Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2010 “Wendy axis mundi” di Emanuele Olmetti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010

I fatti, 3 note a piè pagina, un’adorazione.

Stavo aspettando degli amici. Purtroppo non da solo. Annoiato, mi ero appoggiato con la spalla sinistra alla porta d’ingresso in vetro specchiato del negozio presso il quale ci eravamo dati appuntamento. L’incontro era stato fissato da Wendy per le cinque del pomeriggio. Ma ormai erano passate da un pezzo. Da un’ora almeno. Wendy era lì con me, corredata della sua solita faccia indisponente, concretamente pericolosa, considerato che nel mezzo si stagliava una cosa talmente sottile ed appuntita, che solo a costo di sforzi iniqui si poteva intuire e poi accettare, a malincuore sia chiaro, che quello fosse un naso e non uno stiletto, messo lì a ferire i malcapitati che si fossero avventurati a baciarla senza accordi preventivi circa l’assunzione di posture anti-taglio. Ciò per chiarire, spero senza equivoci, il motivo della ridotta possibilità di spontanee effusioni amorose da parte mia. Taccio, per rispetto alla mia dignità residua, sulla totale assenza di slanci affettuosi. Lei sa essere tagliente quando vuole·. Per descrivere la nostra relazione al tempo degli avvenimenti, parlerei laconicamente di abitudine dalle mani grosse, che mi tenevano ben stretto e non solo perché non mi ferissi. La mia rivolta a quella appuntita routine sentimentale era fatta di commenti sarcastici incapaci però di allontanare chiunque ne fosse stato il destinatario, lei nella stra-grande maggioranza dei pietosi casi, ma anzi abili a sollecitare, e in lei principalmente, pronte dimostrazioni di pena, pietà e compassione. Ero considerato uno scemo insomma.

“Prova a chiamarli” le ho suggerito, bene attento che ciò non fungesse da prologo a  discorsi che non avevo la minima intenzione di intraprendere. Desideravo che quell’attesa finisse nel migliore dei modi, cioè mandando all’aria la serata (Wendy compresa se possibile) e, altra cosa che aveva la sua importanza, evitare di intaccare il mio credito telefonico. Anche perché non sapevo proprio chi chiamare, ma non feci caso a questo dettaglio che sì era importante. Quella sera neanche i coniugi Totti, con la loro diabetica simpatia dispiegata a piene mani, mi avrebbero scucito un centesimo di conversazione, nonostante fosse ai limiti dell’indecenza la voglia di tornarmene a casa.  Sperando che se la prendesse a male, dissi quelle tre parole utilizzando un tono imperioso come mai mi era successo prima. Neanche mi voltai verso di lei. Poi, non appena quelle tre parole furono uscite da quel pozzo di maleducazione che nelle mie intenzioni doveva apparire il mio cavo orale, sputai pure a terra. Da vero uomo. Eppure non la sconvolsi più di tanto. Ebbi modo di accorgermene immediatamente.

Neanche mi rispose. Lei, che dirla ciarliera, è sottostimarla. Avevo netta al sensazione invece che mi stesse fissando. Iniziai a ruotare la testa e non appena iniziai a coglierla con gli occhi capii che non mi sbagliavo.

Appena abbozzato, le disegnava il viso un sorriso che non le avevo mai visto, non le apparteneva. Non che stonasse all’ombra sottile dello stiletto, ma si tracciava estraneo al suo modo di essere così spiccio e sbrigativo, essenzialmente pratico, mentre quello pareva portare con sé  una serie così imprevedibile di sfumature che ne fui subito meravigliato, senza però avere il tempo di sviluppare timore, non potendone ancora indovinare gli sviluppi. Per essere chiari: mi stupì il fatto, che nel breve giro di tre nanosecondi, non mi avesse già mandato a prendermela in quel posto. Solitamente erano questi i suoi tempi di reazione.

Lei intuì la mia sorpresa. E da lì in poi dosò con maestria insospettabile i tempi e i modi dei suoi movimenti. Aveva tutto ben chiaro.

