Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2020 “Le ragazze della psichiatria” di Elisa Dall’Aglio

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020

La sala fumo del reparto psichiatrico di Trecenta è un gineceo dove si aprono letteralmente le cateratte del Nilo: si rompono per il profluvio di parole pronunciate da ognuna, tutte intente a raccontare le loro storie. Noi, ragazze di psichiatria, tutte entrate per tentato suicidio, senza alcuna stima e con la stigma degli altri addosso, tra una sigaretta e una visita dell’infermiere per la terapia, parlavamo di tutto, ma soprattutto di uomini. La finestra, aperta per far uscire l’odore di fumo, ha le sbarre. Come, del resto, in tutte le stanze del reparto. Rosita è rabbiosa per essere stata lasciata dal marito, con un figlio a carico, per una che ha vent’anni meno di lei. Roberta è tormentata dalla tristezza, perché il suo nuovo amato è sposato in casa e a lei non toccano che le briciole. “Non possiamo neppure dormire insieme una notte”.

 Ma l’amore, quindi, è questo? Per noi, che la ascoltiamo, significa fare come il cane che attende gli avanzi, fiutando voracemente intorno a tutte le sedie dei commensali. Le consigliamo di troncare, ma lei risponde che ha già una figlia, non chiede altro, almeno è un bell’uomo e le sta vicino quando può. Per esempio, è venuto a trovarla a Trecenta ogni giorno. Anzi, racconta che mai nessun altro l’ha trattata così. Anch’io, non lo nascondo, ho avuto una relazione con un uomo sposato con una figlia, ma è durata poco: soffrivo così tanto per le sue assenze e per i suoi racconti idilliaci sulla sua perfetta famiglia, che ho troncato di netto. Il bastardo egoista è arrivato a dirmi, un giorno: “La nostra relazione durerà per sempre, mi farai da bastone della vecchiaia”. La tentazione di stampare in cartaceo tutto il ciarpame amoroso che mi riversava ogni giorno, per tre mesi, alla moglie è stato enorme. Ma poi ho pensato che innanzitutto sono una brava cristiana, e sarebbe stato un peccato. Poi, di essere una femminista convinta. E, infine, ho temuto che succedesse quello che è accaduto a Marie Curie, l’unica donna ad aver vinto due premi Nobel, per la fisica il primo e per la chimica il secondo. Una donna che mi affascina intellettualmente. Ma anche la sua vita non era priva di problemi pratici sul fronte amoroso. Si era innamorata, a 43 anni, di un uomo più giovane, un fisico collega, descritto dalla stampa come bello, ricco, atletico. Ma sposato. La moglie lo fece pedinare e scoprì, se ricordo bene, la segreta corrispondenza dei due amanti: ne scaturì, ovviamente, un putiferio, la storia, data la fama della donna, finì anche sui giornali e tutti, in pratica, potevano leggere le parole che i due si scambiarono. Alla fine, la Curie ha dato del denaro alla moglie dell’uomo che ha ritirato la denuncia. Un gran bello scandalo.

Mara e rimasta vedova a soli 38 anni e non sapeva come mantenersi, fa un part-time e di pensione di reversibilità del marito le tocca poco. Alice si dispera perché è single da tanto tempo, e aggiunge, tra un tiro di bionda e l’altro, che in giro sono rimasti sono gli scarti delle altre, e che i più interessanti sono ormai sposati o fidanzati, meglio stare sole che prendersi il primo che capita, bisogna selezionare a fondo. Leonarda è completamente esaurita e continua a piangere per uomo che non la bada più, “eppure stavamo bene insieme e anche il sesso era magico con lui. Dove ho sbagliato? Il punto è che meno mi cerca e più lo desidero”. Tutto questo dolore è amplificato dal fatto di essere recluse, di non poter andare neppure giù a prenderci un caffè alle macchinette senza un infermiere che ci accompagni. “Mia nonna diceva che sono le più brutte a sposarsi per prime”, controbatteva Margherita a Leonarda, e l’altra le dà ragione, che noi ragazze della psichiatria siamo tutte belle a modo nostro e non si capisce perché gli uomini che ci piacciono non ci vogliano mai. “Tu ti butti mia”, mi apostrofa Rosita, “chatti con tutti e dai loro corda, chissà che impressione dai loro. Gli uomini più te la tiri e più si prendono”.

