Premio Racconti nella Rete 2010 “Il ripostiglio” di Andrea Polini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010Alla tivù scorrevano i titoli di coda della prima commedia sexy della notte. Seduto sul divano di velluto verde, Mario puntò il telecomando verso la televisione e la spense. Per qualche istante, nel salotto appena rischiarato da uno spot da lettura, lo schermo conservò una debolissima luminescenza, prima di oscurarsi del tutto. L’orologio a caratteri digitali blu del lettore dvd segnava la mezzanotte e mezza.
Pensò che era ora di andare a dormire, ma prima, si disse, – come faceva ogni sera – avrebbe fatto una capatina nel ripostiglio.
Si alzò dal divano e si avvicinò alla finestra. Sotto alla finestra, l’amaranta aveva le larghe foglie verdi in posizione raccolta, come sempre si posiziona questo tipo di pianta quando c’è poca luce. Accarezzò le foglie. Era affezionato a quella pianta. L’aveva comprata due anni prima sua madre, proprio poco prima di morire. A lei piaceva molto l’amaranta, e questa, per lui, era una ragione più che sufficiente per amarla a sua volta.
Guardò fuori dalla finestra la strada silenziosa, illuminata da un paio di lampioni fiochi. Accennò un sorriso, e le labbra – ormai sapeva che riusciva a sorridere soltanto in questo modo – si strinsero come a formare una grossa ruga, dando al suo viso un’espressione triste, un’espressione che si riscontra spesso nelle persone che hanno la precisa consapevolezza di essere rimaste sole al mondo.
Ciò nonostante, la sua vita così com’era, in fondo, non gli dispiaceva. Lavorava come commesso nel piccolo supermercato rionale, e si poteva benissimo affermare che col quartiere viveva in una sorta di simbiosi. Conosceva tutti, e tutti lo conoscevano, anche se si trattava di un tipo di conoscenza assai superficiale. Si sarebbe anche potuto dire che non avrebbe mai potuto fare a meno, ogni mattino, di camminare in quelle strade conosciute, di incontrare i soliti volti.
Perché, poi, alla soglia dei cinquanta anni non si fosse ancora sposato, probabilmente non avrebbe saputo rispondere con precisione neanche lui stesso. Di certo non l’aveva aiutato il carattere troppo timido nelle questioni sentimentali, e, non per ultima, aveva contribuito a farlo rimanere scapolo la poca avvenenza.
Ora, però, come faceva ogni notte, prima di andare a dormire, voleva consumare quella sorta di rito che, ormai, non si esagera se si afferma che aveva assunto in lui i tratti della sacralità.
Senza accendere il lampadario, uscì dal salotto. La vista gli si era abituata alla semioscurità, tanto che percorse a passo spedito quattro o cinque metri del lungo ingresso, fino alla parete di fondo. Aprì la porta del ripostiglio, e ancora non accese la luce. Nello stanzino, però, attraverso la finestra, arrivava il riverbero dell’illuminazione pubblica nella strada.
A differenza che nelle altre stanze, c’era un po’ di disordine nella dispensa, come la chiamavano i suoi genitori. Vi stava un vecchio mobile da cucina, con dentro diversi serviti inutilizzati da molti anni, e c’era anche un frigorifero non più funzionante, di quelli bassi, senza freezer, come usavano una volta, che ora fungeva da ricovero per i detersivi e per qualche arnese necessario per i lavori domestici d’emergenza, come riparare un cavo elettrico o un tubo che perde acqua. Sulle mensole fissate al muro, giacevano vecchi libri di scuola e qualche rivista, oltre a due radio fuori uso, che erano appartenute, una a suo padre, e una ad una zia materna. Insomma, nel ripostiglio c’erano tante cose di poco valore economico, cose, però, che per la maggior parte aveva usate quotidianamente in lunghi periodi della sua vita, e delle quali, ora, non aveva il coraggio di disfarsi.
