Premio Racconti nella Rete 2020 “Come Marilyn” di Elisa Bazzani
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020Aspetto al molo ventisette, con la faccia verso il mare. L’aria umida della sera galleggia a pelo d’acqua: la costa della Jugoslavia, nel cielo grigio, oggi è solo un’intuizione.
Sono bionda naturale io, proprio come quelle che vengono da là e appena scendono neanche il tempo di fare l’occhiolino e te le ritrovi già sedute al bar a bere il caffè, a dire “Bravo papa” agli uomini che se le stringono ai fianchi.
Il freddo mi fa scialle sulle spalle nude, ma resisto con l’abito bianco di mussolina e i sandali che mamma metteva d’estate quando ancora andava a passeggio per il corso, e le vetrine dei negozi riflettevano l’immagine di lei con papà bocca a bocca.
Osti, all’epoca non ero ancora nata: vento, soffia e spingi via questo groppo che mi si forma a mezza via tra la gola e la pancia se mi fermo a pensare. Oggi no, non ho tempo per la tristezza.
Il vento soffia e mi alza la gonna fino ai fianchi; e io gioco ad abbassarla, ma non troppo, che si vedano le ginocchia e un po’ di in su. Sorrido ai passanti; un foresto si ferma.
Quanti anni ho?
E tu quanti me ne dai? Abbastanza per fare l’amore.
Domani soffierà la bora.
E se il cielo girerà di mezzo cerchio stanotte, con l’ultima ruota del carro sopra l’antenna di casa mia, vorrà dire che domani papà farà ritorno. E sarà un giorno nuovo, prima che il mare diventi per un altro mese una paciàra nera su cui scivolare, con me che prego di non sprofondarci dentro.
Soffiava il Levante il giorno in cui i miei si incontrarono: papà sapeva che porta tempesta, ma lei era troppo bella per aspettare anche solo un giorno.
Aveva i chicchi di deserto tra i capelli, capisci?
Si amarono sulla spiaggia nera, nascosti da un cespuglio di mirto. Venni alla luce così, trasportata dalle acque manco fossi la sorellina di Mosè.
Il sangue sgorgò tanto, ma la spuma del mare la ripulì fino dentro, e rimase come una conchiglia quando le valve luccicano vuote sul bagnasciuga.
Dopo la morte di mamma abbiamo girato parecchio: il primo fu un appartamento in affitto in una grossa città piena di viali alberati. Già allora papà se ne andava via per lungo tempo e mi diceva: “Mettiti lì e aspetta. Quando vedrai un furgone verde telato, sono io”. Ricordo che rimanevo incollata per ore alla finestra della cucina: da lì si vedeva il curvone della tangenziale nord. A me piaceva, perché sui frangi rumori c’erano disegnate le rondini e sembrava sempre primavera.
Ma papà smaniava, si vedeva che per lui l’acqua era più essenziale dell’aria e dopo neanche un mese ce ne siamo andati. Non facevo in tempo a imparare i nomi dei vicini, che via, verso un’altra città. Ed è così che siamo arrivati qui.
Il primo anno di medie l’ho perso; adesso al pomeriggio aiuto la Maria al guardaroba, che dopo l’incidente non la volevano più a servire al porto perché con la gamba mezza storta faceva senso ai clienti e la gente non beveva più di gusto. Ma qui a Miramare le va da lusso, invece, anche se deve stare in piedi per dieci ore: c’è il bancone che la nasconde e se non la conosci non sospetti niente.
“Scaldami i piedi”, mi dice quando è stufa. Se glielo faccio, spartiamo a metà le monetine di mancia.
Bruno ha insegnato alla moglie ad annusare la vita degli altri sui cappotti e sulle pellicce che appende qui nel guardaroba. A me non pareva all’inizio questa gran cosa.
«Stanno meglio di noi, cosa c’è da sapere?»
C’è mancato poco che la Maria mi menasse.
«Toh, prendi questa sciarpa: la lana è delle migliori. E il profumo, non senti che buono? È violetta di Parma. Questa invece vuole fare la signora, per finta. Ha mangiato sugo e patate. Ma cosa vuoi saperne tu?»
«Allora spiegami.»
E mi spiega che suo marito va a caccia, anche se è cieco da anni, e che gli basta toccare il pelo del cane per capire (da come è bagnato e dall’odore) dove è la selvaggina. Segue le tracce così, vivendo come se fosse gli animali che insegue: la lepre che sgambetta di lato per salvarsi la pelle; le quaglie che sono buone con la polenta ma bisogna saperle frollare sennò sanno di selvatico.
Per un mese prende e se ne va in Macedonia.