 Credo sia proprio vero, e d’altra parte c’è il detto “l’unico vero amore è quello impossibile” Uno dei miei drammaturghi preferiti, Schiller, sosteneva nel don Carlos, che “conosce l’amore solo chi ama senza speranza”. Inutile aggiungere che l’ho amato per il suo pessimismo cosmico: per lo stesso motivo, ho adorato Tucidide nella descrizione della peste di Atene, Lucrezio nel De Rerum natura, tutto Schopenhauer, tutto Leopardi e il Verga dei Malavoglia. Ma tutte noi, che fingiamo di tirarcela , abbiamo una parte fisica e carnale da soddisfare: ma il confine tra sesso e relazione è un crinale sottilissimo. “Gli uomini hanno la figa impressa in fronte”, aggiunge Margherita, “sono capaci di fingere per mesi pur di ottenerla, poi ti buttano via”.  L’altro della combriccola psichiatrica era un era un ragazzo gay raffinatissimo: aveva addosso vestiti firmati, era glabro e profumato. Guardava di continuo tutorial di trucco su Instagram. Ora è in comunità ma il suo compagno lo va sempre a trovare fino a Breganze, nel vicentino. Nessuna di noi ha mai voglia di lavarsi, mi consola saperlo: in questa stanza non mi sento sola, sola di quella solitudine che deriva dal non essere compresi. Quante volte mi sono sentita estranea in una compagnia di persone, anche una cinquantina. Noi ragazze della psichiatria eravamo tutte in tuta o in pigiama e struccate perennemente, spesso con i volti tumefatti dal pianto. Solo qualcuna si azzardava a truccarsi, e lo faceva per se stessa. Ah, gli esempi: le persone positive che hanno cura di sé e vogliono vedersi belle allo specchio e ti consigliano di fare altrettanto. “Truccarmi mi fa sentire più sicura di me stessa” – diceva Roberta . ” Più in ordine e presentabile, con la pelle e gli occhi più belli”. Molte invece mi hanno detto di indossare una maschera perenne con i collegi d’ufficio, perché “sono molto chiusi di mente e non capirebbero, poi sono molto pettegoli.” Riesce a   toglierla solo noi, ragazze della psichiatria.

Ad un certo punto entra Massimiliano, un bel ragazzo che ha otto anni mento di me. Biondo, occhi azzurri, pallido, con gli occhiali neri, per me è stato colpo di fulmine quando l’ho visto nei corridoi del reparto, da lui ricambiato. Si siede vicino a me, mi prende la mano e mi offre una sigaretta rollata da lui a mano col suo tabacco Pueblo blu. Massi è stata la sorpresa di psichiatria. A causa di un’intera una settimana di ricovero forzato, non abbiamo fatto altro che parlare, abbracciarsi, tenerci la mano, baciarci e coccolarci. Approfittando del fatto che alle 20.50 gli infermieri si rinchiudevano nello sgabuzzino per le ordinarie consegne, io e Massi ci appartavamo nel bagno della mia camera. Non ci hanno mai scoperti, anche se, nei giorni trascorsi in simbiosi, qualche oss ci riprendeva, quando ci trovava appartati con la mano nella mano sul divanetto della sala televisione. Che cotta mi ero presa per lui. Eppure, quando sono entrata a metà ottobre, ero in totale crisi: avevo assenze prolungate da una settimana, non riuscivo a esprimermi. Sono stata ricoverata subito, non appena la psichiatra mi ha vista al pronto soccorso. Quindi sono entrata in sovrappeso, vestita male, con dito di ricrescita bianca sui capelli e senza reggiseno e puzzavo tremendamente di fumo. Eppure anche per lui è stato colpo di fulmine. Ma purtroppo, è finito in una comunità alloggio a tre ore di macchina da Rovigo e non so se me la sentirò di continuare la relazione, una volta uscito a giugno. “Siete belli, i più belli del reparto, state davvero bene insieme” ci dicevano gli altri pazienti.

Finalmente Denis, l’infermiere, viene a chiederci chi vuole scendere per andare a prendere il caffè. Andiamo tutte, tranne Alice che non ha il permesso dei medici. Tutte noi abbiamo una specie di cotta per un questo infermiere, una sorta di patto segreto di una setta, un ragazzo bello e gentile ma soprattutto ironico. Ovviamente è sposato con prole, ma l’ironia è necessaria in un reparto così. Non diceva forse Freud che l’ironia è una forma di intelligenza? “L’umorismo è un meccanismo di difesa maturo, proprio di un Io stabile, che serve a gestire le comuni richieste pulsionali, che permette l’adattamento e scongiura lo sviluppo di patologie”. Ma nessuna di noi, ragazze della psichiatria, riesce a trasformare il dolore in ironia: siamo diventate dure, disilluse, deluse e ciniche. Soprattutto ci vergogniamo di far sapere a qualcuno, a parte gli amici e i familiari, dove siamo internate. Ah la stigma della malattia mentale, quante pene si trascina dietro. Non riuscire a crearsi e a mantenere legami sociali stabili: è questo il problema del cosiddetto folle. La maggior parte delle madri, poi, investe sulle figlie aspettative da dama di compagnia e opprime la figlia, non la lascia libera di provare e di sbagliare, la priva della libertà. Molte mie compagne del liceo vivono sole da anni, a differenza mia, ma hanno troncato di netto ogni rapporto con la mamma, a parte qualche visita a Natale o Pasqua o qualche telefonata. Allora noi, ragazze della psichiatria, siamo state rovinati dalle madri o dai genitori? Chi si infila un ago in vena lo fa perché ha una famiglia disadattata alle spalle? Anch’io ho una madre iperprotettiva e preoccupata per il mio ricovero. Mia mamma è una geisha nei confronti di mio padre: apparecchia, gli fa trovare sempre pronto da mangiare, lava, pulisce, spazza, fa la spesa, stira.  Mentre mio papà è una persona del tutto anaffettiva, da patriarcato. Dovevo tornare alle 11 anche a diciott’ anni. Non si poteva sgarrare di un solo quarto d’ora o bestemmie a tutto spiano e musi per tutta la domenica.  Tutto quello che di buono portavo a casa, come bei voti o la lettura dei miei temi alla classe del liceo da parte dell’insegnante che mi aveva dato 8, venivano liquidati con lapidario: “Hai fatto solo il tuo dovere”. