Premio Racconti nella Rete 2020 “Come lui” di Marco Selvini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020Due punture di piombo e un pugno alla bocca dello stomaco che mi spinge contro il muro. La mia pistola vola lontano, batto la testa e cado. Le immagini ruotano, mi danno la nausea ma non ho nulla da vomitare. Quei due chiodi piantati tra il collo e la spallina del giubbetto antiproiettile mi tengono sveglio. Io invece vorrei svenire. Conosco il copione. La prossima scena non mi piace recitarla in questo ruolo. Ho sottovalutato la mia vittima. È un killer come me, meglio di me, e io non lo sapevo.
Mettendomi seduto alla meglio tossisco e recupero il fiato. Comunque non mi servirà. Quell’occhietto nero con l’orbita in metallo continua a fissarmi e mi sussurra che niente mi sarà utile a lungo. Non c’è modo di uscire da questo guaio. Il pugnale non l’ho preso. Meglio che mi rilassi e la smetta di pensare. Sono arrivato, aveva ragione il vecchio. Maledetto vecchio. Benedetto vecchio. Vorrei che fosse qui ora a tenermi la mano come quando ero bambino e mi sbucciavo le ginocchia. “Vai piano”, mi diceva, “prima di correre devi imparare a camminare.” Non sono mai stato bravo ad ascoltare. Chiudo gli occhi per non vedere il lampo che mi ucciderà.
La cosa più difficile di un omicidio è la sua preparazione, specie quando ti pagano per uccidere. Se lo fai per rabbia, per vendetta o per piacere è diverso. In quei casi la preparazione è un rito, altrimenti è una scocciatura. Avevo smontato la Parabellum e la stavo ingrassando. Non ne avevo voglia. Il bersaglio era un anziano, circa dell’età di mio padre. Avrei potuto liberarmi di lui a mani nude. Ma il cliente aveva imposto che gli sparassi. Doveva morire in un modo preciso, dovevo finirlo con almeno un colpo in faccia. Vai a capirli i clienti. Un morto è un morto, che ti frega di come muore?
Rimontata la pistola avevo preso il primo caricatore ed avevo cominciato a riempirlo. Tredici colpi, numero fortunato se ti trovi dalla parte del calcio, un po’ meno se sei da quella della canna. Ero passato al secondo caricatore e avevo spinto dentro il primo proiettile ma il clack metallico era stato superato da un toc-toc insistente e dal rumoroso tentativo di entrare in camera. “Che vuoi?” Avevo urlato. “Ho da fare.”
L’urlo non era servito a niente. Il vecchio si era piantato dietro la porta e come sempre aveva snocciolato un rosario di rimproveri. Mai che gli andasse bene qualcosa di quello che facevo. Ex militare, guardia del corpo da quando era stato ferito ad una gamba. Mi aveva insegnato le arti marziali e mi aveva fatto maneggiare armi fin da bambino. Io la sua disciplina non la sopportavo. Mi faceva impazzire quel modo calmo e ordinato di affrontare le cose, senza emozioni, senza partecipazione. Io lo odiavo. Odiavo lui e tutto quello che mi diceva, anche in quel momento. Odiavo il fatto che avesse voluto insegnarmi la sua professione, essere il mio maestro. Avrei cancellato quell’uomo patetico, quell’ombra che voleva fare di me ciò che lui non era stato capace di essere. “Piantala! Vattene! Vattene!” avevo gridato dopo aver caricato i polmoni di aria e malessere. Se avesse saputo cosa sono diventato grazie a lui.
Avevo afferrato la scatola dei proiettili e l’avevo lanciata contro la porta. Una fontana di cilindri d’ottone ha riempito l’aria di traiettorie disordinate seguite dal tintinnare del metallo sul pavimento. Lui forse se n’era già andato: non mi dava mai la soddisfazione di avere l’ultima parola, l’insulto finale. Anche così sottolineava la mia mancanza di preparazione, di attenzione, la mia presunta inadeguatezza.
