Premio Racconti nella Rete 2020 “Macché gennaio d’Egitto” di Elisa Dall’Aglio
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020Ismail, quattordici anni di cui almeno sette trascorsi a cavallo e sulla groppa di un dromedario, maglietta rossonera di Ronaldinho addosso, è tradito solo dall’acne giovanile: senza quei brufoli concentrati sulla fronte abbronzantissima gli si darebbero non più di undici anni. Smilzo e di statura ancora bassa, ha gli occhi di un bambino privo di malizia e i gesti affettuosi del figlio, non dell’amante adolescente, quando una turista del villaggio gli si avvicina per accarezzare gli animali che gli stanno sempre vicini. Sin dal mattino presto, si piazza in un angolo d’erba a lato della spiaggia privata del villaggio turistico.
Con lui c’è sempre Casanova, il dromedario spacciato per cammello, e Arturo, un cavallo color nocciola. I nomi di Casanova e Arturo sono stati affibbiati ad hoc per accalappiare gli italiani, i maggiori frequentatori della zona di Marsa Alam. Sono un milione ogni anno a invadere le spiagge e i monumenti egiziani, stando alle stime dell’associazione dei tour operator del Belpaese, sparigliandosi tra le maggiori località turistiche: Marsa Matrouh , El Alamein , Sharm el-Sheikh, Hurghada , Marsa Alam, Luxor, Assuan e Il Cairo.
Ismail con la furberia ha a che fare ogni giorno: il suo capo, un ometto panciuto e dal viso corrugato dal sole, riconoscibile a un chilometro di distanza per la kefiah bianconera portata a mo’di turbante, è impegnato in ogni attimo a patteggiare con i turisti che contrattano sul prezzo proposto all’inizio della cavalcata nel deserto.
Alla fine della tenzone parolaia e condotta anche a gesti, gli europei hanno sempre la meglio.
In una zona dove un cameriere lavora dodici o tredici ore per guadagnare cinquanta euro al mese, l’anziano egiziano si accontenta, sfregandosi le mani di nascosto ma piangendo povertà in modo teatrale, di venti euro rispetto ai quaranta sparati in principio. Il ragazzo lo chiama padrone, eccitando la mia suscettibilità verso un vocabolo che io uso solo per cani e gatti.
L’incarnato del quattordicenne smaschera la sua nascita ad Assuan, cittadina della Nubia – area a sud del Nilo dove la pelle e l’Africa diventano di colpo nere e da cui gli egiziani del Nord prendono distanze quasi razziste – posta a neppure sei ore di macchina dal Sudan. Qui la Nubia prosegue creando una liaison geografica tra i due Stati confinanti. Il viaggio inizia subito con un trauma: Casanova, occhi grandi e neri dalle ciglia lunghe, coperti di mosche che non riesce ad allontanare dalle orbite, alza dapprima le zampe posteriori, sottili e molto lunghe, cosicché il mio sedere di cittadina, viziata da poltrone e da divani morbidi, scivola in avanti lungo la dura sella e la mia pancia sbatte contro una protuberanza di legno, che dovrebbe invece servire ad ancorarsi con le mani.
Un urlo quasi isterico fa ridere Ismail, e scopro per la prima volta nonostante il secondo scatto di Casanova, stavolta per le zampe anteriori, che l’adolescente è abituato a divertirsi con poco. A Marsa Alam è solo, i genitori anziani sono rimasti ad Assuan, migliaia di anni fa denominata ‘terra degli elefanti’: ora a regnare è il lezzo di gabinetto, perché le fognature sono inesistenti. In un Paese dove la disoccupazione tocca picchi del 30% e dove anche la classe media soffre per l’elevata inflazione, i suoi sei fratelli sono dispersi tra i templi di Luxor e di Karnak a chiedere l’elemosina o a fare il suo stesso lavoro di traghettatore dalla riva al deserto. I genitori di Ismail vivono soli, mantenuti dallo zelo dei figli che, rinunciando a tutto, mandano loro i soldi per campare.