Di tutte, comunque, la cosa presente nel ripostiglio che gli era più cara, era la finestra. Dalla finestra, poteva abbracciare con lo sguardo buona parte dello scorcio di periferia dov’era nato, cresciuto e invecchiato, e poteva godere di questa veduta – secondo lui – da una posizione doppiamente privilegiata.
La casa era al secondo piano, a un’altezza che considerava ideale per offrirgli un punto di osservazione sufficientemente panoramico, senza però il senso di distacco, di estraneità, che danno le grandi altezze, i punti di vista posti troppo in alto, troppo lontano da dove si consuma il vivere. Il fatto, poi, di poter osservare il quartiere di notte, quando le sue strade sono deserte e silenziose, gli dava la sensazione di coglierne l’essenza, l’anima, forse il segreto stesso che glielo rendeva tanto caro.
In fondo, però, sapeva bene che il segreto del quartiere era un segreto di Pulcinella. Un luogo non suscita affezione per le sue intrinseche peculiarità, ma per il vissuto che si intreccia con esse, a formare un legame, ad un certo punto, inscindibile.
Ricordò che dalla finestra, da bambino, guardava suo padre partire con la vecchia Seicento grigia, per andare al lavoro; e che lì passava ore – alcune mattine, di domenica – ad attendere gli zii che arrivavano col treno da Firenze. Gli piaceva vederli apparire in cima alla strada, dopo che erano scesi da poco alla vicina stazione.
Tutte le cianfrusaglie da cui era circondato, poi, nel silenzio della notte gli sembrava riprendessero magicamente vita, ed ecco che allora le vecchie radio era come se trasmettessero ancora il motivetto di apertura della trasmissione “La Corrida”; i libri di scuola con le pagine ingiallite, gli riportavano vividi nella mente i volti di compagni e insegnanti non più incontrati da diversi decenni; i serviti in disuso, gli sembravano profumare di succulente portate.
A parte queste fantasie – si diceva – dalla finestra, nel corso del tempo, aveva assistito davvero, nel microcosmo del quartiere, alla trasformazione della società. Ora, giù nella strada, vi erano le saracinesche abbassate e arrugginite di quelli che, una volta, furono negozi pieni di vita, oltre che di merce. Li ricordava, li ricordava ogni notte, i mattini quando sua madre lo portava con sé a fare la spesa. Accadeva durante le vacanze, quando la scuola era chiusa, e quando a scuola andava il pomeriggio, perché i bambini nel quartiere erano tanti, e non c’erano abbastanza aule per accoglierli tutti nel turno mattutino. Storie ormai lontane, anche queste, fotografie sbiadite di una società che si è profondamente trasformata.
Lo riconosceva nell’insegna multicolore lontana, all’orizzonte, appena distinguibile oltre le chiome degli alberi che punteggiano l’estrema periferia della città, il simbolo del cambiamento. Era l’insegna del nuovo, gigantesco centro commerciale, l’ultimo scintillante mostro tentacolare che tutto ingloba, lasciando attorno a sé i ruderi di quella che era stata l’organizzazione sociale ed economica di un tempo.
Come faceva ogni notte, dopo aver trascorso qualche minuto nel ripostiglio, decise che era proprio tempo di andare a dormire.
Fissò ancora la lontana, sfacciata insegna multicolore. Sospirò. In cuor suo, sperò che il mostro lontano risparmiasse almeno il piccolo supermercato rionale dove lavorava. Fece due conti, e si disse che gli mancavano ancora una quindicina d’anni di servizio, prima di andare in pensione. Con un pizzico d’egoismo, si augurò che il minimarket resistesse alla chiusura fino ad allora. Dopo, succedesse quel che doveva succedere. Il mondo è dei giovani: almeno, così si dice. Tanto, prima o poi, tutto comunque cambia. E’ sempre stato così. Solo che è difficile adattarsi ad un mondo nuovo, e sempre ci saranno gli esclusi.
Per appagare la sua sensibilità, gli era sufficiente osservare dalla finestra il quartiere racchiuso nello scrigno calmo della notte. E ricordare.
Anche la memoria – pensò, mentre voltava le spalle alla finestra e usciva dal ripostiglio – aiuta a vivere.