Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2020 “Granello di polvere” di Iole Simone

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020

Sono io l’unico custode della mia forza e decido di ingrassare. Sono tornato dalla guerra troppo esile e quel vestito della domenica mi va largo. Voglio rimettere i miei panni; è diventata quasi una mania: il senso del mio vivere. Non voglio più identificarmi nell’idea di nazione, di alleati, di nemici, di complici o disertori; voglio identificarmi in me, col mio corpo e niente di più. Voglio essere un’ossessione che parta da me e arrivi a me. Non voglio salvare nessuno, non voglio che nessuno mi salvi. Sono tutti felici e ne sono contento. Mi chiedono di raccontare, di parlare dei miei compagni, di ciò che mangiavo o bevevo, di tutto il fumo che respiravo: no, voglio solo ingrassare. Non ero indifferente né diffidente verso chi incontravo, ma dovevo fare altro; ho avuto troppo tempo per pensare e devo svuotare la mente e riempire il corpo, solo questo. Non era autocommiserazione, era quello e basta.

Poche case sparse e arroccate qua e là in maniera disordinata. Zolle scomposte invadono una rete di sentieri, fra castagneti e sterpaglie incolte. Un luogo zeppo di conifere e di faggi, il tutto ricoperto ed avvolto da essenze arboree e da quel profumo di bosco che non si può descrivere. La foga per la fine della guerra è incontenibile, come le prime sommosse. La gente non pensa all’economia sconvolta, non può sapere che a Milano sarebbero nati nel diciannove i Fasci di Combattimento, né prevedere la marcia su Roma nel 1922; tantomeno in questo piccolo borgo toscano. Era troppa la gioia. Un’unica idea nella testa di tutti che si esprime in quattro parole: “la guerra è finita”. La voglia di rinascita è senza limiti. Il mondo doveva essere migliore e basta. Le donne sono nuove entità, divenute più responsabili: si sono rimboccate le maniche, hanno lavorato al posto dei mariti militari e martiri maturando una nuova responsabilità e consapevolezza. La loro utilità e il loro valore li ha rese più forti nei campi e molto più indipendenti. Sembra che le tradizioni si siano capovolte e io mi chiedo: “È indipendenza o distacco. O forse estraniazione?”. Sono tutti gli effetti insiti delle grandi guerre che ti snaturano. Forse cresci o probabilmente devi trovare il buono anche nel male. Ma in ogni caso è finito l’incubo ed è l’inizio di un punto di svolta epocale. Quando prendi coscienza di certe realtà, non sarai più quello di un tempo, non puoi esserlo: a tua insaputa ti trasformi. Non c’è scampo, né tantomeno tempo, non puoi correre ai ripari. Devi necessariamente adattarti. Combatti e non sai perché, vinci e non sai cosa. C’è una sola certezza: hai perso comunque. Alla fine si esulta ma per cosa? Della vittoria su un mostro senza testa, dei trofei o forse delle medaglie? E cosa te ne fai se non avrai nemmeno un corpo su cui piangere.

Devi per forza risorgere, non hai scampo. Nonostante le lacrime e la troppa rabbia.

 La mattina ero solito attraversare la piazza più o meno alla stessa ora per recarmi in farmacia. La solita medicina per mia sorella. Però quel giorno uno di quei volontari post-bellici, senza alcun motivo plausibile, mi rincorre e mi porge un libricino distrattamente, senza proferire parola. Non volevo tenere quell’ammasso di foglietti fra le mani ma nemmeno essere sgarbato e lo prendo. Appena giro l’angolo sono già in cerca di qualcuno o qualcosa per liberarmene. Mentre sono intento a chinarmi sul marciapiede per poggiarlo lì, vedo in un angolo poco lontano, una donna accasciata. Non ne sono per niente impietosito, magari le piace essere lì: mi colpisce o, meglio, vedo un dettaglio strano che mi induce a rallentare il passo fino a fermarmici accanto. Al posto di qualche collana, sul collo, penzolano due scarpette da ballerina che si muovono sui seni semi nudi.

In quel libricino che ho tra le mani non può esserci nulla di più interessante di quanto mi si presenta davanti. La donna non la conosco.

«Mia madre è morta.» esclama. Mi guarda senza esitazione.

 Non so cosa rispondere: «Mi dispiace». Accenno sotto voce, forse è questo che la fa stare così male.

«E con lei anche io.»

Una figlia addolorata che va in giro con delle scarpette al collo per mostrare il suo dolore? Il nostro silenzio si prolunga mentre lei mi fissa e con le dita accarezza i nastri sudici. Mi allontano con una certa cautela ma lei continua a fissarmi. Ignara del suo coraggio, semi nuda davanti agli occhi di un mondo che ha visto troppo dolore e che non ha più tempo né voglia per vederne altri, mostra le sue scarpette con quei nastri in raso ondeggianti. Mi sento come un pellegrino senza meta, come un prete senza chiesa, come un soldato senza fucile. Non so cosa fare. Per la prima volta vedo un corpo di donna così perfetto ma fuori luogo e forse fuori tempo. La mia ossessione per i dettagli strani mi invade, indietreggio e ritorno dove ero pochi metri prima. Se fossi stato un pittore avrei dipinto un’impressione di infelicità. Ma lei no, non era infelice. O, almeno, pareva felice nella sua infelicità. Bellissima, tristissima, corpo esile e occhi strani, né assenti né vivaci, non sofferenti, forse consapevoli: dolore e poesia oppure tristezza e passione. Prendo coraggio, spazzo via compassione, pietà o qualsiasi altra cosa che avrebbe potuto trattenermi lì e vado via: è viva, questo è l’importante.

Una volta recuperato tutto, non resta che perdere la commiserazione per sopravvivere: questo è quello che ha condotto le mie scarpe a muoversi e, con ogni passo, mi riprendo lentamente quei pensieri ribelli che si insinuano a volte e che non riesco a zittire. Ho letto tanto sulla resa dei conti ma cosa è davvero ancora non mi è chiaro. Non ho potuto fare a meno di rammentare la sera il volto di quella fanciulla; mi ricordava qualcuno ma proprio non riuscivo a capacitarmi dove l’avessi mai potuta scorgere. Ero intento a girare il brodo con quel cucchiaio di legno vecchio e tutto consumato ma che svolgeva ancora bene il suo lavoro. Mi divertivo a creare delle forme in quel pentolone così grande che sapeva di buono. Proprio mentre giravo e rigiravo che mi torna in mente: è la figlia del boscaiolo. Quell’uomo rude che ho incontrato per andare a recuperare l’olio, in cima al borgo più sopra. Sì è lei, perché quando smise di piovere vidi questa fanciulla e le chiesi di indicarmi la strada che avevo perso. C’era un’unica casa lì arroccata poco distante; era lei senza dubbio. Chiedo a mia madre, intenta a rattoppare chissà cosa, se fosse morta qualche donna non troppo giovane poco tempo prima: mi dice di sì; una signora che abitava col marito e la figlia nel borgo di San Leone.

 «Brava gente. Solo che quella figlia è un po’ strana. Non si vuole maritare e ha la testa fra le nuvole».

Se non fosse così, mia madre non avrebbe perso l’occasione per proporla a me, anche se non ho più l’età per maritarmi. Mi assopisco sul quel divano che sa di mio padre e la ragione fa un altro passo indietro. La mente sembra galoppare in un mondo vicinissimo: mi immergo in quella raccolta di racconti, unici alleati, unico calore che mi scaldava in trincea; unico cibo per sopravvivere. Poi li ho traditi. Ho un’unica cosa da fare: rinchiudere in una cassa tutti i miei volumi, li ho proprio sepolti vicino al pozzo sotto casa. Sapevano di fumo ed io con loro. Sono ancora lì ben richiusi, con qualche margherita nei pressi. Se dovessi dire a me stesso quali sono i miei interessi, oltre al cibo e al vino, direi che mi incuriosiscono i dettagli delle cose: ecco perché mi sono fermato Non ho cuore? Forse no.

