Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2020 “Fotogrammi” di Marco Selvini

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020

Puntuale.

Puntuali, in realtà.

Sono due, infatti. Anzi sono uno e alcuni, e gli alcuni arrivano uno alla volta, per cui è come se fossero due, col secondo sempre diverso. Quasi sempre. Uno costante e l’altro incostante come un’adolescente dispettoso. Filmati, sequenze di fotogrammi della memoria.

Il primo arriva verso le tre di notte. Educato, comincia con calma. Sempre uguale a se stesso.

Il secondo, i secondi, fanno un po’ quel che vogliono. Arrivano dopo l’alba, tra le cinque e mezza e le sei e mezza. La mezza mi ha sempre fatto sorridere. Se fossi un incubo vorrei darmi più importanza, vorrei spaccare l’ora o piuttosto vorrei essere bizzarro e arrivare quasi a caso, un ‘a caso’ evocativo come per esempio alle 5,55 o alle 5,43. Si vede che a loro va bene così, e io, del resto, non posso farci molto. Non sono io il loro incubo, ma loro i miei.

Il primo fotogramma è ripreso di sabato. Un sabato del tempo dei sogni. Un sabato che probabilmente dura pochi minuti ma che nella mia testa dura un giorno intero. La mattina presto scopriamo un ulteriore passo indietro, la corsa al negozio a comprare tutto quello che potrebbe servire ad aiutare. La corsa a casa per usare almeno una volta, e sarà solo una volta, quello che si è comprato. Un barlume di felicità per essere riusciti a lavarsi i denti in modo indipendente. I denti. Indipendentemente. Sciacquare il viso seduti di fronte al lavandino, seduti su quell’oggetto che saprà essere utile solo quella volta. Quella soltanto. Regressione all’infanzia, anticamera del tramonto. Il cuore, che quella realtà l’ha vissuta nel mondo reale, e che la rivive ogni notte, verso le tre, comincia a stringersi e a fare male. Il fiato comincia a mancare.

Il resto del sogno, incubo e ricordo, attraversa una domenica in cui le idee che pulsano nella mia testa si fanno più spinose e confuse mentre le capacità di chi mi sta di fronte retrocedono velocemente, perdendo la parola, tutte le parole eccetto una. E almeno fosse stato un nome, almeno fosse stato il mio nome. Il male non ha pietà, non ha considerazione per nessuno. È democratico, in un certo senso: è la materializzazione del principio di uguaglianza. Non di equità, sarebbe troppo bello, ma di uguaglianza. Quello che le resta, quella parola, è assieme un grido ed un sussurro, un nome, una supplica; tutto il linguaggio che si vorrebbe avere per esprimere i pensieri che ancora lottano nella mente compresso in cinque sole lettere, una spina che trafigge le orecchie e l’anima. Che porta alle lacrime ogni volta che viene pronunciata, perché è una parola che rivela tutta la mia inutilità: “aiuto”.

Lunedì, ancora del sogno. Non chiede più aiuto, ha perso anche quell’ultimo barlume di pensiero. Occhi chiusi, respiro affannato, sempre più corto e sempre più rapido. Il gorgogliare dell’ossigeno che invade la stanza, e che quando sono da solo in quella camera, a quasi otto mesi di distanza, continuo a sentire. Sottofondo incessante al silenzio che non riesco ad avere.

Lunedì, ancora per poco. Diciotto ore da quando l’alba mi ha buttato giù dal letto. Gli ultimi tentativi goffi e sgraziati di renderle sopportabile la più grande ingiustizia a cui ho assistito finora. Le ore che corrono veloci, le persone, volti cari, scolpiti per sempre nel ricordo. Il pudore che fa stare zitti, la sproporzione tra ciò a cui si assiste e ciò che si è, che ti fa dire una qualsiasi cosa pur di non precipitare nella più spaventosa solitudine. Ci si conforta così, implicitamente, senza dire ciò che si sente, senza dire nulla di quel sentimento che ci accomuna. Grazie, grazie ai volti e alle persone, grazie per essere stati lì, anche nel sogno. Grazie per il silenzio e per le parole inutili, grazie. Sarei caduto in quella voragine che andava lentamente formandosi proprio sotto il punto d’appoggio su cui si reggeva la mia anima senza di loro. Grazie per averla tenuta su, la mia anima.

Tramonto, la sera, cena veloce. I miei ragazzi, una preghiera, una delle tante, tante preghiere. Inutili come le parole usate per rompere il silenzio troppo opprimente. A volte penso che Dio fosse stanco di sentire la mia voce, e per questo abbia accelerato la pratica. Le dieci: ancora una preghiera, insieme io, i nostri figli, e parte di lei. Una preghiera alla Divina Misericordia, la sua più incrollabile fede. Nessuna misericordia, comunque, né divina né umana. Accompagno i figli a letto. Do loro una carezza con la mano e qualche altra con le parole. Buonanotte angeli miei, dormite bene e state tranquilli, finirà presto.

Mezzanotte. Ancora un’ora spesa a parlare, a carezzare e a pregare, approssimativamente a pregare, perché la rabbia è tanta, troppa. Ancora un’invocazione alla Divina Misericordia e poi quasi un invito scortese: “Ci siamo, vieni a prenderla. È pronta, non serve aspettare oltre”. Il tempo di allontanarsi per cercare di fare uscire dalle orecchie il gorgogliare incessante, il sibilo a cui il respiro si è ridotto. Un tempo rapido, e la missione è compiuta.

