Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2020 “Il morbo di P.” di Tullia Bartolini

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020

P. riposa, o almeno così sembra all’infermiera che entra con passo felpato nell’area dei ricoveri di media intensità. È un momento di relativa calma e la donna ne approfitta per verificare il livello della fisiologica nelle flebo e per assicurarsi che la frequenza dei respiratori sia in grado di insufflare nei polmoni dei pazienti il gas necessario alla sopravvivenza.

La funzionalità meccanica e l’intelligenza di quei polmoni artificiali è ciò che consente ai malati di restare in vita.

P. avverte la presenza della donna accanto a sé, ma non ha  la forza di aprire gli occhi. Nella sua mente, tra veglia e sonno, le immagini fluttuano e si sovrappongono, come tessere di un mosaico.

P. sente, o crede di sentire, il rombo di un motore e le voci da un altoparlante che annunciano il prossimo volo.

È davanti alla cassa del bar e sta ordinando un caffè macchiato. Osserva i gesti del cassiere, le mani screpolate che gli porgono il resto, quindi sente ancora un rumore di passi e di ruote di carrelli e trolley che vengono trascinati sul pavimento. Poi ecco che sprofonda dolcemente in un sonno ritmato solo dallo stantuffo sincrono del respiratore.

Una settimana prima sua figlia lo aveva chiamato per annunciargli che sarebbe tornata in Europa  per stare da loro. “Ma solo per un po’ “, aveva aggiunto. 

Quando quella voce aveva sorvolato l’Oceano per arrivare fino a lui – quella voce che non sentiva da tempo e che aveva, adesso, la gravità sgraziata dello slang americano -, il cuore di P. aveva avuto uno scarto doloroso.

Non sentiva Tonia da sette anni, da quando lei aveva deciso di seguire negli Stati Uniti un poco di buono a cui la legava un amore disordinato e infelice. All’inizio, dopo la sua fuga precipitosa, c’era stata qualche telefonata fatta alla madre, davanti alla quale P. si era limitato a una scrollata di spalle uscendo dalla stanza.

“Papà, sono Tonia”, aveva detto, “arrivo domani all’aeroporto di Capodichino”. Neppure un come stai?, un saluto.

La sera screziava di blu il cielo ancora azzurro, ancora per poco. Sarebbe arrivata la notte, rivelandosi placida sui tetti del paese arroccato a settecento metri di altitudine, sul campanile eretto dai provenzali al tempo della loro migrazione. Sarebbero scomparse le sagome delle case, appiattite nel silenzio rotto solo dall’ululato di un cane, dal fruscio delle foglie trasportate dal vento.

P. aveva vissuto gran parte della sua vita nella casa di famiglia accanto al campanile, nella piazza da cui si dominava la valle argentea o infuocata dal sole, con le lingue d’acqua del fiume che accarezzavano le sponde, gorgogliando.

Solo una volta, da che lui aveva memoria, il canale aveva ingrossato con violenza gli argini e divelto le pietre del ponte, che era crollato in grossi massi irregolari nell’acqua. Poi il fiume aveva ripreso a scorrere  svogliato e regolare, finché Tonia era andata via.

La vita in paese era molto diversa da quella frenetica che P. trascorreva in azienda, a cinquanta chilometri di distanza. Era una profonda dissociazione: aveva scalato i vertici e assunto ruoli di responsabilità che gli avevano bruciato la vita e trasformato il suo matrimonio in uno spento malinteso. Il tratto di strada che ogni giorno percorreva per tornare a casa, talvolta, si faceva più lungo per le soste in un motel della provinciale, quando l’urgenza sessuale si faceva più intensa e qualche collega ambiziosa accettava i suoi inviti. Era il massimo che si consentiva, nella ritualità delle sue giornate tutte uguali, organizzate, efficienti. Rifare la vita da solo o affidarsi a una passione, comunque, era un progetto che non lo riguardava.

Suo padre era morto giovane, ingerendo del veleno per gli alberi da frutto. Aveva gridato a P. di raggiungerlo in camera quando ormai era troppo tardi e, nelle convulsioni, gli aveva stretto le mani fino a fargli sanguinare i palmi. Lui non si sarebbe suicidato, la partenza di sua figlia non lo avrebbe distrutto, quel dolore gli bastava attraversarlo. O almeno così aveva immaginato fino al giorno in cui la voce di Tonia non aveva squarciato le pareti del tempo. 

Si era preparato all’incontro con tutta la cura possibile, aveva fatto lavare l’auto, tagliato i capelli, pensato alle frasi giuste da dire.