Una mattina uggiosa. mia madre mi chiede di recarmi presso un tale a recuperare un po’ di olio e malvolentieri mi sono incamminato; una ora e mezza per quei sentieri e salite irte. Man mano che salivo su, tutto sudato, appiccicato e pesante, sentivo una musica; era come se mi guidasse e mi indirizzasse sulla giusta via. Resto attonito inizialmente e mi nascondo, quasi impaurito da quella stranezza. Vedo un uomo davvero inquietante: alto, goffo, grosso con la barba e un cappello. Anche se eravamo distanti mi dava l’impressione di sudicio. Anzi era proprio sudicio. Uno come tanti da quelle parti con mani esperte e solide, rigide, piene di calli ma stranamente olivastre. Lo scorgevi sempre lì, con la pioggia, il sole, il vento. la neve: arroccato fra quei cespugli con la sua inseparabile accetta che sembra scolpire tutto ciò che gli capita davanti. Curioso il modo con cui maneggia quell’arnese; sembra essere la sua terza mano, non lo vedi mai senza e poi indossa sempre quel copricapo rappezzato. Ma certamente la cosa più strana di quell’uomo era che era l’unico che sembrasse essere nel posto giusto. Ogni cosa non era nel posto giusto. Tutti sono letteralmente affamati ed esasperati; l’assenza del capofamiglia aveva creato una disgregazione della tradizione, come fosse stata colpita da quell’accetta del boscaiolo. Delusione, povertà, fame, orrori della guerra impregnano l’aria e sento ancora oggi quell’odore acre delle terre incolte. Il boom dei mezzi di comunicazione di massa sarebbe avvento molto più tardi e sarebbe arrivato nel nostro borgo ancora più in là. Miseria ovunque ma quell’uomo possiede una radio! Era così diverso e non tanto per quel buffo cappello rattoppato che gli penzolava sul collo, pieno di spine e foglie secche ma soprattutto per quello strano oggetto che emanava dei suoni che sembravano cavalcare il bosco. Non avevo mai udito quella cosa e soprattutto da dove usciva, come faceva, cosa diavolo era. Molto ma molto più tardi capii che era una radio, ma la cosa assai curiosa era come mai un boscaiolo sperduto tra i faggeti di un borgo a sua volta sperduto, avesse quell’aggeggio. Allora neppure i ricchi ne possedevano una. La stessa televisione molti anni dopo avrebbe trasmesso delle note per poche ore al giorno. E quell’uomo così goffo aveva il lusso di avere addirittura una radio personale? Una scatola enorme poggiata su un tronco secolare. Convenite con me che era alquanto curioso.

Io ero uno dei pochi che sapeva leggere e scrivere. I miei volumi erano tutti accozzati; le stesse rilegature erano per lo più scollate, sembravano si urtassero a vicenda in maniera prepotente: erano lì, con minuzia esasperata, a lottare contro l’umidità di quella stanza. Spolveravo gelosamente quei libri, di certo mal tenuti nel tempo, ma tanto antichi. Erano il mio orgoglio ma mai avevo letto di quell’aggeggio.

L’uomo mi nota ma è indifferente. Non si volta neppure con lo sguardo verso di me e continua a lavorare; posa l’accetta e inizia a battere con una forza incredibile quel fusto con le mani e la punta del piede. Alla fine quel fusto che sembrava tanto robusto, si rompe. Poi alza lo sguardo mi guarda, anzi mi fissa. Io ne resto impaurito: aveva uno sguardo cattivo, inquietante. Poi finisce il silenzio e mi fa cenno con la mano come volesse dirmi vieni e smettila di essere timoroso. Mi avvicino saluto con la mano e mi invita a sedermi sul quel sasso pieno di muschio scivoloso che inesorabilmente mi si appiccica al pantalone. Mi offre una castagna. Quell’invito non lo posso rifiutare e, in maniera garbata, la apro con i denti e ne mangio un pezzo. Non avevo mai mangiato una castagna cruda. La mia famiglia era benestante e mia madre era solita cuocerle in acqua bollente insieme a riso e farro ma sempre sgusciate. Anche lui la monda con la differenza che apre il guscio con un coltello affilatissimo. Sembra un maestro.

“Non può esistere solo quello che vedo” pensa la mia mente ed era forse quello il motivo per cui non mi alzo da quel tronco umido e appiccicoso. Con una certa cautela provo una sorta di dialogo per rompere quel silenzio che sa di bosco, quasi ovattato. Quell’uomo con estrema calma e precisione continua minuziosamente a sbucciare quel frutto: sembra che ne contempli la forma, il colore. Mi sembra difficile capire quegli occhi, ma, al contempo, intravedo un grande mondo da rispolverare, come ero solito fare ogni giorno con quei volumi che avevano perso la loro lucentezza. Mentre sono sul punto di iniziare un tentativo di dialogo, comincia a piovere. Un tuono improvviso rompe il silenzio e pensai che quella pioggia sembrava essere arrivata proprio al momento giusto. Dove vado? Non ho trovato il contadino per prendere l’olio, non ho un ombrello e sono in mezzo ad un bosco. Mi ritrovo davanti a quest’uomo che ha il volto asciutto perché quel cappello bizzarro lo ripara dalle gocce incessanti che oramai ci hanno invaso. E lui cosa fa? Accende quella cosa, sì, la radio, senza alcun discernimento. Sono corso a ripararmi e, quando la pioggia cessò, tornai al borgo con l’olio ma senza avere scambiato una parola con quell’uomo. Eviterò di tornare in quel posto. Basta, non voglio distrazioni né interessi che siano diversi dal cibo.

Una forza nascosta mi ha trascinato verso quei libri sepolti, come se mi attirassero a sé. Sono tornato ad osservare il pozzo o, meglio, la terra che lo circoscrive. Non posso permetterlo. Ora sono libero e non voglio più catene, nemmeno se parliamo di parole.

Ricevo una lettera dal comune vicino, sono stato richiamato al mio lavoro dopo il ritorno dalla guerra. Significa rientrare in quella stanza ampia, piena di luce. Cosa devo fare? Ridare la parola ad un muto che un tempo parlava e che ora ha ucciso le sue parole? A cosa servono tutte quelle ricerche, gli archivi, i faldoni, la burocrazia quando ritorni dal fronte? Meglio scrivere della vita cruda, assassina, violenta anziché perdere tempo nel riordinare e spolverare libri senza vita e poi scoprire che la vita non è lì ma nel mondo che, tra l’altro, neppure hai scelto e che neppure vuoi sia così. Ma è così e basta. Cosa dovrei fare? Mettermi sull’attenti al segnale della tromba in lontananza, ascoltare il rumore del nulla o annusare il brodo che non ho potuto assaggiare per due anni? Davanti a quella missiva sono contrariato. Non so bene cosa c’entri con me: è un invito al passato o mi obbliga a cancellare la memoria della guerra?  È l’inconscio che manda i suoi segnali e forse la negazione è solo un’illusione. Che lo voglia o no da quel giorno qualcosa è cambiato. Il mio era un vano tentativo di disertare, almeno in questa parte di vita; ma non posso farlo. Guardo mia madre che è china sul letto e piange in silenzio la figlia malata. Mia sorella dev’essere curata e i dottori vanno pagati. Mi rese prepotentemente malinconico, anche il brodo aveva un altro odore. Dovevo ritornare al lavoro.

