Premio Racconti nella Rete 2020 “Limiti” di Lucia Urbano
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020lo capirete, sicuro. Diventerò magra, e allora sarò bella. Smetterò di mangiare, ve ne accorgerete…tutti mi guarderanno e si gireranno quando passerò per strada. Non come ora, piccolo essere informe.
Lidia restò immobile. Sentì un forte senso di nausea chiuderle lo stomaco. La scrittura era quella di Alice, la sua figlia più piccola. Aveva diciassette anni. Chiuse gli occhi, li riaprì.
perché non capite che sto male, nessuno capisce che quando mi guardo allo specchio e mi vedo e guardo le mie gambe io mi odio, voglio solo sentirmi vuota, solo quando sono vuota mi sento bene e sono felice.
Non riusciva a credere alle parole che leggeva. Non ebbe la forza di continuare, sentì la testa che le girava. Parlava ai grandi, al plurale. Certamente anche a lei, pensò. Sentì irrompere un’angoscia sconosciuta. Non aveva capito il dolore di una figlia. Non l’aveva saputa rassicurare, si disse. Un vero fallimento. Si mise a sedere sul letto. Aveva il foglio appoggiato sulle gambe. Sentì un nuovo crampo chiuderle la bocca dello stomaco.
Era stata una madre senza ansie particolari, almeno così le sembrava. Aveva affrontato serenamente anche la separazione, anni prima: dopo una fase burrascosa, aveva cercato di neutralizzare la negatività. Nessuna litigata, possibilmente. Gestioni separate dei figli, naturalmente diverse. Politically correct, si diceva. Aveva tirato avanti con determinazione, pur con qualche momento critico. Per un po’, prima di incontrare il compagno attuale, aveva gestito la famiglia da sola. Lavorando.
Come in un film, le scorsero dinanzi agli occhi le innumerevoli volte in cui, tempo addietro, a tavola, aveva insistito perché Alice mangiasse. Le pareva che fosse un passato lontano, quello. Superato.
Piccola di statura, piatta come un uscio davanti, fin da bambina aveva un qualcosa di sensuale nel modo di muoversi, nel sedere rotondo, nello sguardo assente degli occhi castani, spesso incantati verso un punto lontano. Non un carattere tranquillo, sicuro. Sembrava sempre in corsa, attratta da tutto ciò che sapeva di grande. Aveva sempre cercato i limiti. Per spostarli un po’ più in là. Come quella volta, si ricordò all’improvviso. Si sentì invadere da un’immensa stanchezza, che la lasciò come svuotata. Si abbandonò ai pensieri che la invasero come un’onda.
Le immagini salirono su da un punto lontanissimo, nel basso ventre.
Era l’ultimo anno di scuola media. La scuola era ricominciata da poco. Era una di quelle giornate di ottobre con il sole tiepido e sentori di un’estate tardiva. Non molto tempo prima Lidia andava ancora a prendere Alice all’uscita. Vedeva le frotte di ragazzini che se ne andavano via lungo il marciapiede, a gruppetti. Parecchi con i genitori. Ma Alice aveva insistito, voleva andare da sola. In terza media era abbastanza grande, diceva. La cittadina dove vivevano era piccola, di quelle che si attraversano in bicicletta in meno di un’ora. La bicicletta era perfetta. La scuola non era distante da casa loro; un sottopasso ciclabile evitava il cavalcavia e il traffico più caotico. Alla fine Lidia si era convinta, avevano fatto qualche prova insieme negli ultimi giorni di vacanza. Almeno nelle belle giornate si poteva fare.
Quel giorno Alice, tornando da scuola, aveva suonato il campanello mentre Lidia stava mettendo i piatti sulla tavola. Suonava sempre il campanello quando arrivava. Anche se aveva le chiavi di casa. Era il suo modo di annunciarsi.
“Che fai, non mangi?” Alice stava mettendo nel piatto del fratello un po’ della sua pasta, cercando di non dare nell’occhio. Era la solita pasta olio e parmigiano, il pranzo dei giorni feriali. Lidia era sempre di fretta a quell’ora: appena tornata da lavoro preparava un piatto di pasta veloce per i figli che uscivano da scuola. Mentre appoggiava sulla tavola le scodelle per Alice e Lorenzo, Lidia mangiava un pezzo di pane, così, in piedi, senza sedersi. Una mela, a volte un’insalata. Voleva solo fare presto per riposarsi un po’.