Attese immobile finché quella situazione, che non saprei definire meglio se non bizzarra, non avesse sprigionato tutto il suo potenziale affabulatorio. Quando ebbi completato la rotazione della mia testa, sino ad averla inequivocabilmente davanti agli occhi, lei prese ad animarsi, compiendo gesti che almeno inizialmente apparivano consueti, perlomeno adeguati al momento. Infilò infatti la mano destra dentro la sua borsa, mentre con la mano sinistra la tratteneva sollevata all’altezza del ventre. Ma con gli occhi continuava a fissarmi. Pensavo stesse frugando in cerca del telefono cellulare per avere notizie dai nostri amici: magari ci avrebbero detto che non sarebbero più venuti. Nonostante tutto, questa speranza non mi aveva ancora abbandonato.

Estrasse invece un fazzoletto nero e azzurro, con un po’ di rosso, con i colori che disegnavano linee e curve, fregi particolarmente elaborati. Poggiò a terra la borsa piegandosi sulle ginocchia, ma sempre fissandomi. Si rialzò e sollevò la coscia destra. Continuando a fissarmi.

La coscia si trasformò in un piano sul  quale Wendy distese il fazzoletto, che piegò lungo la diagonale sino a formare un fascia dell’altezza di 6/7 cm. Un’abilità straordinaria: aveva realizzato tutto con grande velocità. Senza compromettere ordine e qualità del risultato finale. Soprattutto lo aveva fatto senza togliermi mai gli occhi di dosso, a memoria, mantenendo un sorriso niente affatto tirato, anzi naturale. Naturale per forza.

Per pochi secondi pensai si trattasse dell’abbozzo di un rituale di corteggiamento mutuato dal regno animale, registrato magari su dvd, una domenica, di pomeriggio, senza alcun contributo all’audience quindi, e poi visto e rivisto ad una distanza dal video variabile, ora maggiore ora minore, con il telecomando in mano e le dita frenetiche a mettere in pausa la proiezione, o a riavvolgerla, o a farla scorrere veloce in avanti, a seconda che ad essere analizzato fosse il particolare oppure l’impatto generale, per poi rielaborare tutto per quell’occasione, magari dopo estenuanti prove davanti allo specchio stretto e lungo che di solito era schiacciato tra la porta del bagno piccolo e la libreria e che negli ultimi tempi (forse proprio per questo?), era stato spostato senza alcun tipo di accordo nel bel mezzo del salotto, in una posizione a dire il vero non praticissima. Altro dettaglio, questo, che mi era sfuggito.

Da molto tempo ero ormai restio a concederle poteri su di me. Altro è il fatto che ci riuscissi veramente. A maggior ragione in un frangente come quello che andava delineandosi. Sul quale, però, non sapevo proprio come intervenire.

Combattei lo sconcerto che sentivo montare. Riconsiderai tutto eliminando ogni riferimento che si allontanasse dal gesto puro e dal suo compimento. Al fine di tranquillizzarmi, presi a ripetermi ossessivamente che quello a cui avevo assistito non era altro che l’estrazione di un  fazzoletto nero e azzurro, con un po’ di rosso, meraviglioso probabilmente per chi fosse stato in grado di apprezzare oggetti di tal fatta, da una borsa che avevo visto già centinaia di volte, e la sua successiva ed accurata piegatura, probabilmente al fine di evitare che questo si sgualcisse perché di valore, o magari perché un regalo della madre. Brava anche quella…

Eppure, nonostante gli sforzi, tutti i miei pensieri erano sottoposti alla forza centripeta di quella procedura perfetta che aveva consentito, sotto i miei occhi, la trasformazione di un fazzoletto in uno strumento ancora sconosciuto ma così inusuale ed incongruo da apparire quasi una sofisticata arma di offesa. Che, in quanto tale, apriva scenari concreti al suo utilizzo. Altrimenti perché farla. Le mie paranoie correvano come una locomotiva lanciata sopra i continenti.

A questo punto feci una riflessione che pareva necessaria: dovevo decidere se era giunto o meno il momento di preoccuparmi; e se si, in quale misura. In effetti, la presenza di fronte di una fidanzata che stringe tra le mani un fazzoletto arrotolato come fosse un filo di ferro da far incontrare con il collo di qualcuno (io?), poteva costituire un pericolo abbastanza pressante, comunque sufficiente per pensare di prendere provvedimenti immediati.