Ovunque mi rigirassi in questo caffè strapieno, unico ristoro peraltro sudicio, vedo una vera invasione di nuovo anche in quel borgo sperduto dell’Italia. Tutti i ragazzetti sono vestiti in modo inusuale. Sembrava che le donne si fossero forzatamente allungate le gonne e gli uomini i pantaloni, come se lo avessero fatto per allungare la vita dopo l’orrore della guerra. Mi viene in mente solo questo mentre osservo quel mondo in lento cammino. Davanti a me poi, quel ritratto di un capitano o forse un ufficiale; si erge sulla parete. Ha qualcosa di impettito con quei grandi bottoni sulla giacca. Pare affacciato su quel bancone malmesso. È una immagine sbiadita: come i capelli grigi del vecchio signore al bar; sa di vecchio lui, il bar e il ritratto: tutta roba passata. E questo odore di gelsomino? Cosa mai c’entrava in quel posto fumoso? Una delle ragazzette ha tra i capelli color rame questo rametto. Sì, la guerra era proprio finita. Seduto su quella seggiola stranamente stabile, mi sento uno sconosciuto che beve whisky stagionato e forse mi vedo vecchio quanto quel bicchiere, forse sono davvero vecchio: mi sono sentito terribilmente avvilito, avevo perso un pezzo di vita in soli due anni? Ero fuori luogo mentre   vedevo la gioia e la vita. Mentre i miei pensieri negativi mi stavano assalendo, un giovanotto si avvicina e mi si siede accanto. Mi guarda in malo modo e poi si decide a parlare:

«Tu sei il bibliotecario, lo so! Dove sono i libri? Mi hanno detto che non li hai più. Li hai persi o li hai bruciati?». Per un istante ho desiderato scomparire, accidenti a me e a quella sete vigliacca.

«Cosa mai ti interessa dei libri e di ciò che ne ho fatto?» Sono sgarbato.

«Lì dentro c’era uno scritto di mio nonno, non volle darlo a me perché diceva doveva essere gelosamente conservato da persone che studiano. Lo portò in biblioteca in dono alla città e tu lo perdi? Tutti dicono che i libri sono andati perduti. Lui ha scritto per quarant’anni».

Visibilmente scosso, noto un pugno che stringe forte quasi volesse contenersi fino a non avere la certezza che lo avessi perso davvero; sono intimidito. Come può un soldato avere timore di un ragazzetto quando ha avuto il fucile in mano giorno e notte?

«Non ho bruciato nulla, li ho conservati stai tranquillo» mi limito a proferire.

«Allora lo rivoglio. Lui è morto e io rivoglio quei racconti. Lì dentro c’è mia madre e le mie sorelle e devo averlo io».

«Dimmi il titolo e te lo farò avere».

«Lui era Giacomo Mustrillo. Il titolo è “Il cammino”»

Esco da quella osteria e mi incammino con passo lento. Devo riprendere quel maledetto libro, scavare e riprendere quella cassa pesante. “Bene, uno in meno da spolverare” penso velocemente. Sarei dovuto comunque riandare dopo la chiamata del Comune. Con le mani in tasca attraverso l’imbrunire con un peso simile a un debito avvinghiato sulla nuca.

Mi tocca risalire nel bosco tra vie, viottoli, scorciatoie e tutto per andare a recuperare un pollo per il Natale, oramai prossimo: oh santa donna di mia madre. Mi induce a fare queste commissioni così sgradite, ma non posso negarmi. Ha già il suo bel da fare con mia sorella e se un pollo cresciuto sui monti la rende in qualche modo felice e soddisfatta, va bene! Naturalmente so che mi imbatterò da lì a poco in quell’uomo bizzarro, tanto è sempre lì, ma tanto vale che questa volta gli chieda chi gli ha dato quella radio. Così, per pura curiosità. Arrivo davanti a quei tronchi enormi che invadono il cielo che intravedo appena ma non vedo l’uomo. Poco più in là un cane enorme inferocito mi punta da lontano. Dato che sono vicino a due abitazioni mal ridotte ma abitate, con un balzo spingo la porta di una delle due e mi tuffo correndo dentro casa. In quei posti è sempre tutto aperto: solo di notte chiudono a chiave. Non c’è nessuno, sono in cucina, c’è il brodo che scoppietta e un odore intenso di sedano. Chiamo a voce alta, ma nessuno risponde. Mi affaccio fuori e quel cane è sempre là davanti, con la bava alla bocca e gli occhi infuocati. Non posso uscire. Continuo a chiamare, ma ancora nessuna risposta. A questo punto non so cosa fare e aspetto qualche rumore.

Sento finalmente dei passi: il boscaiolo. La scena si ripete: mi guarda in silenzio, io nella sua cucina, questa la novità, spiego l’accaduto e lui accenna vagamente un sorriso. Mi invita a sedermi e intanto spegne il brodo. A quel punto non so cosa dire, mi mette inquietudine quell’uomo, come se la sua presenza mi richiamasse alla vita reale, cruda, a volte assassina; non so ben spiegare ma poi era gentile e per nulla sconveniente. Ignoro ancora oggi, chi fosse veramente. L’impulso che ho dentro, però, riesco a zittirlo e intanto lui prende una bottiglia di vino e mi versa un bicchiere: un invito da non poter rifiutare. Sento altri passi, sbuca dalla porta una donna, oh no, quella donna che ho incontrato in paese, è quindi davvero sua figlia. Mi guarda, accenna ad un timido saluto, non credo mi abbia riconosciuto, prende dentro il mobile un pacco e mentre se ne sta andando dalla cucina, vedo dei fili di raso; sono le sue scarpette. Il padre sembra non notare nulla, continua a versarmi un altro bicchiere e io a quel punto non posso più accettare, devo andare. «Grazie dell’ospitalità, spero che il cane a questo punto si sia stancato». Sforzatamente cerco di ironizzare.

Lui si alza esce fuori e il cane è sempre lì, lo ammonisce lo spinge con forza ai lati e l’animale si allontana. «Grazie».

«Quando vuoi ti faccio vedere come funziona».

Io a quelle parole sono davvero stupito, e non mi lascio scappare l’occasione.

«Certo molto volentieri, se vuole anche domani» Accenna un sì con il capo e chiede la porta.

Rientro in casa con il mio trofeo, non tanto quel povero pollo decapitato ma per l’incontro dell’indomani. Devo portare un dono per l’ospitalità ricevuta ma non mi viene in mente assolutamente nulla. Apro la dispensa di mia madre e prendo un barattolo di fagioli.

Nel pomeriggio devo riandare nei pressi del pozzo, mi ci vorrà tutto il pomeriggio per dissotterrare quella cassa. E pensare che mio nonno aveva scavato quella fossa non so per quanti giorni. Convinto che sarebbe stato il rifugio giusto per la guerra ci voleva portare me, mia madre e mia sorella mentre lui sarebbe rimasto sopra, a combattere contro chiunque si fosse avvicinato al pozzo. Poi non riuscì a finire il lavoro; ci entra, e male, una sola persona. Lui è morto di polmonite e io sono stato chiamato al fronte. Dovrei completare l’opera. Le guerre non finiscono mai per sempre. Ne potrebbe scoppiare un’altra in qualsiasi momento.

Sento un dolore che mi lacera il petto ma faccio finta di niente. Di notte mi sveglio sudato e stanco perché risale il ricordo dell’orrore. Sento dietro di me i passi dei miei compagni lacerati dall’ angoscia e dal freddo che congela i pensieri. E quei rumori assordanti che ti penetrano nelle ossa. Non puoi far finta di niente, non puoi più continuare a sperare. Vuoi solo scappare dall’odore acre del sangue appena versato, vuoi spegnere la guerra. È la fine del mondo; tremi ad ogni raffica di vento, sussulti ad ogni sirena, non dormi più e senti boati in ogni dove. Sei un disperato e lo sai. Come il soldato che hai ucciso poco prima. Perdoni anche il tuo sparo: diventa sopravvivenza. Forse maledici pure la tua sopravvivenza, non puoi fare altro. Se mio nonno avesse finito mi sarei rifugiato lì, sottoterra. E ci avrei portato tutto il mio battaglione! Nemmeno i sogni di un eroismo nobile e vincente sono buoni a quietare certi giorni piovosi. Nulla ti consola e l’unica certezza che hai è che continui a campare. Ritorni dal fronte alla vita ma la tua vita è morta lì, in trincea. Devi ricominciare a vivere, sembra un tentativo infelice di risorgere. Io sono ancora in trincea.

Un familiare senso di disagio e una particolare lentezza, mi invade stamani. Come un granello di polvere da sparo che ha perso il suo destino…mi devo adattare allo spazio che mi circonda. Non puoi essere più quello di un tempo ma puoi ritornare a casa, al lavoro. Però anche il whisky sa di qualcos’altro. Quando si avvera l’impossibile, ogni negazione posteriore è solo una illusione. Che si voglia o no quei giorni hanno cambiato i miei passi e i miei occhi. Ne ho due profondamente opachi, anche se rinnovati. E di buono resta poco o nulla. Sono uno spettatore pietoso a dir poco. Ma la pietà non è una scultura di marmo da contemplare, no! È l’odore nel pianto di madri davanti a corpi lacerati ai lati del mondo. Forse ci abitua a lenire il dolore guardare certi dipinti dove persone sconosciute hanno patito in maniera disumana: dolore di natura simile se non identica che non puoi né accettare né combattere. Non ho potuto fare a meno di rammentare ed essere nuovamente rinchiuso in questo labirinto di fumo. Devo ritornare in quel bar. Ho bisogno di scorgere nuovamente quei pantaloni lunghi e quelle gonne variopinte.

Fino a pochi mesi prima lì c’era un mercato spoglio che sapeva di fame e di freddo, con le tende piegate dal vento. È come quando il capitano dà l’ordine di sparare. Devi obbedire e diventi come quelle tende. Ora invece qui la guerra sapeva d’orgoglio, con tutti quei militari in giro per la piazza pronti ad essere adulati da giovani vergini; come se loro stessi fossero dei trofei in palio da esibire una volta conquistati. La cosa che più mi sconcerta è che ne sono compiaciuti. Passeggiano tra la moltitudine, tra i banchi del mercato con stravagante rumorosità. Sono la merce più preziosa per le giovincelle e il loro innaturale bagliore, per niente ordinario e spensierato, estraneo per sua natura alla loro tenera età. Si devono trovare un buon partito, un milite vittorioso: ecco il candore di quei volti. Non importa sia noioso, deprimente, frivolo. È pur sempre un soldato. Sono diventato vecchio, ho bisogno di un po’ di whisky, mi deve riportare velocemente in una inebriata illusione. Forse questa è la rinascita, questa frivolezza allevia, lenisce, magari elimina i mostri terrificanti anche se il mio mi è sempre accanto. Quel gioco, in fondo, sa di libertà. Rinvengo e continuo ad osservare quello scambio reciproco di pura volontà; ora dopo qualche sorso mi sembra rassicurante; ma io continuo a sentirmi in prigione o in trincea, cambia poco: sono in quello stato di libera frivolezza e bevo ancora. Sono un semplice portavoce di quel tumulto di voci e strazi che dannatamente mi perseguitano. Penso a quella ragazza accasciata a terra che non aveva sguardo compiaciuto. A dire di mia madre è una scellerata, lei che non si è recata al mercato per acquistare alcunché. A chi può interessare una simile creatura?

Non trovo mai il tempo di scavare. Eppure fra tre giorni devo rientrare in Comune. E se scavassi sotto al Comune una bella buca? Un’idea malsana che però ha il potere di farmi abbozzare un sorriso. Con passo svogliato mi obbligo a prendere la pala e mi avvio. Ogni passo sembrava essere il mio giudizio e quell’arnese tanto ingombrante non aiuta di certo la mia andatura terribilmente lenta e, per di più, goffa. Mi fermo più volte. Sono andato da ragazzetto lì correndo a perdifiato. Come tutti i bimbi immaginavo e fantasticavo su quel luogo; era il mio posto dei segreti. Ora è diventato la mia rinascita o il mio delirio. Certo, penso che devo risalire ma credo sia alquanto arduo, per non dire fuori dalla mia portata. Sono ancora in qualche modo un soldato, solo che indosso altre vesti. Una nuova prova della mia esistenza vaga e confusa insulta la mia memoria ma non posso cancellare alcunché. Un improvviso bisogno di gridare mi invade, come fosse davvero una necessità, come volessi dare un significato reale e non solo simbolico a tutto quel dolore che mi attanagliava le gambe, ancora troppo esili. Non avrebbero retto. Non riesco a farne a meno e appena arrivato è come un fulmine che so che è lì ad attendermi per colpirmi. Avrei voluto scappare lasciando quella pala in balia del vento gelido di fine novembre ma resisto e piango a dirotto. Non so per quanto tempo resto lì ma sicuramente quello sufficiente a soddisfare questa condizione di misera stima del mio essere uomo. Non c’era niente che potessi fare. In ogni mio respiro vedo quegli occhi disgraziati. Ho molto su cui riflettere ma non è questo il momento. Non ora, non qui. E non servono a nulla queste lacrime che bagnano i miei bottoni; assolutamente a nulla. Taglio corto velocemente, prendo l’arnese e scavo, con sempre più vigore. Non sento neppure più il freddo che mi ha ingessato poco prima e prendo la cassa, do un colpo deciso: si apre tutta, intatta. Come un tesoro gelosamente custodito; ah se lo avessi trovato da ragazzo. Prendo lo zaino e inzeppo tutto alla rinfusa con uno sguardo quasi errante. Ma questo rese la cosa ancora più difficile perché non riuscivo a posizionare tutti quei volumi in quello spazio. Sono costretto a ritirarli fuori e riposizionali nel giusto verso.

A volte ti chiedi cosa sarebbe giusto fare in situazioni come queste. Mi presento in biblioteca e la porta è chiusa. Mi faccio dare le chiavi dal portiere che è sempre nella stessa posizione da anni, riverso su quella sedia. Non ricordo di aver mai notato una sola espressione sul suo viso, al massimo ogni tanto un saluto. Lui mi guarda, si alza, apre un cassetto, prende le chiavi e si risiede. Apro la porta e tutto è rimasto perfettamente come l’avevo lasciato, pressoché identico tranne la polvere che è ovunque. Continuo istintivamente ad osservare: i miei occhi sanno dove andare. Conoscono ogni angolo, ogni granello di ciò che hanno davanti. Mi accorgo che la mano inizia a tremare, il peso di quei libri prediletti che avevo afferrato inizia a farsi sentire. Poggio a terra la borsa e a questo punto dovrei iniziare a rassettare, spolverare, rimettere i testi negli scaffali e sedermi lì al mio posto per iniziare a fare le ricerche storiche da inviare alla ragioneria. Invece penso. Mi siedo e neppure sto attento a togliere le foglie sulla sedia; non mi chiedo neppure come possano essere finite lì. Mi fanno compagnia, mi riportano fuori da quel luogo. C’è troppo silenzio, le mie braccia, come fossero disinteressate, non si attivano, come fossero in attesa di qualcosa. Sono qui inutilmente, come quell’immagine sopra il bancone dell’oste. Immobile, sguardo fisso, ma in un’altra epoca. Un cerchio di luce gialla sembra essere indifferente a questa mia glacialità e mi accarezza il volto. Devo socchiudere gli occhi tanto è prepotente. A dire il vero è una giornata invernale ma luminosa. Trascorro poco più di un’ora in questo stato di tepore seduto; poi dall’uscio della porta sento un fruscio, mi volto ed entra un uomo dalle gambe leggermente arcuate: un tipo maestoso, alto, con al collo una sciarpetta di cashmere color caffè e una voce che mormora:

«Buongiorno, vengo dal Comune di Firenze, ufficio Beni culturali e bisogna fare un censimento di tutti i testi presenti nel territorio». Afferma con voce ferma e determinata,

«Mi hanno riferito che questo ufficio è chiuso da un po’ e che oggi l’avrei trovata qui, sono il signor Duadero». Concluse fissandomi.