“Non ho fame oggi…a ricreazione ho mangiato un pezzetto di focaccia di Matteo. Mi dai un po’ di insalata che la pasta oggi proprio non mi va? E comunque mangiare verdura fa bene e non fa ingrassare…lo fai sempre anche tu, scusa…” “Chi te le dice queste cose? Le tue amiche? Anna, magari? Scusa, ma come fai a non aver fame da stamattina alle 7 che hai fatto colazione? Capirai, un morso di focaccia…”
Anna era allora la migliore amica di Alice, avevano la stessa età ma sembrava sua sorella maggiore: era alta, portava almeno la terza di reggiseno, l’aria sicura nei jeans stretti, fianchi ben disegnati. Qualche volta Lidia l’aveva vista coi tacchi. Abitava vicino a loro, spesso le due bambine si vedevano nel primo pomeriggio, le prime uscite sotto casa. Si conoscevano già dalle elementari.
“Macché dimagrire, devi crescere! Serve un po’ di carne alla tua età, informatevi prima di dire sciocchezze…poi se lo dice Anna ci credi subito, al solito”. “Vabbè, un attimo, torno subito”. Nessuno aveva più voglia di parlare. Alice si era alzata da tavola, suo fratello aveva fatto lo stesso poco più tardi. Lidia aveva sparecchiato in fretta, seria in volto. Un vago senso di nausea l’aveva invasa.
Poche ore dopo Alice si era affacciata in salotto con aria sorridente.
“Sabato sera posso restare a dormire da Anna? No che non siamo sole, certo. Sua mamma torna a casa dopo il lavoro, noi intanto mangiamo insieme, dai ci si diverte un po’, che paura hai? Sono a due passi…” La madre di Anna, separata anche lei, lavorava in un ristorante nel weekend: doveva lasciarla sola dopo cena, lei ormai era abituata. “Perché non la inviti qui, scusa? Dormite in camera tua, c’è il secondo letto, no?”
Non le piaceva l’idea che Alice restasse a dormire fuori, anche se era sempre più frequente tra i ragazzi di quell’età. “Una bellezza. Dorme dalla sua amica, così non devo preparare cena e mi godo la serata in santa pace”, le aveva detto qualche tempo prima un’amica che aveva una figlia della stessa età. Ma a lei la cosa non piaceva.
“Siamo in tre, viene anche Alessia. Al letto a castello in camera di Anna ne aggiungiamo uno per terra. Noi non abbiamo tutto questo spazio. Poi a cena possiamo divertirci un po’, siamo sole, qui ci sei tu…E dai, per favore…”. Per non fare una scenata aveva ceduto. A malincuore, però. Con lo stesso senso di chiusura allo stomaco.
L’anno prima si era decisa a comprarle il cellulare. Il fratello lo aveva avuto molto più grande. Lidia ne aveva comprato uno per sé solo quando Lorenzo aveva cominciato a uscire. Fin lì non ce n’era stato bisogno. Ma con Alice era diverso. Nel giro di pochi anni era cambiato tutto. I ragazzini avevano il primo cellulare già alle scuole elementari. Lei aveva aspettato, ma alla fine della seconda media si era decisa.
La sera fatidica era venuta in un attimo. Solo dopo cena, all’ora di andare a letto, il pensiero si era insinuato nella sua mente. Aveva provato a chiamare prima di andare a dormire ma nulla. Segreteria telefonica. Nessuna risposta. Non era la prima volta che Alice non rispondeva al telefono. Era distratta. Lo lasciava nei posti più impensati. Oppure sul silenzioso dopo la scuola. Eppure una morsa le stringeva lo stomaco. Sapeva bene che fumare, bere smodatamente birra o vino era un’abitudine sempre più diffusa tra i più giovani. Lo sapeva da loro stessi, dai loro racconti. Oltretutto diminuiva il senso di fame. Anche questa credenza trovava largo ascolto tra le ragazzine di quell’età.
Aveva cominciato a rivestirsi. Esco, suono il campanello e pazienza per la scenata, si era detta. Almeno me ne vado a letto tranquilla. Era stata interrotta dal rumore di un messaggio. “Tutto bene, mammina. Buonanotte”. Per un breve momento si era rilassata. Si era messa a sedere sul letto. Aveva composto di nuovo il numero. Ancora niente, segreteria. Voleva sentire la sua voce. Sì certo, poteva aver di nuovo gettato il cellulare da qualche parte, avranno la musica alta, si era detta cercando di convincersi. Era incredibilmente stanca. Si era sdraiata sul letto vinta dal sonno e si era addormentata.