Ma ora è giusto rendere delle confessioni: è un fatto che io sia impressionabile, un altro fatto è la mia indecisione a tutto, ma soprattutto ho l’abitudine a giudicare tutto ciò che non capisco come dimostrazione inequivocabile di superiorità e genialità da parte di chi  è in grado di mettere in pratica una qualsiasi serie di atti collegati tra loro. Che sappia poi spiegarne il motivo non è determinante. Mi risparmia la fatica di starlo a sentire.

L’inerzia mimica di occhi, labbra, fronte, mento e di tutti i muscoli facciali che intendevo dosare bulimicamente in segno d’indifferenza nei confronti dell’operare inusuale e dello stesso esistere li, in quel preciso momento, di Wendy con quel fazzoletto in mano, moltiplicata a dismisura tracimò di colpo, oltre ogni mia possibilità di controllo, colando in direzione del collo, del busto, delle braccia, delle mani intrappolate dentro le tasche dei pantaloni, delle gambe costrette in una inclinazione e in un incrocio inestricabile, dei piedi in preda ad una invincibile forza di gravità.

La mia spalla sinistra si serrò alla porta d’ingresso in vetro specchiato del negozio.

Le fu sufficiente sussurrare “Non ti muovere e chiudi gli occhi” che la postura sdegnosa che fino a quel momento avevo assunto deliberatamente per offenderla, si incancrenì divenendo per lei occasione d’attacco, senza difese possibili; mi trasformai in bersaglio via via più inconsapevole del suo piano.

Impossibilitato a reagire, le obbedii. Per quanto passiva, anche l’obbedienza è una scelta. Condizionata quanto si vuole, ma ancora scelta. Qui però l’obbedienza era contestuale alle sue parole e non successiva. Erano la stessa cosa. Stavano l’una dentro l’altra. E me le ritrovai dentro come fossero un eco.

Quella postura l’avevo scelta io, in suo spregio. L’avevo scelta io liberamente, o almeno così mi sembrava. L’avevo assunta compiendo tutta una serie di gesti volontariamente calcati che fossero capaci di dimostrarle tutta la mia indipendenza, nei movimenti e nella stasi. E lei me lo lasciò fare.

Intraprese il primo movimento in linea da quando era partita la sua offensiva. Nell’avvicinarsi, nel camminare, lei non percorreva centimetri o metri lasciando sotto le sue scarpe tutto intatto. No. Lei sottraeva spazio, lo sottraeva per sempre. Era in atto un cambio di dimensione, il pervertimento delle direzioni, la commistione tra su e giù, l’impossibilità di distinguere destra e sinistra. Giunta a pochi centimetri da me, compì due brevi serie di spostamenti lungo un ideale semicerchio a partire da un punto perpendicolare alla mia spalla destra, la prima delle quali la condusse alle mie spalle. Il fazzoletto, sempre stretto tra le sue mani, nel frattempo era diventato una benda, in quanto lo sentii avvolgersi attorno alla mia testa, assestandosi con pochi scatti precisi sul mio occhio destro. Per la seconda volta nel giro di pochi minuti, fui sorpreso dell’abilità con cui Wendy aveva condotto a termine un’operazione tanto anomala. Non fosse stato inconcepibile e non lo avessi già detto in precedenza, avrei pensato, senza alcun dubbio, che ciò cui avevo assistito, subito sarebbe meglio dire, fosse l’espletamento di una procedura se non già sperimentata, quantomeno profondamente meditata: ma a quale scopo? Ancor più inconcepibile sarebbe stato ipotizzare un mio ruolo, per di più in una posizione tanto passiva, in tutta quella sequenza di atti la cui logica continuava a sfuggirmi.

Il contatto con il fazzoletto fu freddo, anestetico. E poi il nodo. E ancora i suoi movimenti di ritorno lungo il semicerchio. Nel mentre, il palmo aperto della sua mano sinistra calcato sulla mia scapola sinistra; il dito indice della sua mano destra strisciato pesantemente lungo gran parte della lunghezza della mia colonna vertebrale; un picchietto velocissimo di tutte le sue dita, distribuito senza apparente disegno, tra la mia spalla destra ed il braccio destro. Insomma, un po’ alla volta, mi aveva abbandonato. Da lì in poi un senso di vuoto. E d’abbandono. E’ stato terribile.