Io mi limito a fare un cenno di approvazione e annuisco.

«Dovrebbe preparare l’elenco e farmelo recapitare al più presto».

Tra quattro ore sono fuori da questo posto, è questo il mio unico pensiero.

«Molto bene, lo avrà al più presto» convengo io. Per me poteva andare.

Ma lui voleva continuare a persuadermi, ad insistere che la sua richiesta andava esaudita molto celermente. Io non gli do adito; annuisco in maniera seccata. Duadero saluta e va via. Avrei impiegato pochissimo a fare il lavoro. Conoscevo ogni libro, ogni codice e ogni edizione di tutto ciò che era in quella biblioteca.

Prendo il taccuino e inizio a catalogare senza furia. Ne avrei avuto per poco. Ma sento le labbra secche e provo un dolore allo stomaco. Mi sento debole. Allora esco da quella stanza per prendere una boccata di aria. Ma se Duadero fosse una spia? Se volessero rimpiazzarmi? Non posso andare via; sono uno dei pochi che ha il privilegio di un lavoro seduto, con un salario garantito che serve per mia sorella. Rientro, chiudo la porta e mi accascio sulla sedia che sa troppo di me. Di tanto in tanto alzo gli occhi e osservo quell’ammasso di testi che avevo nascosto e mi viene in mente che devo cercare il libro di quel ragazzo al bar. Lo intravedo pressappoco in fondo alla pila e lo metto nella borsa. In un attimo è calato il sole. Oggi questo è insignificante ma in trincea poteva essere il momento d’un attacco nemico o dell’ora dei ricordi, ancora più tremendo, o di qualche milite che cercava conforto nelle sue lettere. D’un tratto ricordo le parole con cui il mio compagno ogni sera scriveva parole chiare, per niente offuscate dal fumo, dagli spari, dai corpi straziati. A tutt’oggi non so come riuscisse ad essere così lucido, ottimista, fiducioso. Parlava al figlio di sei anni, non scriveva affatto della guerra ma di valori, di pace, di generosità, di educazione. A suo modo voleva essere presente nella vita di quel bambino scrivendo lettere ogni giorno con la speranza che l’indomani ne avrebbe potuto scriverne un’altra, un’altra e un’altra ancora. Eravamo tutti figli di qualcuno, eravamo tanti figli di Dio che da un momento all’altro avremmo sacrificato il nostro corpo per la patria, per l’umanità, per la salvezza. Ma nessuno è risorto, neppure chi è tornato dal fronte.

Questo padre non è più tornato. Quando l’ho visto a terra sapeva che queste erano le sue ultime parole e che soprattutto non avrebbe più potuto scrivere lettere al figlio. E questo fece la differenza: le ho scritte io per lui.

La guerra è finita e tutto è in fermento. Le donne stanno cambiando il modo di vestire. Hanno   gonne accorciate alla caviglia dai tratti dritti abbinate a casacche alla marinara, scarpe a tacco basso e capigliature corte a volte raccolte da fermagli invisibili. Iniziano a lavorare negli ospedali, nelle fabbriche, nei bar. Tutto è in risalita tranne io.

Chiudo la porta, mi volto per incamminarmi e vedo una signora molto appariscente che pare aspettarmi.

«Mi scusi, lei il messo della biblioteca?»

«Buon giorno, si sono io.»

«Volesse il cielo, finalmente l’ho trovata. Bene, mi lasci spiegare cosa vorrei da lei. Sto cercando una ragazza che abita da queste parti. Si chiama Gigliola e non so altro. Ah sì, le è morta la madre da poco. Ho pensato a lei perché in paese dicono che lei e sua madre conoscete tutti da queste parti per via di suo padre che era vigile urbano.»

 Ci scambiamo un’occhiata fugace. La donna è sicura di sé ma non mi piace lo sguardo, la sua voce nasale e quell’accento forzato da nobildonna.

«Perché dovrei aiutarla?»

«Perché qui sono tutti dei barbari e a me serve trovare quella ragazza». Frase sufficiente per essere indifferente e anche un tantino arrogante.

«Se qui siamo tutti barbari, può ritornare da dove è venuta.» rispondo sprezzante.

«Mi scusi, non era riferito a le.»

Non sa proprio come uscirne ma non mi piace e di certo non mi lascio ammaliare da cotanto sfarzo, ne sono per lo più infastidito. Mi incammino lasciandola lì davanti alla biblioteca che borbotta qualcosa ma non sento. Devo andare in osteria e sperare che sia lì quel ragazzo per restituire il libro. Ho altro da fare. Gigliola certo è la figlia del boscaiolo, cosa c’entra con quella donna? Però è una buona occasione per rivedere la ragazza triste. Si chiama Gigliola allora. È un bel nome. Mi fermo e torno indietro; la donna è ancora lì.

«Cosa vuole da questa ragazza, perché la cerca?». Avrebbe potuto non rispondere, era poco importante, in ogni caso sarei potuto riandare dal boscaiolo.

«È l’amante di mio figlio. E lui è scomparso da giorni. Forse sono fuggiti, non lo so e sono affranta: dieci giorni che non ho sue notizie. Ho trovato delle lettere in camera sua e così ho capito che stava frequentando questa ragazza che è di queste parti e che ha avuto un lutto da poco. La prego, devo sapere dove si trova mio figlio.» conclude con gli occhi fissi, senza alcun orgoglio.

La mia mente si offusca: cosa devo fare?

«Ritorni domani; cercherò la ragazza.» e mi incammino.

Chiaramente Gigliola nasconde qualcosa, ma da dove sbuca questo fidanzato? Qui si sa tutto di tutti e lei non è mai stata vista in giro con un uomo. Un po’ matta, balla sulle punte e non vuole maritarsi. Questa è Gigliola per il paese.

Ripenso al nostro primo incontro: rannicchiata come un barbone in piazza. Era forse lì per lui? Il problema non sono i miei pensieri e le mie curiosità ma come poter parlare con lei senza che il padre ci veda? Prima o poi quella donna l’avrebbe trovata e non avrebbe avuto alcun ritegno. Se per qualche motivo il padre sapesse di quella faccenda Gigliola si metterebbe in guai seri.

I padri di queste parti sono tutti uguali e possono diventare molto violenti. Trovo una scusa per andare da loro ma sono sopraffatto dalle sue scarpette rosa che di certo nessuno capisce, forse neppure lei. Pian piano sto risalendo anch’io; inizio a provare interesse per l’ambiente in cui sono immerso ma la rinascita è lenta e inesorabile. Ma io non vorrei risalire ma solo mangiare, abbuffarmi e lasciare tutto così com’è, senza muovere nulla. Tanto tutto si muove da solo. Che senso ha allora muovere, smuovere, spostare, sistemare quando un giorno qualunque arriva la chiamata e devi andare? E le cose che devi finire? Ecco, è qui che tutto si ferma, diventa immobile come le tue suppellettili, i tuoi quadri appesi a quella parete intossicata da tanto fumo nero. Eppure serve anche quello: dicono che gli occhi diventano più belli. Che idiozia! Col fumo gli occhi bruciano e basta. Eppure in trincea quante volte ho pensato a quel fumo nero e al suo profumo. Ti cambia gli occhi davvero. Il fumo degli spari, il polverone delle camionette, i boati del cielo ma tu rimpiangi il fumo della tua cucina, sempre.