Quando, tra la folla in attesa, i taxisti, gli addetti dei tour operator, tra i cartelli con su scritti nomi sconosciuti, l’aveva finalmente veduta, il cuore aveva decelerato di colpo. Era lei, certo, era suo quel modo di camminare, spostando il peso del corpo all’esterno dei talloni. Erano sue le spalle ampie, l’altezza. Ma ora Tonia aveva il corpo appesantito, la schiena incassata nelle scapole. Portava un maglione scuro e informe che le lasciava libero il collo, segnato da profonde pieghe orizzontali. Aveva le guance pallide e flosce e le labbra, semiaperte nel respiro affannoso, le davano un’aria stanca. 

Le andò incontro vincendo la repulsione che provava. 

“Tonia”, disse, e pronunciò quel nome slegando le consonanti dalle vocali, con gravità. 

T o n i a.

“Grazie per essere venuto, papà”, disse lei. Non vi fu nessun abbraccio, nessuna stretta di mani. Non si dissero altro nel tratto di strada che percorsero fino al parcheggio, mentre il crepuscolo luminoso delineava in lontananza le sagome dei brutti palazzi di periferia, le antenne come corone disordinate, i pini che si protendevano verso il buio. 

Una volta in auto, l’occhio di P. cadde sulle mani di sua figlia, un anello per ogni dito, gonfie come quelle di un malato.

La guardava con la coda dell’occhio mentre guidava, ed ogni domanda gli si smorzava in gola. Arrivarono a casa seguendo la strada serpeggiante che portava al paese, nel silenzio rarefatto dei campi illuminati dalla luna.

“Sono stata in una casa famiglia. È giusto che tu lo sappia, papà. Su al Nord. Ho scontato una pena alternativa. Ma è andata”, disse lei a un tratto, rompendo il silenzio. La sua voce era come il ronzio di un moscone che irrompe in una stanza silenziosa, lo zampettio di uno scarafaggio. Era come un microbo che si insinua nelle viscere, un disturbo, una croce su un calendario. Eppure P. amava sua figlia, non c’era mai stato nessun altro amore, per lui.

Fu tre, quattro giorni dopo che P. iniziò ad accusare un forte dolore all’altezza dello sterno e difficoltà respiratorie. In TV sentì parlare di un virus che aveva viaggiato a velocità spaventosa dall’Asia, varcando velocemente i confini dell’Europa. Ma non risultava che fosse ancora arrivato a settecento metri di altitudine, nel paesino arroccato intorno al campanile. Quella che sentiva era solo stanchezza, pensò, una sorta di contrappasso rispetto agli eventi che avevano stravolto di nuovo la sua vita. Poi si ricordò del bar all’aeroporto, della malagrazia del cassiere nel porgergli il denaro, come se quello sconfinamento in un territorio non suo – un luogo di passaggio, inaffidabile come un aeroporto – fosse stato l’inizio della fine. Della fine di cosa?

Quando l’ambulanza venne a prenderlo non si voltò a guardare sua moglie sull’ingresso di casa, non vide Tonia piangere, nascosta dietro di lei. Forse gli sarebbe accaduto di non tornare mai più, il disegno aveva raggiunto il suo culmine. La vita lo aveva costretto a procedere a dispetto di tutto, rivelandogli la forza diabolica che rende gli uomini prigionieri delle proprie scelte. Quante volte, da dietro la finestra del suo ufficio, sollevando lo sguardo dallo schermo del computer, aveva visto trapelare una luce febbricitante. In quella luce aveva intuito ogni volta un richiamo. Sarebbe bastato poco, seguirlo. Alzare la cornetta, comporre un numero di telefono, aspettare che una voce femminile rispondesse. Avrebbe potuto raggiungere sua figlia nel suo disordine,  sparigliare le carte, rifare il gioco daccapo. 

In auto, forse, mentre rientravano a casa dall’aeroporto, quella luce era sfuggita al suo controllo, strappando spazio alle parole. Era straripata come il fiume, rotto gli argini, scappata complice dalle viscere di Tonia per  arrivare fino a lui. Nella cavità del suo torace, tra gli alveoli dei suoi polmoni, il morbo s’era fatto spazio e aveva rotto l’ordine del calendario.

Sì, doveva essere andata proprio così, aveva pensato, mentre l’ambulanza lo portava via a sirene spiegate.

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1 commento »

  1. Una storia cruda e attuale che assume il valore di un monito. La mia mamma mi diceva sempre “Chi ha tempo non aspetti tempo!” Nel senso che è inutile avere rimpianti, quello che deve essere fatto, va fatto prima che sia troppo tardi. Fa riflettere.

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