che dai fatti. La vita, però, quella mattina scorreva più indolente del solito. Lo scivolare e il frantumarsi in mille pezzi di una goccia della fontana tra la 10^ e la 15^, si intonava al ticchettio dei clacson, che il caldo infernale attutiva fino a farli sembrare innocui movimenti di lancette d’orologio. Rimasi colpito dall’oscillare pensoso delle valigette 24 ore di eleganti uomini di affari che serpeggiavano a zig zag per i marciapiedi roventi. Quanti pensieri dovevano contenere, quanto tempo rappreso.
I miei passi e i miei pensieri, nel frattempo, mi avevano condotto alla meta di quella mattina, il centro per l’impiego. Un anonimo edificio quasi fuori dell’abitato mi aspettava con le sue tende verdi, scialbe e le opache vetrate. La porta, alta e poco oliata, si apriva e si chiudeva a ritmo costante. Mi avvicinai, a passi lenti, salii. I gradini mi ritmavano il respiro, e nell’afferrare la maniglia, in alto, sullo stipite, proprio all’ingresso, un particolare, forse in quel momento insignificante, mi immobilizzò. Un punto nero e peloso si dimenava, oscillava e ricadeva a scatti nei sottili fili di una ragnatela. Frullava le ali, alzava e ritmicamente rilassava le zampette, si attorcigliava su se stesso e più si dimenava per librarsi nell’aria, più la libertà si allontanava. Si riposava, adesso, e poi, poco a poco quella danza tra la vita e la morte riprendeva.
«Numero37». Una voce, bruscamente, si immischiò nei miei pensieri. « Numero 37» – scandì in un tono che faceva ravvisare una certa fredda cortesia – «Venga, tocca a lei. La sua pratica è pronta», sentenziò, mostrandomi un incartamento di una certa consistenza, agitato dall’aria mossa dal ventilatore. I fogli, si aprivano e chiudevano e sembravano parlare tra loro. Chissà che cosa si stavano dicendo quelle pratiche ammuffite. «Ehi, salve, io sono la cartella di John Smith, coltivatore diretto, età 23, in cerca di occupazione nel settore edilizio. Chi vuol parlare con me?» .
«Come le stavo dicendo – interruppe, discretamente, questa volta, le mie fantasticherie – questi sono i suoi documenti. Li ho esaminati attentamente. Cosa ne direbbe di un impiego presso l’Università come giardiniere?». «Per me va bene», risposi senza troppo entusiasmo. La signora T, la chiamerò, per via della sua altezza interrotta da due goffe ed enormi spalline, il suo vero nome non lo so e mai avrei osato chiederglielo, abbassò nuovamente gli occhi e il ticchettio di una vecchia Olivetti fece schizzare nel foglio la mia nuova occupazione. Tic Tac: suoni metallici.
Forse, il caldo o lo stridore battente di quei tasti mi trasmettevano un forte disagio; nervosamente mi attorcigliavo le mani e una sensazione di tensione e irrigidimento mi scivolava addosso insinuandosi dal collo alla schiena. La porta si apriva e si chiudeva ritmicamente e a tratti si acuivano gli schiamazzi dei bambini che scorrazzavano in attesa dei loro genitori, chiusi nei vari uffici. I tacchi delle impiegate che tamburellavano sui pavimenti per assegnare altre speranze, si mescolavano con i tasti del mio nuovo destino. Un acre ventata di muffa e sudore si aggiungeva ai suoni e colori che stavano tempestando il mio corpo. Mi sembrava di essere finito in un ripostiglio segreto e remoto della mente, in quel luogo dove nascono sapori e impressioni, in quel punto dove la massa informe della realtà acquista un significato. Ero inebriato e stordito ma in un attimo, immerso in quell’istante, come il mio corpo già da diversi minuti aveva previsto, qualcosa di terribile iniziava ad accadere. A scatti, le luci si abbassarono e si riaccesero. Ora, i bambini tacevano: la porta non si chiudeva più. Un tonfo di silenzio. Quel mio strano malessere si stava spostando dalla schiena allo stomaco. Gli occhi erano rigidi e la bocca vibrava lentamente accennando ad un ghigno. Le spalle sembravano diventate mani, palpavano l’aria intorno e la sensazione di essere braccato divenne più intensa. Il ventilatore frullava, come ali impazzite e la segretaria, ferma nel suo solito movimento, non accennava neanche ad uno sguardo. Mi voltai e li vidi.
Due occhi rossi, intensi erano incollati ai miei. Un sorriso appena accennato mi stava toccando. Piccoli denti spuntavano, mani inchiodate di sudore si alzavano su di me.
Vampiri. Risi. Il ghigno in cui si era racchiusa la mia bocca si aprì. Pensai ad uno scherzo del caldo. Chiusi gli occhi, ma la vista si era spostata ormai nel mio corpo. La mia pelle sentiva, le mie mani scrutavano la scena, i muscoli del collo odoravano di adrenalina.
Spalancai la vista ed un fiato tagliente mi afferrò. La sedia cadde, schizzai dalla porta, scavalcai la finestra, i piedi sembravano non avere terreno. Corsi, corsi senza essere neanche l’ombra di me stesso. Leggero e pesante mi lasciai alle spalle l’edificio, le strade, il traffico, il giorno, la luce, corsi, con alla schiena un brivido, con nei passi un terrore. La stessa sensazione, gli stessi occhi. Mi inseguivano.
Tremo ancora al ricordo di quell’istante, che si dilata nel tempo. Ora la brezza impregna il legno della mia veranda. Il mare mi accarezza l’anima. Dal mio piccolo rifugio sulle scogliere del nord della Scozia, ogni ricordo diventa più lucido. Le gocce della brezza mi solleticano il viso, le mani, fredde, accompagnano queste pagine. Il legno profuma d’inverno e il mare tace.
Solo il mare mi calma. Lo sguardo e le risa da bambino, i passi di Ivette sulla sabbia, i castelli coccolati dalle onde vengono a galla come spuma bianca, che schiocca e scoppia sotto i raggi del sole. «Cosa fai, poltrone, corri con noi, smettila di pensare, lascia fare al mare, alla corrente, vieni».
Vorrei essere folle, ma non lo sono. Fermo, immobile in quel ricordo infernale. Sembra essere tutto passato. Eppure, anche ieri sera, al pub, davanti ad una birra, raccontavo agli amici la mia folle corsa, quel giorno, laggiù, avvolto nel caldo. Risa, battute, pacche sulle spalle, sguardi increduli, beffardi, maligni, rossi, taglienti, mortali, metallici.
«Numero 37. E’ ora di alzarsi». Tic Tac, ferro. La porta si aprì sulla realtà. «Numero 37, dormi da troppe ore».
Quelle voci presero mano a mano consistenza e i lineamenti si fecero più marcati: occhi negli occhi, li vidi e mi svegliai. Erano gli stessi occhi piccoli, rossi, gli stessi sguardi ciechi. Le immagini ancora tremavano, ma il bianco dei camici divenne a poco a poco l’unico colore che amaramente mi fece ritornare in me. Il corpo iniziò a sentire, i muscoli a distendersi, i polsi e le caviglie a stringersi nuovamente in quello spasimo, alla ricerca della libertà. Solo, legato in quel letto davanti a quegli uomini privi di volto, avrei voluto riaddormentarmi per far sfumare nel sonno quelle catene che mi afferravano e svuotare così gli occhi in lacrime inconsapevoli.
«Numero 37 è ora della visita». Si sciolsero i lacci che da giorni mi avevano serrato. Ricordo vagamente la follia delle sirene, la stretta degli infermieri, lo sbattere delle porte dietro di me e poi questo letto. In preda al delirio rabbioso di chi non sa più chi è, sono finito qua dentro, fissato ai miei ricordi. Ora tutta la scena era nitida: sorretto da due infermieri, in piedi, guardavo quel mondo alla pari, fronte a fronte. Iniziai lentamente a vestirmi. Il sapore del cotone sulla pelle mi abbracciava. I pantaloni, buttati alla rinfusa sulla sedia, mi facevano assaporare la voglia di correre. La cinta nuovamente in vita: che emozione. Ad una ad una le scarpe. Ero un uomo, finalmente. Accompagnato, mi incamminai per quei lunghi corridoi, tunnel infiniti, ordinati, dilaniati dal ronzio delle luci, dal ticchettio nauseante dell’ordine.