La situazione economica e politica, fortunatamente, mi racconta il ragazzo, si è stabilizzata. Nelle rivolte legate alla Primavera Araba nel 2011 il popolo in piazza è riuscito a detronizzare, dopo trent’anni, Mubarak: l’11 febbraio 2011 l’uomo è stato arrestato e condannato all’ergastolo e in seguito assolto. Trascorse i suoi anni tra carceri e tribunali militari per accuse di corruzione. Poi diventò presidente Morsi. Infine, il colpo di stato del portò al potere il regime militare guidato da Al-Sisi. E a peggiorare la situazione di questa polveriera egiziana c’è stato l’attentato del 14 luglio 2017, quando un uomo ha accoltellato a morte due donne tedesche in spiaggia a Hurgada, ferendone gravemente altre quattro. Da quel momento i turisti erano scomparsi. Ma, pian piano, sono tornati: il settore ha toccato il minimo storico nel 2016 , ma è sensibilmente aumentato l’anno successivo per tornare, nel 2018, ai livelli di presenze del 2010.
Durante il viaggio, man a mano che il vento e il Mar Rosso si allontanano e noi sprofondiamo nella landa rocciosa, la conversazione si sposta sui dromedari, che in Egitto la fanno da padrone: mi spiega che le loro carni sono mangiate da secoli, nonostante siano molto dure, le ossa hanno sostituito l’avorio, ormai illegale, nella costruzione di statuette, di pugnali, di souvenir; il pelo lavorato diventa cucitura e laccio per le scarpe, o tappeto. Il povero Casanova sta alla Terra dei faraoni come il maiale sta all’Europa.Un esemplare arriva a costare al massimo mille euro, contro i centomila del purosangue arabo, animale sacro al mondo mediorientale, tanto che, mi spiega il ragazzo, un proverbio recita: “Allah, non mandarmi in un paradiso privo di cavalli”. Gli chiedo dell’evidente passione per il Milan, e Ismail risponde, non nascondendo una certa esaltazione, che quella è la sua squadra del cuore, e che molti egiziani perdono la testa per teem stranieri come Inter, Juve, Arsenal, Manchester, Barcellona, Real Madrid. Le idee mi si fanno allora più chiare: avevo già notato con curiosità e insieme tenerezza fraterna, la partitella pomeridiana che ogni giorno potevo scorgere dalla mia terrazza affacciata sul deserto: camerieri, baristi e aiuto cuochi giocano in pausa pranzo ogni giorno in un pezzo di terra, un campo virtuale senza porte, reti o perimetro; nonostante la levataccia, le numerose ore di lavoro in piedi, ai fornelli o a fare slalom tra i tavoli, e nonostante il vento che alza un polverone di sabbia a ogni calcio o caduta con fallo, si ritrovano sempre lì alle quattro, di fronte al Coffee shop loro riservato. Ai dipendenti del villaggio, che una legge nazionale impone dover essere rigorosamente abitanti dei dintorni del villaggio turistico europeo, non è infatti consentito aggirarvisi liberamente quando sono a riposo; così, si ritrovano tutti in una baracca di latta senza pavimento ma con la parabola svettante dal tetto piatto, dove in 60 guardano in piedi, presumibilmente partite di calcio, dentro uno schermo in bianco e nero.
Il due febbraio l’Egitto si è aggiudicato la coppa d’Africa, battendo 1 – 0 l’Algeria grazie al gol di Hassam. Parlo con Ismail della gioia immensa ripresa dalle videocamere sulle strade e sulle piazze del Cairo, megalopoli di circa 23 milioni di abitanti: era una festa maschile e femminile, l’entusiasmo di un intero popolo che gozzoviglia fino a tarda notte sorseggiando dalla bottiglia la tipica birra Stella, una bevanda poco alcolica, e sventolando la bandiera rossa, bianca e nera dalle strisce orizzontali.