Poi d’improvviso un segnale di tipo vocale: “Apri gli occhi”, probabilmente sorridendo.

Aprii l’occhio. Lei riapparve di fronte a me: tanto vicina da sembrare senza sforzo l’unica creatura su questa terra, con il suo stiletto ad una distanza che non era più di sicurezza, ma di piena emergenza. Siamo ancora due, due esseri distinti che se vogliono possono ancora allontanarsi, scostare le teste, distogliere ancora lo sguardo indirizzarlo da altra parte, girare i tacchi ed andarsene. Via da li. Eppure la sensazione era nettamente diversa, procedeva senza intoppi verso un completo dispiegamento che ero sicuro avrei dovuto guardare fisso. E’ appoggiata con la spalla destra alla porta d’ingresso di vetro specchiato del negozio, luogo fisso della nostra attesa. Un’attesa che è dilatazione allo stremo di un tempo presente reticolare, che trattiene qualcosa del passato prossimo, giusto per necessità di senso, ed allunga qualcosa del presente nel futuro più prossimo, per ipotecare quello ancora lontano da venire. E rimescola tutto in un’unica pasta che sembra avere le mani tanto riesce ad aggrapparsi e non scivolare mai più.

 La sua posizione è speculare alla mia. E lei sono diventate due. Tutt’e due vicine, attaccate per la tempia destra, gemelle siamesi. Bocca doppia stiletto doppio quattro occhi due cervelli tutto doppio. Tutto proteso in un lavorio saltellante. Tutto in movimento. Verso di me. Che sono fermo. Ancora fermo. Finché lei non avrà terminato.

Il campo visivo del mio occhio sinistro è ora costretto tra la porta d’ingresso in vetro specchiato¨ del negozio ed il viso di Wendy ed il viso di Wendy. Wendy-doppia, doppiamente pericolosa. Mi ha preso in mezzo. È una trappola. E’ impossibile sfuggirle.

Ora riprende il movimento in linea retta, diverso, veloce, distruttivo, inesausto, penetrante, che ti entra dentro, letteralmente.

Sono il luogo finale di una pedana inclinata, sbilenca, lungo la quale è lei a giungere smisurata, ostinata in un sorriso fisso, compiuta, secondo traiettorie imprevedibili. Vortice lungo il piano inclinato. Si è risolta essere una proiezione materiale che non è più possibile sviare. Sono il luogo tornato vergine che il suo silenzio prolungato ha svuotato, ripulito, dentro al quale si è costruita il suo spazio. Che ora, sola, intende riempire.

L’altro occhio è chiuso, non può vedere nulla. Ed io sono ancora fermo, ancora immobile, perché “Non c’è nulla da temere” mi dice lei teneramente. L’unico occhio che vede, vede Wendy, unica creatura al mondo, solo lei. Un’invasione. Un’unica immagine. Documento solo. Unico stimolo invadente che sgroppa determinato, da purosangue, su tutte le mie fibre nervose. Sui miei neuroni inseguiti dal suo timbro carico d’inchiostro. Ora solo Wendy. Ora, “D’ora in poi” sussurrò, solo lei nella mia mente.

Il suo viso anche da fermo era un viso in movimento. I suoi componenti accaniti tracciavano segmenti, piccoli movimenti subito ritirati. Quasi contratti. Trattenuti. L’inizio di un crampo subito placato. Uno spasmo leggero. Un’esplosione abortita. Un singulto dentro una guaina. Il suo era un viso proiettivo. Proteso costantemente: si avvicina poi cresce poi si appiattisce e scivola dentro.