Le sette. Troppo presto, è domenica. Dormi, si diceva. Ma il suo cervello si era rimesso in moto. Prima delle dieci è impossibile avere notizie. Avranno fatto tardi di sicuro. Di sabato sera la mamma di Anna non sarà tornata prima delle due, se va bene. Sentiva la sua testa macinare pensieri. E se si fosse sentita male, se avessero bevuto troppo, pensava…avrebbe avuto il coraggio di chiamarla? Di farsi venire a prendere? Ma perché mai avrebbe dovuto esagerare, diceva un’altra voce nella sua testa. È una ragazzina in gamba. Sei tu che non ti fidi, questa è la verità. Si vergognava dei suoi pensieri. Ma l’altra voce era potente. Nei momenti sereni, Alice le aveva raccontato i discorsi che facevano con le sue amiche. I loro pensieri, I loro desideri. Senza paure, senza limiti. Erano davvero disincantate. Troppo per la loro età. Del resto, le storie di solitudine erano una realtà frequente a scuola e Alice ne appariva terribilmente attratta. Pareva scegliere le sue amicizie con questa cura: preferiva gli individui con una qualche sofferenza. Forse la facevano sentire importante, compensavano qualche mancanza.
Il letto a un certo punto le era divenuto insopportabile. Erano solo le otto e mezzo. Le pareva di essere sveglia da una vita. Si era alzata per prepararsi il caffè. La colazione era forse il suo pasto preferito. Amava farla con calma, la aiutava a riordinare le idee. Tutto appariva in una luce nuova dopo il primo caffè della mattina. Una luce migliore. I pensieri di notte o all’alba diventano giganteschi. Spaventosi. Mentre metteva la tazza sul tavolo continuava a sbirciare il cellulare. Nessun segno di vita.
Erano quasi le undici. Uno squillo. “Finalmente! Ciao amore, come stai? Vieni a casa?” Dall’altra parte una voce impastata che non sembrava neppure la sua aveva biascicato qualche parola disarticolata. “Ciao, mamma, arrivo…sì sì, tutto bene…”. Per una manciata di secondi in cui le si era serrato il petto senza lasciarla respirare Lidia non aveva saputo dire nulla. Prima di rendersene conto era già fuori di casa. Aveva visto Alice sulla porta, pallidissima, un cencio. Cercava di sorridere. “Sto bene, mi ha solo dato noia mischiare, sai, è tutto a posto”. Se ne erano andate quasi senza salutare.
“Cosa avete fatto? E cosa avete bevuto?”. Alice era distesa sul divano. Un po’ di vino bianco, mentre cucinavano, aveva risposto. Poi avevano messo un po’ di musica. Aveva mangiato molto poco. Gli stuzzichini. Poi c’era la birra. Ma poi non si ricordava. Sapeva solo di essersi sentita male perché lo aveva saputo da Anna. La avevano messa a letto loro. “Ma come, mi hai scritto che era tutto a posto…! Ti ricordi?” Improvvisamente aveva capito. Le sue amiche avevano sentito squillare tante volte il cellulare. Avevano visto i messaggi. Alla fine avevano risposto. Al posto di Alice. Lidia era furibonda. E se il sonno avesse nascosto qualcos’altro? Le vennero in mente le cose peggiori. Coma etilico. Ne aveva sentito parlare. Niente vomito, solo sonno. Perdita di coscienza. E se le fosse accaduto qualcosa del genere? Sua figlia era minuta, uno scricciolo la chiamava. La massa corporea incide sulla capacità di assorbire l’alcool. Era cieca di rabbia. “Ti rendi conto? Bere, oltretutto senza mangiare, può rovinarti la vita. È l’ultima volta che fai una cosa del genere. Le regole esistono e sono anche necessarie: ci devi fare i conti.” Avrebbe dovuto essere più rigida, pensava. Non la finiva di tormentarsi, di chiedersi cosa aveva sbagliato. Alice era sparita in camera sua. In silenzio. Si era affacciata con pudore alla porta di camera. L’aveva vista che scriveva, seduta alla scrivania. Non aveva osato entrare.
Lentamente, con lo sguardo assente e offuscato, alzò il foglio che si ritrovò nelle mani. “20 ottobre 2008”, c’era scritto in un angolo, in basso. Erano passati poco più di tre anni da quel giorno fatidico. Non avevano mai parlato di quell’episodio, dopo. Né Alice le aveva mai consegnato quella lettera, spuntata fuori dalla libreria di camera mentre la riordinava. Il disordine lì dentro era una condizione naturale. Sua figlia sembrava viverci con disinvoltura, era un suo tratto caratteristico fin da piccola.
Alice era oggi una diciassettenne minuta ma non così magra. Aveva un rapporto complicato con il cibo, questo era sicuro. Ma crescendo si era un po’ rilassata. Specie quando era fuori di casa, andava a mangiare con gli amici, pizza e anche pasta se capitava. Come gli altri ragazzi della sua età. Ma forse era lei che voleva vederla in questo modo, pensò. Lidia si sentiva confusa e un po’ spaventata. Forse non aveva mai capito nulla di come stavano le cose. Forse sua figlia aveva un problema più grande di quanto lei potesse supporre…su cui certo non poteva intervenire in modo diretto. Aveva capito da tempo che il modo migliore per farla mangiare era lasciarla tranquilla quando era a tavola. Nonostante tutto, Alice aveva fame. Ma mangiava in un modo del tutto suo.