Lo studio del Dottor Giunti, lo psichiatra che mi aveva accolto giorni prima, era in fondo, poco prima dell’uscita di sicurezza. Mi accomodai dopo una vigorosa stretta di mano. «Allora Signor Quintini, come sta? Come si sente oggi?». Le pupille mi naufragavano dentro gli occhi, ero stanco e la tentazione di chiudere le palpebre e fare viaggiare i miei pensieri in altri mondi, dove le linee del reale si sarebbero intrecciate chissà con che cosa, era ancora forte. «Signor Quintini, lo sa che oggi, se vuole, può uscire? Tutto dipenderà da questo colloquio». Alzai lo sguardo e timidamente incontrai il suo volto. Annuii distratto. «Le farò una sola domanda. Mi risponda sinceramente. Che cos’è per lei la realtà?». Le dita del medico sfogliavano sicure le pagine della mia cartella. Sapevano come muoversi nei meandri della mia mente scritta, nelle pieghe dei miei pensieri di carta. Il dito andava su e giù e poi a metà della prima facciata si fermò, più o meno all’altezza di due evidenti sottolineature. «Lei, durante l’ultimo incontro, mi ha detto – cito le sue parole – “mi sento svanire, sembra che la realtà mi si appiccichi alla mente, come una carta moschicida.” Si ricorda, no, questa espressione? Ha proprio detto, “carta moschicida”». Era vero. «Quindi, per adoperare la sua immagine, lei si sente un insetto che può, da un momento all’altro, venire fagocitato, oserei dire dissolto dalla realtà. Il filo dei pensieri che la guida finisce, a volte, per intrecciarsi con i confini del reale, confondendosi ed interrompendosi. La sottile membrana del mondo potrebbe coinvolgerla, avvolgerla e imprigionarla nella linea d’ombra impercettibile tra la verità e l’immaginazione». Le sue frasi, sempre più ampie, erano accompagnate dalle dita che adesso si perdevano nell’aria, dopo aver abbandonato la mia cartella clinica. I capelli bianchi si gonfiavano come la sua ardita sintassi e volteggiavano in un vortice unico che le dita prima avevano creato. La sedia stessa cigolava parole e lo studio, come una grossa bolla spumeggiava e fraseggiava anch’esso.
«Il mare». Lo interruppi.
«Come scusi?».
«Il mare».
Il Dottore, per la prima volta, mi stava guardando. C’era stupore nei suoi occhi ma nessun accenno ad un giudizio, non mi sentii accusato né deriso. Gli occhiali dalla montatura appena accennata inquadravano i suoi occhi, piccoli e smarriti. La mano ora immobile nascondeva segni di lavoro, lavoro manuale intendo. La fede brillava opaca. I gomiti si appoggiavano incerti sulla scrivania che vomitava carte, penne, inchiostro e destini. Pratiche impilate che attendevano una sentenza ci separavano.
«Sa, Dottore, io sono fuggito spesso. Fuggivo perché avevo paura, fuggivo perché credevo di non farcela. Ma ora che ho visto il mare … ». Il Dottore distese la fronte, sollevò le mani dalla scrivania e le aprì sfiorando i braccioli della sedia. Appoggiò la schiena.
«Mi faccia capire».
Iniziai lentamente ad aprirmi. Raccontai della mia fatica negli studi, delle notti passate sui libri, del mio successo lavorativo: la carriera di brillante avvocato, alla fine, mi aveva premiato. Ero bravo e stimato. Poi l’invidia, le calunnie, il lavoro perso, gli affetti che si stavano sciogliendo. Ebbi una crisi ed iniziai a scappare nei miei pensieri. Divenni l’artefice del nulla che mi stava inghiottendo. Sì, avevo deciso di impazzire, per farla pagare a tutti, per divorare il mondo che mi aveva tradito. Ma quella notte, tra il delirio omicida e suicida che mi aveva incatenato, ricordai il mare. Tanti anni fa, quando ancora l’ansia di essere qualcuno non mi aveva completamente accecato, mi ritagliavo dei momenti, sottraevo qualche ora ai miei pensieri per farmi rubare dal mare. Come due amanti ci abbracciavamo. Non ero più nella mia testa. La pelle respirava vita, gli occhi si lasciavano accarezzare, le mani venivano strette e non afferravano più, i piedi erano liberi. Quella notte il profumo del mare era ritornato. La rabbia, la paura, la follia erano passate per il mio naso, la mia pelle, il mio respiro. Ero vivo e volevo ancora vita.
Il Dottore chinò il capo, scrisse qualcosa, poi alzò gli occhi. Ci guardammo. Sentii, vicino a me, ancora una volta, dopo tanto tempo, l’odore del mare.