Il suo viso pronunciava parole paurose, quelle di un racconto dell’orrore. E di questo aveva tutti i tratti della provvisorietà. Tradiva cigolii sinistri. Era un manoscritto misterioso fortunosamente reperito, spaginato, sbaffato, pieno di note a margine, vergato di cancellature che ne modificano completamente, continuamente il senso. Inquietante. Un cerchio piccolo, apparentemente, il suo viso. Però un cerchio di altri più grandi, più larghi, che abbandonano presto le dimensioni del volto. Ma che con quello, con il suo viso, continuano ad avere a che fare. Affiorava un’organizzazione, presente, funzionante, che mi si stava presentando. Il ticchettio insolente di un ingranaggio progredito sino ad essere spietato come un chip una scheda madre una memoria dalla disciplina severa, tenace. Lo sento il suo viso. Ma non ho ancora capito il suo movimento. Tento di nuovo: a volte a guardarla bene, quando non ti è troppo vicina, è come se qualcosa le uscisse dai bordi. Come se i bordi non fossero la sua conclusione nello spazio che occupa. Il suo limite invalicabile. Come se questa fuoriuscita, questo strabordare, non fosse ingiustificato ma si riunisse ad una estensione che fosse sempre sua. Che anzi fosse lei. Un liquido caldo, che il suo vapore confonde i confini.

Fu come se la mia posizione, pur restando inalterata, avesse subito una rivoluzione di prospettiva e il suo contesto fosse mutato una volta per sempre. E con questo la sua realtà.

Mi era entrata dentro. Ma no, non è così. Così non si va lontani, pensai. E’ estensione. Ci sono io dentro, con lei tutt’intorno. Innestato con i mie bordi ormai sbordati, scoppiati, slabbrati sul suo spazio, sulla sua estensione. O forse nel suo spazio, nella sua estensione. Il suo viso è la sua avanguardia. E’ attraverso il suo viso che passa ormai la nostra relazione. Relazione monologante che aspira a farmi sparire. Visi appaiati di fronte ai visi degli altri, eppure con me in subordine, fino a sparire. Visi squilibrati.

La mia sensazione allora più pressante, la mia paura più forte fu di essere annacquato, fino a sparire. Sino a dissolvermi in lei. Diluito. Finito.

Tanto presente tanto vicina tanto invasiva tanto intorno che mi sembrò uno schermo bianco. Un telo di un solo colore visto troppo da vicino tanto che sfuggono i bordi. Tanto che sembra smisurato. Unica cosa possibile. Unica presenza. L’incanto risolutivo di un buco nero.

Ora tutto è dentro. Tutto il produrre è dentro. Tutte le fughe si risolvono in un non-uscire. Uno sprofondare potenzialmente infinito nella sua estensione.

Ancora. Quella di Wendy è un’estensione fatta di punti non congiunti: che ti costringono a saltare che non ti fanno trovare la velocità che ti stancano presto che ti costringono a fermarti. Bersaglio di una proliferazione potente veloce spietata. Inizio a portare i segni, le cifre della mia sottomissione a lei. Del mio divenire-lei, lungo la sua linea. Anch’io estensione senza che di me venga preservata alcuna traccia. Neanche impercettibile. Assente. Mai esistito. Senza più memoria che non sia sua. E’ un procedere per contagio per malattia. E’ proliferazione sull’umido dei bordi. Sulla carne.

I suoi visi compaiono inaspettati sulle mie forme ormai provvisorie (che sono già lei): lei sul mio dito (la mia impronta) sul palmo della mia mano sulla pianta del piede e sulle tempie sulla nuca e nel mezzo del mio petto. Inizio a somigliarle. Ma è ancora poco. Sono un supporto del suo viso, dei suoi visi. Ripeto, è ancora poco. Per lei non è ancora abbastanza. Me ne accorgo dal brusio che sento, dal brusio dei suoi visi scontenti del mio comportamento. Chiedono una lena diversa. Non possono fare tutto loro. Richiedono che da spettatore invaso diventi collaborazionista zelante al massimo grado.

Mi ritrovo i suoi visi sulla schiena. Dietro il ginocchio. Li vedo uscire dall’ombelico. Sazi. Hanno svuotato tutto dentro.

Tutto è movimento. E’ dislocazione razionale. E’ allineamento nei sensi della sua estensione. Tutto è annullamento della mia anomalia. Che sta per essere ripianata.

Lei in tutto e per tutto. Nelle forme della sua alleanza imposta. Solo per mezzo della sua alleanza. Senza più la possibilità di separarmi, di riaffiorare. Senza più una dimensione autonoma. L’increspatura di un foglio. La piega di una coperta. Per suo tramite. Lungo di lei.