Stop.

Il filmato si blocca su quell’ultimo fotogramma, nel momento in cui chiudo il rubinetto dell’ossigeno e si apre quello della mia disperazione. Un lungo urlo silenzioso, profondo, stonato, infuriato, rassegnato, nero. Così mi sveglio prendendo aria a pieni polmoni, aggrappato alle coperte, come se quell’incubo l’avessi vissuto in apnea. E forse è così perché anche dopo, quando sono sveglio, fatico a respirare. Le cifre rosse della sveglia segnano le tre, come ieri notte, come l’altro ieri, ed il giorno prima e quello prima ancora. Come domani, perché so che sarà così.

Lascio asciugare il sudore che gela la mia pelle e scivolo di nuovo nel sonno, per riposare un po’ dalla fatica di quell’incubo. Ripongo il filmato che non voglio però archiviare. È un ricordo prima di essere un incubo. Perché se separarmi dall’incubo vuol dire separarmi dal ricordo, allora che torni pure ogni notte. Il ricordo è parte di me, di lei, di quel che è stato e non sarà più. Di lei non vorrei dimenticare nulla, anche se so che succederà: almeno per ora, finchè posso, non voglio lasciare che scivoli via.

Il resto dei fotogrammi, l’altra parte della coppia, arrivano all’alba. Arrivano in sequenze disordinate, che spesso mutano le une nelle altre. Si confondono come nella nostra mente, da svegli, si confondono i ricordi lontani per i loro contorni che sfumano.

Sono le sequenze filmate di una vita intera, di 24 anni della mia vita. Cominciano con un incontro lontano nel tempo, al lato di un assurdo campo da pallavolo in cemento, una sera di inizio luglio. E da lì continuano per tanti altri giorni. A volte in bianco e nero, a volte senza colonna sonora. Ricchi di sapori, a volte dolci e altre amari. Di odori, delle sensazioni del tatto. Una catena apparentemente infinita. Apparentemente, purtroppo.

Mi svegliano in modo meno drammatico. Ma specie d’estate ringrazio il caldo che confonde le lacrime con le gocce di sudore che scivolano lente dalla fronte.

Uno e tanti ricordi, fatti di centinaia di momenti, centinaia di fotogrammi. Fissi nel tempo, quasi identici gli uni agli altri, che quando nella notte si mettono a scorrere rapidi diventano sogno o incubo. Forse potrei chiudere la scatola in cui li conservo. Potrei fare curare la mia mente, cacciarli via. Ma si può cancellare la nostra vita solo perché un evento ci ha lasciato un segno un po’ più profondo? Una madre cancellerebbe il proprio figlio per liberarsi della cicatrice del parto cesareo? Trattengo i miei fotogrammi, non li abbandono, mentre lentamente consumano la mia ragione. Se il mio sguardo si fa assente è perché ho aperto la scatola in cui li conservo, perché un luogo o un momento in cui mi perdo fanno parte di quella collezione di ricordi che non voglio smarrire. O più semplicemente perché mi prende la disperazione per non poter aggiungere alla collezione un nuovo ritaglio di pellicola.

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9 commenti »

  1. Un racconto angosciante . Un angoscia magistralmente sottolineata dalla scelta della punteggiatura. Non so cosa dirti, Mi hai lasciato senza parole. In bocca al lupo ! Per me sei top!

  2. Molto bello, intenso, denso, viscerale. Un tormento scritto, molto vero, che si vive insieme alle tue parole.

  3. La paura di un distacco definitivo, quello dalla memoria, l’attaccarsi all’incubo come unico filo di contatto, come prezzo da pagare per mantenere i ricordi. Un tema difficilissimo che si attacca al lettore trasmettendo sofferenza, sollievo, dipendenza, dolore e inevitabilità. Colpito e affiondato da questo racconto. Bravo davvero.

  4. Formidabile. Mi ci hai portato dentro. Ho sofferto nel dolore, nella disperazione e ho lottato con gli incubi fatti di fotogrammi per non lasciare andar via i ricordi. Complimenti davvero.

  5. Beh! E’ una grande storia d’amore, anche quella parte in cui magari ci si riconosce di meno, forse perché meno sentita, come quell’invocazione alla Divina Misericordia, la sua incrollabile fede…
    A parte aver voluto scrivere e condividere un bel racconto, ben articolato e sincopato, sovrapposto e avviluppato, è soprattutto un grande regalo che ci fai, che ci hai fatto. Grazie moltissime Marco Selvini.

  6. Vi ringrazio di cuore per i vostri commenti.
    Sono la più bella ricompensa per chi prova a scrivere.
    Grazie.

  7. Un racconto bellissimo, in cui il tempo è scandito in modo perfetto. Come un direttore d’orchestra dai il tempo al lettore che resta imprigionato in una dimensione fatta di ricordo, dolore, attesa, dubbio, alla ricerca di una soluzione che ha quasi paura di trovare. Una sospensione che attanaglia fino all’ultimo rigo. Complimenti, scrivi molto molto bene. Bravo!

  8. Una storia lacerante come le decisioni sofferte che si sono prese e i ricordi che non mollano più. Ottimo lo stile narrativo che alterna le immagini vissute e gli stati d’animo del soggetto. I miei complimenti.

  9. Bello. Onirico, incalzante, e serrato. Un dire e non dire che prende il lettore e lo porta nel vortice dei suoi pensieri. S’intuisce una situazione ma forse non o è. Ben scritto, bravo!

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