Macedonia: è un bel nome per un posto, e anche se non so dov’è, mi piacerebbe andarlo a vedere. Ma non le do la soddisfazione di chiederlo, anche perché papà è andato fino dall’altra parte dell’Europa, altroché, e ne ha visto di bellezze e fa cose più pericolose che stare nascosto ad aspettare col fucile in mano. Bravo sarà il cane, che fa il lavoro (fiuta, segue rincorre, trova), mica Bruno a cui basta schiacciare un grilletto per finirlo. E se la devo dire tutta, è più difficile fare la quaglia che il cacciatore.
«Sveglia», mi urla la Maria gettandomi in faccia un foulard.
«Ma cos’è questa puzza? »
«E’ disinfettante, di sicuro fa i turni all’ospedale. Numero tredici, non ti sbagliare. Va con la borsetta di pelle finta. »
«Ma come..? »
«Osti, lo so e basta: non mi sono fatta un mese allettata per niente. Ne hai di robe da imparare».
E ha ragione: è importante che sappia distinguere se tra sta gente che servo e che incontro per strada c’è qualcuno che possa portarmi via.
«Non verrà . E’ inutile che aspetti.»
Ci sono andata lo stesso, al porto, pur sapendo che la Maria aveva ragione: me lo diceva il cuore, perché il cielo è ingannatore, che a volta sembra bello e invece si rannuvola all’improvviso e poi si alza forte il vento che ti scompiglia i capelli e anche le idee e le tue certezze. Quando è così, mi stringo forte alle cartoline che arrivano e mi rileggo per mille volte, anche se le so a memoria, le parole di papà. I suoi messaggi finiscono sempre con “Un abbraccio alla mia bambina”.
Ho aspettato per più di tre ore davanti ad un mare che è uno specchio. Papà aveva fatto saper che sarebbe arrivato, e invece niente.
La Maria non racconta volentieri di quando era bella e gli uomini la guardavano. Sta zitta per tutto il tempo, dritta come un fuso dietro la cassa. All’inizio turno da una passata con lo straccio, conta i soldi, sistema i numeri da attaccare alle grucce. Tra un cliente e l’altro sfoglia una rivista di abiti e sospira, poveretta.
Io?
Il primo giorno di lavoro, il signore che gestisce qua il personale mi ha fatto fare il giro del palazzo, perché se giù chiedono bisogna saperle dare le informazioni.
«Le vogliamo belle e brave», mi ha detto mentre lo seguivo sulla scala a chiocciola.
Le stanze di sopra sono piene di lustri e lustrini e quadri; se penso che il re che ci viveva era così ricco che aveva il pitale d’oro, mi vien un fuoco dentro che non capisco cosa faccio. Il giro è finito in una stanza che è chiusa ai visitatori: il gabinetto (si chiama così, ma non c’è neanche un lavandino.) I muri sono rivestiti di velluto verde con dei disegni di uomini orientali e delle donne dalla bocca a cuore rosso.
Il signore si è frugato nelle tasche e ha tirato fuori una foto ritagliata da un giornale: c’era una donna tutta nuda tranne un mezzo seno che si teneva coperto con la mano, distesa sopra una tenda rossa di velluto, uguale a quelle che ci sono qua.
«E’ Marylin. E’ un’attrice famosa, la conosci? Anche lei ha iniziato così, è la carriera.»
Non sono mica nata ieri; certo che le so come va il mondo.
«La trova bella?» Gli ho chiesto avvicinandomi. Osti, che alito che aveva.
«Sono bionda naturale, sa? Ho anch’io ho un neo sulla guancia. Come non ci crede? Eccolo qui.
Se ne ho altri? »
Quello che è successo dopo, non vale la pena raccontarlo.
Non è colpa mia se le case dei siori sono così belle che mi monta l’idea di diventare siora anche io e non lavorare.
Stanotte la luna splende peggio di un faro acceso. È piena e tonda, perfetta, sospesa accanto ad Orione. Anche gli uomini che escono dai bar, si tirano su il bavero fino a metà viso, quasi per non farsi vedere, e tornare a casa dalle proprie mogli e baciarle magari e scaldarsi lo stomaco col brodo, dopo tanto vino e scuotono il cappotto e lo buttano distratti su una sedia, senza sapere quanta vita stanno portando dentro le loro mura di casa. Loro non sanno che tra le fibre sono rimaste incastrate le pagliuzze d’oro dei capelli delle altre, la spuma del mare e il freddo del vento, l’odore pungente dei crauti sotto aceto e quell’odore di gatto bagnato che non se ne va e che fa male quando lo riconosci addosso a chi ami. Loro non lo sanno e pensano di essere al sicuro perché tirano dritto verso casa senza guardarmi e ridono di me che me ne sto contro il portone ad spettare; ma è solo perché nessuno è capace di leggere la loro vita nascosta.