Ciò che mi è concesso di fare è assistere al mio cambiamento. Dal braccio dal palmo della mano dal polpastrello del dito indice controllo come cambia l’umore dei suoi visi. Se lei è contenta o meno di me. Disposti su linee, a comporre un fiore intorno ad un pelo. Ma anche minacciosi e corrucciati come una muta di lupi. Visi fissi che guardano. Lupi che a momenti sferreranno il loro attacco. Con le distanze che fatalmente spariranno in un attimo. Verranno sottratte. E con queste i metri per scappare. A nulla serviranno i fucili. Troppo pochi. Troppo radi per impensierire la muta. Che è già addosso. I visi già ti sonno addosso. In perenne equilibrio. Provo a scrollare il mio braccio a sbattere il palmo della mia mano sulla porta a dare calci al muro con il mio piede a dare testate. Niente. Nulla che si schiacci. Che cada. Che scoppi. I visi sono sempre al loro posto. Si ridispongono per proprio disegno. Perpetuamente sulla mia forma. Sulla sua estensione. I visi continuano a comunicare tramite la sua estensione. Frequenti continui indistinti gli scambi. Fruscii. Tra poco non ci saranno più differenze.

Dove può attecchire la mia ribellione? Se prendessi un coltello. Lo passassi pesantemente sul braccio. Aprissi un varco. Uno scarto. Un vuoto. La corona slabbrata di un tubo. Una fenditura spugnosa. Che la sorpresa non consentisse di arginare. Tanto da liberare un zona dalla quale far ripartire la mia riscossa. Da consentire che ripiegandomi contorcendomi mi ci si possa infilare e fuggire per mezzo di me stesso. Illusione. Neanche questo. I visi popolerebbero anche le veloci cicatrici. Argini istantanei. Leggermente deformati. Tanto da sembrare insolenti. Impegnati nell’indirizzarmi boccacce e sberleffi.

Solo una cosa rimane: devo gettarmi dentro la sua bocca. Dentro le sue bocche. Allearmi alle sue lingue ai suoi denti ai suoi palati alle sue labbra alle sue gengive, stimolare le sue mascelle. Collaborativo. Volonteroso. Riconoscente. Grato. Sino a smembrarmi su di lei. Lungo di lei. Divenire estensione. Divenire lei.

“Però… guardati! Stai proprio bene con quella benda”

“Sono il corsaro che conquisterà il tuo cuore!”

“Ti amo Jack”

“Anch’io ti amo Wendy”

“Lo so. Non passa giorno che tu non me lo ripeta”

Non ci fu alcuna telefonata. L’incontro saltò, se mai era stato fissato. E allora tornammo a casa, mano nella mano©. Avete idea di dove sia io in questo momento?  Le vostre congetture fatele a bassa voce però, perché lei, Wendy, potrebbe sentirsi.

 