Accanto al locale sorgono, proprio in mezzo al nulla, due palazzine bianche e basse, di notte sempre illuminate da numerose luci al neon in stile Polichimico: lì dorme il personale, in otto o dieci per camera su letti a castello, mi hanno spiegato a colazione. La distanza tra il loro alloggio e le mura del villaggio è poca, tanto che i ragazzi dopo il lavoro sciamano a piedi dalla sala pranzo e dalle cucine verso il loro bunker, scherzando tra loro nella loro lingua e ridendo. Questo mi fa pensare molto: in due settimane non ho visto un egiziano triste, o comunque che non sorridesse, né in sala da pranzo, né nel bar della piscina e in quello della spiaggia. Così gentili da sembrare fuori secolo, salutano, sorridono, si preoccupano che il tuo tavolo sia in ordine ma senza essere opprimenti. Nel punto del muretto corrispondente all’uscita dal villaggio c’è un passaggio delimitato da sbarre gialle e nere, sotto cui sono poste due guardie del luogo in divisa, con tanto di walkey talkey e di pistola. Non ho mai capito l’importanza della loro presenza, ma vissuta con assoluta indifferenza dai nord africani. Mi sono chiesta quasi per scherzo se fosse per impedire scappatelle notturne a qualcuno, fosse un’italiana scalmanata o un egiziano triste. Oppure se sia solo mera prassi, perché dalla spiaggia, posta a nord rispetto al villaggio, è possibile aggirare il posto di guardia e arrivare comunque agli alloggi dei dipendenti da dietro, solo attraversando una strada asfaltata, così stretta e lunga da sembrare dipinta sul pannello mobile di un set teatrale. Presa da questi ragionamenti, mi accorgo di essermi abituata facilmente all’andatura ondeggiante di Casanova, tanto da riuscire finalmente a rilassarmi. L’andatura del dromedario è molto lenta e io gliene sono infinitamente grata.
Il deserto del Mar Rosso è una landa desolata rotta solo da crinali di montagne secche che tanto ricordano la pasta di mandorla o il grano in granuli del cous cous bianco. In riva al mare, invece, coralli multiformi, conchiglie barocche e carcasse rinsecchite di pesci napoleone fanno sembrare la battigia un cimitero di ossa, assumendo sagome di mandibole, di teschi spezzati o spaccati, e di piccole tibie. Il deserto profondo si estende invece tutto uguale per chilometri: detriti, rifiuti leggeri portati dal vento impetuoso che piega palme e modella dune, sacchetti di plastica neri. In questa monotonia grigio – marrone, che molto ricorda la luna e i suoi crateri, l’occhio che fissa inizia a scoprire forme fantasiose e desuete tra i merletti delle basse montagne che fiancheggiano la strada sabbiosa, battuta solo da animali e dal pick up dei beduini divenuti stanziali. Ripensando ai precedenti discorsi di Ismail – Ronaldinho, arrivo a una semplice conclusione: dire che il calcio è lo sport nazione del Paese guidato da Murabak è solo un eufemismo: basta accendere il televisore per notare – e a volte per una donna in cerca di soap è un vero choc – che i canali trasmettono di continuo partite in diretta e in differita: dalle coppe europee e d’Africa, dai campionati italiano, tedesco, spagnolo e francese, tutto passa, e ripassa nelle repliche, sullo schermo. Sono stata accolta, al mio arrivo nel villaggio, da un Paris St German vittorioso e sono stata salutata dall’Udinese e dal Cagliari in pareggio. Quando non sono inquadrati giocatori e arbitri a correre fino allo sfinimento dietro le telecamere, ci sono comunque gli special in Il processo di Biscardi style: giornalisti, commentatori, forse polemici – la fonetica legata alle frasi del dialetto egiziano esprime sempre un senso di ansia e di arrabbiatura allo stesso tempo, con tutte quelle acca aspirate che si ripetono a ritmo di tamburo.
Ismail, intanto, è cento metri più avanti a cavallo di Arturo e parla al cellulare nel suo dialetto. Mi passa al telefono il suo capo, che vuole assicurarsi da me che tutto proceda per il meglio. Gli rispondo scocciata ricordandogli che ho una guida molto esperta. L’orologio è superfluo per chi conosce il deserto, così Ronaldinho mi avverte che il villaggio beduino è all’orizzonte. Un serraglio di pali e corde a delimitarne il perimetro, un recinto di pietre – paiono allume di potassio – a cingere la zona della preghiera, con uno spazio aperto per entrare e le impronte rigorosamente rivolte alla Mecca. La famiglia di beduini ci corre incontro, fedele alla tradizione antica della sacralità dell’ospite: è composta dal padre, il capo, dalla madre, da quattro figli, di cui tre dai sei ai dieci anni, il quarto sulla ventina, e dalla giovane moglie di quest’ultimo.