Ma prima o poi la ruota gira; lo fa persino il cielo e senza accorgersene, ci si trova col culo per terra.
Vorrà dire che aspetterò che questo manto di stelle giri di nuovo e che la luna ci mostri la falce; allora sì, quello sarà un giorno giusto, se il mare lo permette e non è troppo agitato, perché papà faccia ritorno.
Maria controlla le tasche dei giubbini prima di dirmi di appenderli. A volte rimediamo qualche caramella, o qualche soldo di moneta. Questa volta siamo sfortunate; c’è solo un fazzoletto da naso che fa senso.
Fustagno, poveracci.
Maria ride e scopre una dentatura perfetta.
Ne ho imparate di cose, o no?
Una volta per dispetto ha staccato un bottone di un soprabito ad uno perché aveva pisciato fuori dal bagno, che lei aveva appena finito di pulirlo.
Cosa ti dicono i venti, oggi?
Mi avvicino a lei, le tolgo le ciabatte e inizio a massaggiarle i calli, dove la pelle è dura e spessa. Procedo lenta, con delicatezza, dalla punta fino al tallone che è smangiucchiato come quello di mio padre, che si fa le punture in pancia e per poco non lo perdeva. La vita è così amara, tanto vale farsi un goto di vin.
La Maria è contenta, si squassa tutta col culo sulla sedia.
E mentre sfila anche l’altro e mi indica di toglierle la calza, io le chiedo quello che vorrei sapere da sempre, ma che non ha mai avuto il coraggio di chiederle: Maria, di cosa sanno i miei capelli?
E’ bellissimo. Veramente. Mi pare di riconoscere l’ispirazione che ha guidato anche me in uno dei miei racconti nella rete. Ti auguro miglior fortuna, è un lavoro poetico e suggestivo.
Molto molto molto bello. Una di quelle storie asciutte senza lacrime, scritta senza cadere nella teatralità della sofferenza (che non è facile evitare). Un bellissimo personaggio di ragazza, poco più che bambina, che emoziona muovendosi in una irrimediabile estraneità, in attesa di un ritorno, di una vita migliore, e intanto sopravvive fra attesa, speranza e ricordo mentre gli altri cercano di mantenerla in un sistema nel quale non sembra esserci altro che bisogni molto materiali.
Un ritratto amaro che non cade mai nella retorica e nel facile compianto. Complimenti!
Questo racconto è fantastico. La speranza si fonde con una cruda quotidianità che sembra non lasciare strascichi. Una scuola di vita nella quale s’immerge con semplicità perché sa che ha ancora tanto da imparare. Mi piace molto il linguaggio letterario. Complimenti.
È un racconto bellissimo, la tua scrittura rapisce in un vortice di immagini che si ripetono con un ritmo che incanta e che mi ha tenuta incollata fino alla fine. Ho sentito gli odori e ho visto il mare. Brava! Mi è piaciuto moltissimo
Ma che bella lettura! Mi è stra piaciuto questo racconto fatto di tanti piccoli dettagli. Anche la scelta di alcuni termini popolari e in dialetto è azzeccata e caratterizza bene il tuo personaggio. Ho trovato delle vere chicche espressive tipo quando tipo “chicchi di sabbia nei capelli” e mi hai conquistata subito con quel cielo grigio che è “solo un intuizione”.
La stroria è piena di emozioni e ricca di profumi. Delicata e malinconica come quei sandali che indossava la mamma tanto tempo fa. Anche io ho un’intuizione… questo racconto andrà lontano! In bocca al lupo. Bravissima Elisa.
Una narrazione in prima persona che dà freschezza alla Marilyn dei nostri giorni, in comune si immagina una bellezza appariscente e la solitudine straziante di un abbandono. Le esigenze sono dettate dalla miseria e le prospettive si fermano al proprio corpo e alle piccole soddisfazioni dell’ambiente circostante. Il resto, troppo lontano, può attendere, eppure la sicurezza dell’età e di chi sa affrontare tante difficoltà trova in tutto questo la forza di sorridere. Un racconto introspettivo ricco di poesia.
Mi è piaciuto moltissimo: la “voce” narrante è delicata, suggestiva, priva di retorica. Complimenti!
Bello. Poetico e malinconico. Mi piace l’ambientazione retrò un po’ onirica ma reale. Concordo con gli altri commenti, asciutto e senza retorica, la protagonista ti accompagna tra le descrizioni della sua vita con una leggerezza pesante.
Una scrittura molto fluida e naturale, anche evocativa, complimenti
Concordo con chi ha scritto prima di me. Delicato, bello.