«Eccoti il libro di tuo nonno».

Quel ragazzo aveva l’abitudine di bere. Se non fosse stato per quello, era un giovine intelligente e scaltro, assennato nei ragionamenti anche da ubriaco. Perché non mi ubriaco anch’io? Cosa avrei potuto perdere? Mia sorella; lei che mi rende lucido: doverla curare. Ma mi sarebbe piaciuto bere e non pensare; avrei potuto fuggire chissà dove e chissà per quanto. ma quando vedo questo ragazzo, mi irrito. Non è adatto a fare l’ubriaco; non è andato al fronte, non ha ucciso, non ha respirato il sangue. Non esiste ragione per bere come fa lui. L’ultima volta che aveva avuto la triste notizia del padre e del fratello era stata una decina di anni addietro. Lui aveva solo otto anni, ma era grande abbastanza per iniziare a capire il dolore.

Mi prende il libro dalle mani e lo osserva, sembra acquietato o forse no. È appagato da quelle pagine come fosse uno scrigno pieno di segreti fantastici e mondi paradisiaci. Lì dentro vive ancora la sua famiglia e ora che è rimasto solo ci si tuffa dentro: è il suo alcol, ma ha un sapore nuovo. Un rifugio dal mondo esterno come chi, dopo anni in galera, esce e si gode la libertà conquistata con la buona condotta. Basta solo alzare gli occhi in su, solo questo. Mi osserva intensamente e mi ringrazia per la custodia che ho avuto, senza proferire parola. È estremamente sensibile, peccato che beva.

Mi decido, devo partire, andare in quel paese al mare. Devo andare dal figlio mai conosciuto ma a cui ho parlato ogni sera, ogni notte, ogni giorno davanti al ricordo del padre fino alla fine dei miei giorni in camerata. Continuo a scrivere lettere anche ora che la guerra è finita e che tutto sembri essersi risollevato. Devo andare, deve sapere la verità, crescerà prima del tempo, lo so, ma non può vivere nell’illusione di una bugia. Ho promesso che me ne sarei preso cura davanti alla morte, dinanzi a quegli occhi semi aperti che non riuscivano neppure a chiedere pietà. So solo l’indirizzo, e questo è sufficiente. È l’ unica cosa che quel povero soldato è riuscito a dirmi. Ho continuato per lui ad alimentare la speranza. Poi, dopo qualche mese, è giunta la notizia del decesso e la famiglia è stata avvisata: non è più ritornato dal fronte.

Come quando scesi dal treno. La folla lì sotto con gli occhi pieni di terrore e di speranza a cercare di scorgere un proprio caro. Quando siamo scesi tutti, piano piano un urlo, poi due, poi tre. Chi aspettavano non c’era più. E allora tu che scendi quegli scalini del treno, tu che sei vivo e stai camminando, vedi tua madre e tua sorella impazzire di gioia ma non sorridi. Non puoi più farlo. Fingi di sorridere, fingi di essere quello di prima, fingi di vivere ma sei solo un morto con un corpo che va per la sua strada. E tu lo segui perché non ti resta altro. Solo ora, forse, voglio rivedere la vita. Non la ricordo più. Rammento solo molto bene l’odore del brodo di mia madre.

 Mi incammino con la mia andatura flemmatica, mi trascino con movimenti lenti, almeno questo lo decido io, e arrivo alla casa del boscaiolo. Voglio rivedere la figlia. Quei suoi occhi li conosco molo bene. Non hanno nulla di buono, cercano poco più del nulla. Voglio salvarla? No, voglio solo vederla danzare e capire se quegli occhi sono gli stessi o li cambia lei, a suo piacimento. Busso; esce il padre e abbozza un sorriso:

«Cosa c’è? Perché continua a venire qui?».

Mi irrigidisco. Quell’uomo è davvero enorme ma poi, con la mia consueta flemma, rispondo:

«Voglio un bicchiere di grappa e voglio parlare con tua figlia». Sono sereno, i miei occhi lo fissano. Faccia ciò che crede, penso.

«Bene, entra e aspetta.»

Sono seduto con la grappa, lui è andato nell’altra stanza. Arrivano, sento i passi pesanti dei suoi scarponi da montanaro. Prima vedo lui, poi lei.

«Ciao, cosa vuoi?» Mi fredda con quegli occhi gelidi

«Ciao, voglio vederti ballare, se tuo padre è d’accordo».

«Ballare?» sgrana gli occhi e intravedo stupore e una leggera distensione.

 «Sì. Se balli bene ti faccio esibire al teatro comunale! Puoi vincere soldi se arrivi prima».

Il boscaiolo si siede riprende la bottiglia e riversa la grappa, io non posso continuare a bere o forse sì. Beve un sorso, poi un altro:

«Va bene ma poi te la sposi.»

A quelle parole lo stupore è doppio, la figlia mi guarda con insistenza e con inquietudine: sono la sua liberazione, la sua via di uscita, il suo salvatore!

Lei è perfettamente lucida ed equilibrata, io affatto. Non mi scompongo. Penso se mia madre sarebbe impazzita di gioia o di terrore per quella fanciulla scellerata.

 «Vediamo come balla» e bevo ancora.

A quel punto l’uomo accende l’aggeggio e inizia la melodia. Lei sposta le sedie, il tavolo e la poltrona e corre al di là del corridoio per tornare con le scarpette ai piedi. È una danza impossibile; come se ballasse nella pioggia anche se siamo in casa. Non sta aspettando la mia risposta, non danza per questo, danza per sfidare che la tempesta passi, perché intravede l’azzurro lontanissimo ma possibile. I suoi occhi non li ha più, sono tra quelle gocce di pioggia immaginarie e nessuno li può più scorgere.

 «Se vinci, ti sposo» mi alzo e mi incammino verso casa.

Restiamo per qualche minuto da soli e ne approfitto: «Dove si trova quel ragazzo che non è più tornato a casa? Devo dirlo alla madre».

Lei stringe i pugni e con lo sguardo rivolto verso il basso mi risponde velocemente:

«Non lo so,. Mi ha detto che sarebbe partito per Vienna a cercare un lavoro. Ha un cugino di secondo grado che vive lì».

«Bene. Riferisco la notizia così quella donna partirà in cerca del figlio.»

Tutto il paese è invaso dalla notizia, mia madre incredula non mi ha parlato per tanto; mia sorella neppure. Al Comune era tutto un fruscio ed io che continuavo a camminare con la mia andatura.

Gigliola vince il concorso, arriva prima e celebriamo il rito in Comune: pochi invitati. Oltre a mia madre e a mia sorella, il padre, l’ufficiale comunale e il ragazzo del libro del nonno. Questo è il ricordo che ho di quel giorno.

Mi trasferisco nella loro casa, si chiude una parete e siamo marito e moglie.

Non ci conosciamo affatto. Mi piacciono solo le sue scarpette e come cambia espressione mentre danza. Di me credo le piaccia il mio silenzio, la mia discrezione e la libertà che sente nel danzare. Non pretende nulla da me, io nulla da lei; continuo a dare i soldi a mia madre per le cure di mia sorella ma riusciamo a vivere comunque. Unica novità è che comincio a portare libri a casa e lei inizia a sfogliarne qualcuno. È riservata anche lei. Cucina, cura la casa e danza incessantemente con quell’aggeggio che il padre ci ha regalato per il matrimonio.

La domenica andiamo al mercato delle pulci a frugare e scoprire oggetti strani e bizzarri, camminiamo accanto: poche parole, molti silenzi ma abbiamo un nostro equilibrio. Equilibrio che inesorabilmente viene meno appena decido di farla esibire con la musica jazz.