Mi fanno accomodare in una tenda multicolore fatta di stoffa ricavata dal pelo di capra lavorato, con finestre ritagliate con le forbici. A terra, svariati cuscini e tappeti.
Continuo a ripetere loro shukran, grazie, una delle poche parole arabe che conosco. Loro ricambiano i sorrisi ma non conoscono una parola di italiano o di inglese, così Ismail si improvvisa interprete. Mi domandano se preferisco the o karkadè. Rispondo the.
Mi portano su un vassoio riccamente lavorato un the alla menta così profumato da riempire lo spazio intorno al mio cuscino, intorno al cuscino di Ismail che fuma narghilè e attorno ai bambini che lo incitano a tirare di più con i polmoni dal tubo verde sotto cui l’acqua gorgoglia.
Sorseggio il the bollente. La menta in Egitto si respira, si mangia e si beve: ingrediente immancabile nelle ricche insalate di verdura verde, ananas e olive nere, di dolci e biscotti, è soprattutto nell’infuso caldo a trionfare, unificando le abitudini di ricchi e poveri, di sceicchi e beduini, di egizi nordici dai tratti mescolati agli inglesi e di quelli color cioccolato. Il the è un rito ancor prima di essere una bevanda rinfrescante e dissetante, ma è anche proposto come rimedio per la cattiva digestione, la diarrea, il mal di testa e i dolori mestruali.
Mi portano qualche biscotto ripieno di lukoum, un dolce di amido, zucchero e acqua estratta dalle rose che accomuna, in fatto di dolci, Turchia, Maghreb ed Egitto.
Esiste anche la variante contenente pistacchi, noci o mandorle, diffuso soprattutto in Medioriente.
Dietro le tre tende dei beduini, un esercito di capre nere belanti, tra cui spicca un caprone dalle corna lunghe. “A goat”! Urlo, felice, cercando di socializzare, ma nessuno capisce. Anzi, nessuno mi dà retta perché tutti, a parte Ismail, corrono dietro agli animali che, seguendo il loro istinto di ovino, si arrampicano su un’altura. Si sono fatte intanto le sei.
E’ tardi, rispetto alla tabella di marcia, e Ismail mi invita a risalire sul dorso di Casanova.
Questa volta gli stringo le gambe attorno al ventre e tengo ben salde le mani alla sella, chiudendo gli occhi. In un attimo il cammello è in piedi. I bimbi hanno freddo, la temperatura si è abbassata, il sole non è più così alto e nitido. Salutiamo e ci incamminiamo.