L’adorazione di Wendy

eternità. wendy-eterna. wendy-responsabile dell’eternità  wendy-depositaria del tempo. wendy-poterepotente-che mi prenderà in carico. wendy-antimisura. wendy-avvenire-che ti costringe a guardarla. perché: è intensa  è sempre nuova. qui e ora. quando la tocco. contatto. wendy-orizzonte di ciò che esiste. è lei a produrre. concedendosi. wendy-che costruisce. lo fa con me. nuovamente. “per la prima volta”. ora. da ora in poi. progressivamente. nell’esistente, in ciò che c’è in ciò che è. le azioni nostre sulla esistenza nostra comune [wendy+io]. di nuovo adesso. di nuovo adesso. di nuovo adesso. a cadere è la misura. (wendy+io)-smisurati. (wendy+io)-forza viva  (wendy+io)-passione  (wendy+io)-desiderio  (wendy+io)-bisogno. da uno strappo. ad una possibilità. all’alto. al nuovo. x ricostruire e poi x costruire il nuovo. che è in comune: tra wendy e me. fili multipli tra (wendy+io) e l’amore bisogna amare e allora wendy prende ago e filo. e tessendo genera noi. wendy-interruttore delle stelle. wendy-deflagrazione. wendy-freccia. wendy-punta di freccia. eppure naturale. “wendy-così com’è”. insieme sempre + insieme. wendy-forza vitale. [(wendy+io)-noi]-forze vitali. resistenti. potenti. sempre in movimento. spazi + larghi  mai + immobili. nel nostro nuovo costruiamo. parliamowendy-parola-affetto  wendy-parola-desiderio  wendy-parola-bisogno  wendy-parola-gesto  wendy-parola-io ne sono un modo. io l’ascolto. è il nostro movimento. che è nuovo. che pare voglia durare x sempre. in eterno. espressione compiuta del (wendy+io)-noi. da ora in poi solo noi x sempre x sempre x sempre x sempre x sempre x sempre x sempre x sempre x sempre x sempre. wendy-veste di flutti  wendy-guanti di carne  wendy-mille cassetti  wendy-testa di fiamme lisce wendy e il suo fazzoletto wendy e le sue parole. sono sull’occhio di wendywendy-caroocchio-che mi fa vedere il mondo [wendy-causa mia] wendy-sguardo-intuizione del mondo. wendy-caroocchio-che interpreta il mondo x me. padrona del tempo  wendy-visione non ha interferenze né oscillazioni. visione ferma nel movimento-wendy  nella fluttuazione-wendy  nell’intermittenza-wendy dello wendy-occhio scintillante wendy occhio che contiene al suo interno l’esterno: esterno-tutto  modello-tutto che mi accoglie. i suoi fili mi mantengono immobile. i suoi denti lavorano alla mercè delle forze-wendy. Wendy-lavorio zelante. è esistenza  è brezza  è polmone  è dislocazione senza posa  è luogo muto. wendy-spazio-che avvolge  wendy e il suo archivio  wendy e la sua memoria  wendy-1000 cassetti. con wendy in cima alla montagna. wendy-pietra  wendy-piccolo arbusto  wendy-terra brulla  wendy-montagna + alta  wendy-blu cobalto  wendy-nuvole basse  wendy-vento  wendy-getto  wendy-respiro forte  wendy-forza  wendy-forza di gravità. wendy-cara che viene incontro  con i piedi sopra un sasso. con il cuore chiuso dentro un cerchio. wendy-diagramma: deserto oceano materia materiale ritmo mano-occhio orizzonte-suolo. wendy si rende visibile  wendy-maestra di sensazioni  perché: wendy preme  wendy contrae  wendy dilata  wendy sciaccia  wendy stira. wendy-forza di scopa spazza via gli occhi. wendy-forza di straccio umido mulina le croste della bocca. wendy-che apre la cerniera tra ossa e carne. intensità. intensività. soglie. livelli. vibrazioni. nervi. carne. il bel colore. la bella carne. wendy-che aggiunge wendy proiezione  wendy-che interseca wendy-onda  presente. insistente. interminabile.


· Lei – creatura rosa di velo leggero – viveva nell’attesa e nell’attivismo previdente guidato dall’amore. Costruiva tutti i giorni un pezzetto in più del (lei)mondo-lei in cui sua intenzione era accogliermi: un mondo in cui io avrei agito impossibilitato a sbagliare: perché incurante dell’usura delle sue corde vocali, lei continuamente mi avrebbe fornito dettagliate definite/definitive indicazioni sul da farsi: sue le azioni mie suoi i pensieri miei suoi i ricordi miei: perché lei, amorevole lei, era l’organizzatrice instancabile e benevola della mia immaginazione – tassello dopo tassello nella direzione giusta  tassello dopo tassello sino a definirmi nella giusta forma. Avrebbe saputo leggermi dentro. Avrebbe saputo leggermi dentro come mai nessuna.

 

¨ Mi vedevo come un riflesso semplice scivolato come acqua sul suo viso. Il suo viso protetto da una teca ed io fermo davanti che la sto guardando con il mio viso che attimi prima sovrastava il suo come un fantasma per poi sparire schiacciato in altri attimi sotto il suo dai colori più forti. E li rimanere senza più la possibilità di divincolarsi.

© Perdevo pezzi. Camminavo e perdevo pezzi. Ad ogni passo abbandonavo quello che via via compariva alle mie spalle. Mi fossi girato per tornare indietro, non avrei potuto. Non avrei più trovato nulla: né quello che avevo lasciato, né altro. Di certo, c’era quello che ancora io ignoravo.  

 

Loading

Lascia un commento

Devi essere registrato per lasciare un commento.