Decidiamo di andare a Remona. Devo mantenere la mia promessa e portare a quel figlio sconosciuto le ultime parole del padre che custodisco solo io. Ora sono divenute ingombranti e pesanti: voglio liberarmene. Ho già le mie angosce spezzate, come una sciarpa usurata dal tempo. Ad un certo punto devi lasciar andare i macigni che ognuno ha dentro. Non voglio più nascondere la pesantezza di tutte quelle voci silenziose. Come quando cresci, devi lasciare il tuo orsetto e il letto è diventato  troppo piccolo. Lei dice che tutto questo non ha un senso, di non alimentare nostalgie e di non affossare la speranza illusoria che quel povero soldato possa rivivere in me. Ma io voglio andare dritto in quella casa e seppellire lì quelle voci perché lì devono stare, non dentro di me. E andiamo in treno. Tutto un tremolio, un vagone sgangherato che lentamente ti conduce; lo stesso tremolio della mia partenza. Era uguale, lento e rumoroso: ci portava verso un luogo senza tregua, né pane, né luce. Forse già avevamo capito tutto: un senso di vertigine accomunava tutti noi seduti zitti. In silenzio, senza alcuna fiducia in quel mezzo di trasporto. Qualcuno voleva sorridere comunque; io vedevo un unico burrone, un vortice senza precedenti. Avevamo già perso ancor prima di combattere. Ma chi aveva voluto tutto questo? Per cosa? Perché? Tutti guardavamo quei monti, poi le praterie, poi le case dileguarsi velocissime. Fino ad addormentarsi con quel rumore lento e inesorabile che era la nostra storia. Infinite volte sono salito su quel treno. Quasi tutte le notti, a dire il vero. Anche ieri è successo.

Con il gelo nella mente e mia moglie a fianco varco quelle colline e ho la medesima sensazione del tempo tradito con l’unica differenza che sento ora della musica che accompagna il nostro viaggio. Lei ne è incantata. Arriva da due vagoni in testa al treno. Si alza e mi dice di andare con lei; la seguo. È naturale: lei è rapita da quelle note e i suoi piedi non riescono a star fermi. Mentre la osservo ballare mi chiedo come fa a ricordare tutti i passi e ad andare a tempo. Riesce ad esprimerli attraverso quel corpo esile e non pensa a nulla. Inventa tutto da sola, ma noto che ora lì, non balla solo per sé. Ecco, ci siamo, è categorico: fa credere a quell’uomo che non vuole niente, invece balla solo per lui. Seduto, incapace di toglierle gli occhi di dosso, il tutto si fa sempre più complicato. Ho capito quello che sarebbe successo poco avanti. Spaventato? No, assolutamente conscio. Se vuole, può andare pure. Le persone sono misteriose e forse è impossibile capirle fino in fondo. Il dolore non è una linea retta: va dove vuole e quando vuole lui. Il sassofonista continua a suonare, lei a danzare e l’uomo a fissare il tutto. Finisce la musica, si risiede accanto a me, ma non è più con me. Il treno si ferma, lei scende e si guarda intorno senza ritegno, cerca quell’uomo ma non lo trova. Tutto in estremo silenzio ma quel corpo esile sembra ancora più inopportuno. Ci incamminiamo, è una sensazione orribile per lei, forse non lo vedrà mai più. Io ero semplicemente osservatore di tutto quello che questa donna stava vivendo. Sì è mia moglie, ma io non sono il marito di nessuno. Devo aiutarla a ballare, l’ho liberata dal padre, dalla società, dalle consuetudini ed ora spicca il suo volo. Ne sono semplicemente fiero. Tutto questo è chiaro anche a lei, ora sa esattamene che è capace di amare e mi rispetta per tutto questo.

Ma si rende conto ben presto che non è l’uomo per lei. Lo rivede al bar della stazione abbracciato con un’altra, sicuramente la moglie. Gigliola si rannicchia accanto a me, soffre in silenzio e si vergogna per quel dolore. Io capisco tutto e lascio che lei mi tenga stretto come vuole. Non posso aiutarti qui. Posso solo restare in silenzio e lasciare che il tempo ti guarisca.

Arriviamo finalmente e prendiamo l’unico bus in quel paese arroccato fra colline e praterie innocenti: finalmente giungiamo a casa del povero soldato. Non mi ero preparato, come presentarmi e cosa dire? Come dire che ero stato io a scrivere tutte quelle lettere? Mi avrebbero trattato male, ho alimentato una speranza cieca, ho giocato con i lori pensieri.

Certo la famiglia ha saputo della morte ma sicuramente la speranza è viva in loro per colpa mia. Hanno ricevuto lettere datate dopo la morte che gli avevano annunciato e il corpo non lo hanno visto perché era stato arso durante la battaglia della notte stessa. Per loro potrebbe essere ancora vivo; magari disperso, come tanti. Busso, qualcuno si affaccia alla finestra e ci osserva. La signora esce:

«Cosa volete?».

«Buon giorno, signora. È la moglie del tenente Baldelli?»

Occhi fermi, mente fredda, mani strette in un pugno:

«Vai di là». Si rivolge al ragazzino nascosto sotto la sua gonna.

Eccolo, è lui Manuel.

«Cosa cercate?».

«Signora io conoscevo suo marito, ero con lui in trincea»,

A quelle parole si trasforma completamente, spalanca la porta ed entriamo.

Quel ragazzino non potrà mai dire a nessuno:“Mio padre è della generazione che è sopravvissuta alla guerra”. Questo era il mio pensiero guardando negli occhi quel ragazzetto così timido. Continuava a nascondersi dietro la madre e ci guardava impaurito.

Cosa dovrei dire a tutte quelle domande che ancora la donna non mi faceva? La morte non aspetta. Arriva anche quando non sei pronto: invece lui lo sapeva benissimo, era cosciente nel momento della sua morte. Neppure questo posso dire. Questi pensieri non mi commuovono. Mi resta poco tempo per spiegare che le lettere le ho scritte io. Mi devo concentrare solo su questo aspetto.

La signora ci fa accomodare; prende una vecchia scatola di ricordi e tira fuori una foto. Senza alcun cenno di protesta, il bimbo carezza quella foto e non ha lacrime. Mi fissa, si alza dal divano e mi chiede:

«Tu lo hai visto prima?»

«Si, ero con lui, ma lui pensava a te». Fuoriescono quelle parole senza riflettere troppo, era la verità.

«E perché tu sei qui e lui no?» feroce ma giusta domanda, pronunciata in modo violento.

La sala si gela, mia moglie mi fissa, la signora lancia una occhiata di rimprovero a quel ragazzetto. Io non posso biasimarlo: era più giusto che ci fosse stato lui al posto mio. E glielo dico:

«Hai ragione tu, non lo so. Doveva essere lui qui».

Quando ritorni alla realtà devi essere pronto a dimenticare tutti quegli orrori che hai appreso; io non ho però questa dote o capacità di cambiamento. Farei meglio a ritornare al fronte. Non so dare risposte neppure ad un ragazzino.

«Mi racconti cosa ti diceva?»

Il ragazzino non riesce più a trattenersi, vuole sapere tutto del padre e con innocenza e speranza si rivolge a me come se fossi l’unico custode dei suoi più oscuri ricordi.

«Ti ho scritto tutto nelle sue lettere, ho scritto io per lui. Mi aveva fatto promettere che avrei dovuto raccontarti di lui, della sua vita anche dopo la sua morte. È quello che ho fatto».

A quelle parole il ragazzino non poteva essere preparato e si  disorienta. Scappa nell’altra stanza e dopo un attimo ritorna con le mie lettere in mano. Le butta a terra e le calpesta con tutta la sua rabbia. Poi esce dalla porta e scappa nei campi.