Ismail mi racconta che i deliziosi biscotti che ho mangiato sono prodotti, a Il Cairo, che sono riuscita a visitare il giorno prima in una lunga escursione che ha richiesto dodici ore e mezza di pullman. Sulle larghe strade della città, lungo le quali si ergono imponenti cartelloni pubblicitari di prestigiose scuole private inglesi, francesi, americane e tedesche, sfrecciano Fiat così vecchie che pare di essere tornati nell’Italia degli anni ’60: 126, 127, 130, Ritmo, Croma, Lancia Thema di tutti i colori, ma soprattutto verde pisello e blu, fanno pensare a tangenziali fantasma dove vecchie scocche siano resuscitate dopo la demolizione e di nuovo funzionanti. La casa automobilistica torinese ha creato una filiale a Il Cairo dove si assemblano vecchi modelli, dando lavoro a molti operai locali. La città è l’unica dell’intero continente nero ad avere la metropolitana, fondata dagli inglesi sul modello di the Tube. Come in ogni metropoli che si rispetti, il dislivello tra ricchi e poveri è ampio come un canyon: in periferia le strade sono di terra battuta, dove la pioggia crea pozze degne di Venezia e di Chioggia, e le case non hanno né tetti né finestre – come ad Assuan e Luxor, ma al Nord fa freddo d’inverno, e non riesco a capire come facciano qui a ripararsi dalle buriane. In centro, invece, le strade sono asfaltate, il lungo Nilo è pieno di caffè, di ristoranti, alcuni dei quali costituiti da barconi sull’acqua lussuosamente arredati, di panchine e di aiuole curate. Sorge persino il grattacielo dell’istituto universitario di ricerca oculistica. I ragazzi sono ben vestiti e, soprattutto, molto belli: alti, con le spalle larghe su fianchi stretti, dall’incarnato di curcuma, hanno occhi grandi e allungati del colore e della lucentezza della carrube. Mi chiedo ora come sarebbe stato vivere nel deserto: senza trucco, senza libri e quaderni, senza estetista e boutique, ma anche senza psichiatri, psicofarmaci e test di Rorschach tra i piedi. Sarebbero state bandite dalla mia dieta Girella e Fiesta, brioches per le quali all’asilo attendevo con ansia la ricreazione, e non avrei mai conosciuto il Nesquik: avrei bevuto, al risveglio, solo latte di capretto, e di sicuro sarei andata a scuola a singhiozzo, un giorno sì e due no. Non avrei mai saputo cosa fossero il carnevale e le frittelle e le mascherine da fatina sugli occhi. Avrei anch’io pregato Allah e avrei fatto il Ramadan, non so come, vista la mia fame perenne. Contrariamente a quanto la mia ansia mi costringe a temere, il sole nel deserto non crepa facilmente e, anche se tramontato dietro ai picchi montuosi, lascia per almeno mezz’ora un alone aranciato in cui la visuale rimane evidente. Poi, di colpo, l’eutanasia del sole operata dalla Terra: un buio medievale scende improvviso. Le stelle si accendono come se un interruttore fosse stato premuto e splendono a tal punto che, a fissarle per qualche minuto senza staccare lo sguardo, pare che l’enorme cupola di una moschea nera tempestata di pietre preziose sia calata sulle nostre teste come un coperchio. La mia mente corre alla moschea blu di Istanbul, visitata anni prima. Ismail mi chiede come sto. Le luci del villaggio sono vicine.
Chiedo a Ismail come fa a vivere con 50 dollari al mese, visto che poi li dà tutti ai genitori. La sua risposta mi lascia stupefatta. Mi dice che è la norma il contrabbando di marijuana e hashish, ma soprattutto che molti camerieri hanno una specie di secondo lavoro: si fanno pagare per fare sesso con le ricche donne europee, russe e cinesi. Dal momento che è illegale appartarsi in spiaggia, questi ragazzi si accordano con altri che hanno lo squad e l’allegra combriccola si muove verso le tende dei beduini nel deserto, dove viene consumato il rapporto sessuale. Ma Ismail aggiunge: “Non basta siano ricche, noi egiziani siamo esigenti, le vogliamo anche belle”. Così, arrotondano i beduini, i proprietari delle moto e i camerieri.
Casanova esita proprio sull’unica strada asfaltata da attraversare. Ismail lo tira, perché fari lontani di un’auto si fanno sempre più vicini. Nel marsupio scopro la busta contenente ancora l’indaco in polvere – usato dalle donne egizie per sbiancare la biancheria – comprato nel negozio di spezie qualche sera prima. Sotto i numerosi faretti del muretto del villaggio appare di un blu elettrico innaturale, metallico come lo scheletro di un motorino. I colori in Egitto compongono ogni giorno arcobaleni vivi. A colmare il settimo è il violetto di certo corallo sottomarino e anfibio – quando onde arrabbiate ne strapazzano qualche pezzo tra fondali e rocce, talvolta spezzandolo in due o tre pezzi. Saluto Ismail con un bacio, Casanova con una carezza e mi avvio verso l’Italia contenuta in una scatola di cemento persa nel deserto, il villaggio. Mentre salgo le scale della camera, non riesco a non pensare all’Egitto vero: dove le risorse economiche si limitano a qualche oleodotto e gasdotto, dove il vero dio non è Allah ma il Nilo, che scende in Sudan e si divide in Nilo Azzurro, Nilo Bianco e Nilo delle Montagne. Lungo il suo corso si snodano coltivazioni di frumento e canna da zucchero. Mi ha colpita molto sapere che l’assistenza sociale nazionale è inferiore all’un per cento sul totale delle spese governative: non esiste aiuto alcuno in termini economici e ognuno deve cavarsela da solo, come molti di loro mi hanno raccontato, lamentandosi soprattutto delle spese enormi da sostenere per costruirsi la casa. ‘E poi ci si stupisce che non abbiano tetti’, mi dicevano al bar i baristi. ‘I tetti sono un lusso e Allah ci assiste almeno col clima’.