Pur amando stare a tavola a chiacchierare, le piaceva saziare la sua fame fuori da sguardi indiscreti. A volte, quando tutti si erano alzati da tavola, tornava a prendere quel che era avanzato, specie se dolce. Non voleva che altri le mettessero il cibo nel piatto: sceglieva le verdure, badando a scansare le patate. Aveva fame ma la cosa la disturbava un po’. Non le piaceva ammetterlo. Lo confessava qualche volta a se stessa o a sua madre. Comunque si piaceva così: minuta, magra ma non anoressica. L’idea di ingrassare la spaventava. Si guardava e riguardava allo specchio, prima di uscire. Ma sembrava aver raggiunto un soddisfacente grado di accettazione del suo aspetto fisico.
“Fidati, aspetta solo un po’ di tempo ancora…anche tu sarai una bellezza. Devi solo avere un po’ di pazienza e lasciare che il corpo sbocci. Non vorrai restare piccola in eterno…” Si ricordò di quella frase, le venne in mente quante volte l’aveva ripetuta. Intanto che, senza farsi notare, le passava un altro pezzetto di pesce. Con le buone, sempre. Mettersi di punta non avrebbe risolto nulla, poteva solo peggiorare le cose. Se lo era ripetuto come un mantra, in quel periodo difficile della transizione all’adolescenza. Le pareva l’unico modo possibile di esserle vicina. Ma avrà funzionato? La domanda rimase senza risposta. Si disse che forse una risposta non c’era. Si alzò e uscì dalla stanza, senza terminare la lettura. La lettera tornò dietro il libro da cui era spuntata.
Quello era il pomeriggio della prima. Da qualche anno Alice aveva scoperto il teatro e se ne era innamorata. Stare sulla scena sembrava lenire le sue insicurezze e placare le sue inquietudini. Sembrava capace di farla sentire bella e amata. Quando tornava stanca dalle prove si sedeva a tavola serena e sembrava allontanarsi dalle ossessioni che l’avevano tormentata qualche anno prima.
Le apparve bellissima. Tutta vestita di bianco, sua madre la vide apparire sulla scena da una porticina secondaria accompagnata da un corteggio di damigelle. Era la scena del matrimonio segreto con Romeo, Alice era Giulietta. La luna era appena sorta sulla riva del lago. Era uno spettacolo all’aperto. La luce soffusa di quel tramonto dei primi giorni d’estate illuminava il prato su cui erano sistemate le sedie per il pubblico. Poi, più lontano, andava a confondersi con il colore dell’acqua. Lidia commossa guardava sua figlia, il corpo esile, le spalle minute e il bel viso sorridente ornato dai capelli biondo cenere circondato da un velo bianco. Lo aveva recuperato da una prima comunione di molti anni fa.
Si chiese se la conosceva fino in fondo, sua figlia. Quando la vide disperarsi per il suo Romeo esiliato a Mantova, o supplicare rabbiosamente Frate Lorenzo di trovare una soluzione per evitare il matrimonio con Paride, si ricordò all’improvviso del rancore che traspariva dalla lettera. Il viso alterato da un moto profondo di disperazione le riportò davanti agli occhi la stessa rabbia. Forse era entrambe le cose, pensò alla fine dello spettacolo. Un essere in cerca le sembrò, che aveva ancora molto bisogno di qualcuno che lo accompagnasse.
Lo spettacolo era finito. Alice sorridente riceveva i complimenti del pubblico, mentre sua madre, affamata, mangiava un panino. Non c’era stato il tempo di cenare, bisognava esser lì fin dal tardo pomeriggio.
Finalmente toccò a lei. Sua figlia le si avvicinò, felice. Mentre la abbracciava, Alice dette un morso vorace al suo panino, ridendo nascosta dalle braccia di sua madre.
Affronti un argomento delicato e lo fai con molto garbo. Perfettamente credibile l’ansia della madre che scorre sul filo di ricordi che assumono il sapore di un esame di coscienza.Il groviglio di sensi di colpa si dipana solo alla fine e mantiene il lettore incollato a una lettura da cui esce sicuramente soddisfatto. Complimenti.
Grazie, Monica! mi fa piacere che siano emerse queste emozioni
Gli stati d’animo sono ben descritti e veritieri. Si legge tutto d’un fiato, con un nodo allo stomaco che fortunatamente, alla fine, si allenta 🙂 Bello!
Bellissimo. Argomento complicato che tu hai sviluppato molto bene. Sono stata in ansia fino alla fine, perché il mestiere di mamma è proprio complicato, si cerca sempre di agire per il meglio, ma non sempre ci si riesce. Finalmente poi il sollievo!