Dovevo far esattamente quello che ho fatto. Era la cosa giusta: non rivedrò più quel ragazzino, ma l’ho amato anche io. Andiamo via senza proferire parola: nulla poteva più essere detto.

Mia moglie continua a pensare all’uomo del treno. La sera decidiamo di cenare in una trattoria e  ci consigliano di andare in una osteria a pochi passi dall’isolato. Dicono che ci sia un sassofonista del posto rientrato da poco dagli States: sarà quell’uomo del treno. Infatti è proprio lui. Mia moglie però non vuole ballare, ha lasciato le sue scarpe in quel motel malandato: quasi si fosse voluta punire.

 Ci sediamo davanti a quel pezzo di legno rialzato che voleva somigliare ad un vero palco. Sento odore di vino in tutto il locale, mi rilasso e inizio a bere anche io. Gigliola è incantata e non riesce a distogliere lo sguardo. La lascio fare, le emozioni non le devi nascondere né fermare.

Quell’uomo la nota e si ricorda di lei: finisce il pezzo, si avvicina a noi e mi guarda per capire se può invitarla o no. Io gli sorrido e lui le prende la mano e la invita sul palco. Riprende lo strumento e Gigliola si toglie le scarpe: inizia una danza leggera e piena di pathos. Tutti sono ad ammirare quella fanciulla che sembra passeggiare nel vento, leggera e con quella grazia innata: sembra stia distribuendo speranze e pioggia fresca. Mi ricorda la prima volta che l’ho vista danzare a casa sua. Finisce la musica e lei ritorna accanto a me ma non c’è più. Le prendo la mano, sorrido e le faccio un cenno: se vuole può andare. Può spiccare il volo.

Sono rientrato da solo nello stesso vagone, seduto su un diverso sedile e con la mia inconfondibile andatura flemmatica. Mi lascio traballare fino a casa e nel frastuono di quel rumore assordante vedo dei nastri penzolare dalla mia borsa: Gigliola aveva nascosto lì, le sue scarpette.

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15 commenti »

  1. L’incipit di questo racconto ? veramente straordinario. Prende il lettore e lo trasporta con se. Poi il turbinare di pensieri, ricordi, sensazioni…

  2. Molto intenso.. ho trovato sorprendente l’immersione con cui il racconto ti trascina nel mare tormentato che è lo stato d’animo del protagonista, sopravvissuto di guerra. Da un lato la sua umana voglia di rinascita, dall’altro la zavorra del ricordo degli orrori vissuti in trincea. Per lui il ritorno alla normalità sarà ormai impossibile, così come compromessa la scala di valori e priorità a cui era abituato. Lasciata al fronte la sua voglia di lotta per la sopravvivenza, decide di abbandonare con serena accettazione quanto di più prezioso un uomo dei primi anni del ‘900 tornato vivo dall’odio bellico possa desiderare per sè: l’amore. E’ facile pensare che lo faccia solo in nome della libertà, quel ballo a piedi scalzi che da soldato aveva desiderato ardentemente per sè e che adesso non vuole, suo malgrado, sia mai più negato a nessuno.

  3. bravo proprio una bella scrittura e l’intensità del racconto fa rivivere al lettore la complessità del carattere di una persona che è tornato dalla guerra, ma forse non totalmente.
    capisco perché oltre 120 visualizzazioni in due giorni 😉

  4. Mi ha colpito tantissimo. Per la scrittura matura, per la ricostruzione dell’ambiente e dell’atmosfera, per lo sviluppo della storia, per la caratterizzazione dei personaggi. Ma soprattutto per come è stato reso l’effetto che ha la guerra in molti casi di uccidere anche chi resta vivo. Le emozioni del protagonista sono piatte, stordite. Tutto quello che gli capita, compreso il matrimonio, e’ come se fosse vissuto da uno spettatore esterno. Non si appassiona, non si commuove. Tutto gli scorre addosso senza attecchire. Uno dei più sofferti ritratti di reduce che abbia mai incontrato. Auguro davvero alle scarpette e al racconto di andare lontano.

  5. L’autrice è riuscita in poche righe a mostrare uno spaccato dell’epoca, mi è sembrato di vivere le “emozioni” del protagonista, straziante, malinconico, bellissimo

  6. Grazie infinitamente delle vostre parole e del tempo che mi avete dedicato!
    iole

  7. Un racconto triste trascinato dai ricordi bui e indelebili della guerra. Il protagonista ne rimarrà segnato a vita. Eppure, per tutto il tempo della lettura si scorge quella voglia di continuare a vivere, far del bene e trovare la pace con sé stessi.

  8. Iole, grazie alle impeccabili descrizioni dettagliate ci fa ritornare nel periodo del primo dopoguerra, ci lascia prendere per mano il protagonista reduce da chissà quali orrori, che prova a ripartire, a ricominciare e noi con lui…ho trovato il racconto intenso, vibrante, e tanto commovente.

  9. Un racconto che ti rapisce fin dalle prime righe e piano piano ti accompagna nell’Io del protagonista. Complimenti!

  10. Ho letto tutto d’un fiato questo racconto con grande interesse ma nello stesso tempo apprensione… Mi ha trasmesso tanta angoscia riuscendo nell’intento di farti sentire proprio il “clima” di quel periodo, dove le esperienze di guerra avevano distrutto tutte le illusioni e le speranze ma non l’amore… Anche il protagonista nella sua disperazione totale e disinteresse per la vita, riesce comunque a provare amore.. Nei confronti della sorella malata e della madre ma non solo, anche nel grande gesto nei confronti della moglie, che ha prima liberato da un padre desposta e poi resa libera di scegliere la sua vita!! La scrittrice è stata molto brava nel farti calare in tutta questa triste realtà… Dove alla fine si intravede una speranza e una luce in fondo al tunnel! Complimenti!!!

  11. Caspita, Iole! Mi sono immersa nella lettura già dalla prima riga, catturata da paesaggi, personaggi e stati d’animo. Molto bello.

  12. Un racconto intenso che mi ha coinvolto emotivamente…complimenti!

  13. Un racconto forte e vibrante dalle tinte cupi come l’animo del suo protagonista. Più che una storia, sono tante storie che si intrecciano attorno alle figura del protagonista: ad ogni personaggio viene lasciato lo spazio sufficiente per diventare lui stesso protagonista di una storia parallela a quella principale. Nonostante questo il racconto, nella sua completezza, non ne risulta penalizzato. Dovrei rileggerlo, ma mi è sembrato che ti sia scappato qualche tempo nell’uso dei verbi, magari ricontrolla perché il livello è alto e sarebbe un vero peccato. Scrivi molto bene. Bravissima!

  14. Complimenti all’autrice di questo bellissimo racconto. E’ una storia che rapisce il lettore fin dalle prime parole, inoltre, la trovo molto attuale. Come la guerra ha cambiato radicalmente la vita delle persone, per cui niente sarà come prima, così un evento traumatico può cambiare le nostre vite, rendendoci incapaci di vivere come il nostro protagonista, reduce dall’orrore della guerra e di cui si sente tutta la sofferenza, capace più ad aiutare gli altri che se stesso. E’ un racconto che mi ha toccato profondamente, pieno di dolore, sì, ma anche di speranza. Quelle scarpette da ballo lasciate dalla dolce Gigliola nella borsa del marito sono un augurio per lui e per tutti noi a prenderci cura di noi stessi/e, a conoscerci, ad avere coraggio, a lasciare le zavorre piene di dolore che ci bloccano in una non vita e a spiccare il volo verso la felicità.
    Bravissima Iole

  15. Storie che si intrecciano come rami ritorti di uno stesso albero. Se fosse una pellicola, vedremmo i protagonisti condurre le loro vite immersi in scenografie notturne, il tono di fondo è seppia. Bravissima Iole, c’è molta umanità e molta fame… di vita, in questo racconto.

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