Buonasera a tutti. Pur essendo consapevole che si tratta di un concorso letterario in cui uno dovrà/potrà emergere, mi piacerebbe comunque ricevere commenti: anche al vetriolo, anzi, sarebbero i più graditi! Perché sappiamo che l’Italia è il Paese in cui tutti scrivono ma nessuno legge. Ecco, appunto, mi interessa sapere, da gente come voi che ha la mia stessa passione – scrivere in generale – se il mio racconto risulti troppo lungo, troppo pieno di riferimenti culturali che lo appesantiscono facendo perdere, o meno, il filo del discorso al lettore. Questa è un’ottima arena per confrontarci e metterci alla prova.
Grazie a tutti
Elisa
Ciao Elisa. Accolgo volentieri il tuo invito e so o contenta che tu lo abbia espresso il tuo desiderio in maniera così sentita.
Scrivi molto bene e leggendo ho avuto la sensazione di salire in groppa a quel dromedario spacciato per cammello. Questa cavalcata mi ha consentito di assaporare ogni dettaglio e mi ha fatto fare un viaggio emotivo e ricco di sensazioni. Se non er per il tuo appello probabilmente mi sarei persa questa bella lettura. Il racconto è effettivamente ricco di dettaglii e dunque piuttosto impegnativo e la formattazione che hai utilizzato non agevola la lettura. Per il resto lo trovo un ottimo lavoro. Grazie
Ciao, mi collego a quanto detto da Monica. La formattazione scelta non agevola la lettura. Per quanto riguarda la tua preoccupazione se la quantità di riferimenti culturali appesantiscono la lettura penso che sia assolutamente soggettivo. Ci sono lettori che amano minuziose descrizioni e continui riferimenti così da sentirsi appieno nel luogo, ma di certo si va a penalizzare la fluidità della lettura; in fondo la lettura non deve essere per forza fluida, anche se molti lettori amano questo aspetto ci sono letture straordinarie che richiedono tempo. Farei riferimento a Tolkien e al suo modo minuzioso all’eccesso nel descrivere la foresta di turno, dopo alcune pagine ti chiedevi se il personaggio era entrato o no nella foresta… Ma vallo a dire a un fan se non trova necessarie tutte quelle descrizioni.
La domanda che mi porrei è se il riferimento culturale è effettivamente necessario alla storia o a inquadrare meglio l’ambiente dove si svolge il tutto, se è fine a se stesso allora sì appesantisce la lettura (a prescindere dalla fluidità) ed è inutile alla trama. Almeno è ciò che penso, senza avere particolari competenze. As-salaam ‘alaykum
Monica e Marcello, vi ringrazio profondamente per i saggi consigli che mi avete dato. Io scrivo poesie, quindi è da poco che mi cimento con la prosa, e sì, probabilmente esagero con i riferimenti culturali. Ovvio che non lo faccio per dimostrare di essere colta, ci mancherebbe, ma mi vengono spontanei dai tempi dei temi al liceo, dove l’insegnante ne chiedeva una montagna.
Buona giornata
Elisa
Non c’è alcun commento al vetriolo da fare: è un magnifico racconto di viaggio e, soprattutto, un grandioso reportage.
Quella “eutanasia del sole operata dalla Terra” poi è davvero notevole.
Ma chi sei tu, la figlia illegittima di Enzo Biagi?!?!