Mi ero sbagliato. Era ancora lì, dietro il legno che lo aveva protetto dalla mia ira. “La tua presunzione ti porterà guai grossi. Dovresti ascoltare chi ha più esperienza di te. Proteggere non è semplice. Devi preparare meglio il tuo lavoro, devi stare più attento. Devi essere pronto alle sorprese che la vita riserva,” aveva ricominciato a blaterare. Era il turno del Black Fighter. Lo avevo lanciato verso la porta con tutta la mia forza. La lama nera del coltello era penetrata nel legno riuscendo ad attraversarlo fino al manico. “Un giorno verrò a raccogliere i tuoi pezzi sparsi in giro se non impari a controllare la tua ira” aveva detto, concludendo con il suo mantra preferito: “Arrangiati. Fai come credi.” Ma che ne sapeva lui di ciò che facevo io!
Il rumore dei suoi passi, un po’ irregolari, mi aveva confermato che la discussione era finita. Avevo messo in tasca il secondo caricatore e infilato la pistola nella cintura dei pantaloni, sulla schiena. Avevo raccolto un po’ di proiettili e li avevo messi nell’altra tasca.
“Vaffanculo vecchio,” avevo mormorato vedendo la cicatrice che decora il mio fianco mentre infilavo il giubbetto anti proiettile di fronte allo specchio. Era riuscito a rimproverarmi anche per quella ferita, rinfacciandomi che quel taglio mi avrebbe potuto uccidere, senza nemmeno chiedere come me lo fossi procurato. Per lui era solo il risultato della mia presunzione. Aveva ricucito muscoli e pelle, ma non aveva saputo ricucire lo strappo che si era formato tra noi. Non gli avevo mai dato troppo retta ma in quel momento avevo capito che ero in grado di vivere senza i suoi consigli.
Un gorgogliare sordo e la sensazione di bagnato sul viso mi fanno riaprire gli occhi appena in tempo per vedere il mio imprevisto carnefice tornare vittima. La gola aperta e sangue ovunque. Un altro killer con il volto coperto è in piedi alle spalle del mio contratto, ormai cadavere. Pulisce il pugnale, lo ripone e prende la pistola del morto. Gli spara due volte in faccia. È un esperto, sa come si fa. E non è una buona notizia. Il prossimo a morire sarò io. Mi piacerebbe almeno vedere chi c’è sotto il passamontagna.
Avanza verso la mia pistola zoppicando un po’, la prende e la controlla. La punta verso la mia testa. Con la mano sinistra carezza la coscia all’altezza dell’anca. Forse una vecchia ferita.
La vista mi si annebbia, la bocca si asciuga.
Con il pollice inserisce la sicura e fa ruotare la Beretta attorno all’indice, passandomela, mentre con l’altra mano solleva il passamontagna. “Per questa volta sono riuscito a sistemare tutto, e posso aggiustare anche te, di nuovo. Spero che la lezione ti sia servita. Il nostro lavoro richiede attenzione.”
Benedetto vecchio bastardo, ha avuto ancora l’ultima parola!
Molto carino e divertente, si legge tutto d’un fiato. Bravo
fico. bel ritmo
Caro Marco non chiedermi perché ma, quando ho letto il tuo racconto, ho pensato che potrebbe venirne fuori un bellissimo fumetto. Forse perché da piccola ero circondata dai “lanciostory” del mio babbo dove c’era sempre un protagonista dannato con un passato burrascoso come il tuo personaggio. Il tuo racconto ha il sapore dei film che adoro ambientati nell’Italia ai tempi del terrorismo degli anni ’70: Veramente bravo.
Da una situazione cristallizzata in pochi secondi sei riuscito a tirar fuori un racconto interessante e scritto proprio bene: descrizioni, ricordi, dialoghi, flashback, ricercatezza di linguaggio, vena sarcastica, intrecci emozionali. C’è tutto in poche righe. Una bella creatività. Certo che se ci buttavi dentro pure un punto e virgola, giusto per conservare la specie… anzi no, mi piace di più così (^_^)
Ti dico la verità, io preferisco l’altro. Però trovo che anche questo sia scritto molto bene, sei bravo.
Grazie a tutti.
Pasqualina, questo racconto fa parte, come l’altro del resto, di un percorso di apprendimento. Ne ho altri nel cassetto dei due tipi e di altri ancora.
Credo che la preferenza vada a quel racconto che tocca di più le corde della nostra sensibilità o della nostra fantasia 🙂
Un bel ritmo serrato..! E, al vecchio, non gliela si fa! 😀
Un racconto ben strutturato che racconta la drammatica situazione di un omicidio con distacco facendo prevalere più la ragione che le emozioni. Piacevole e interessante.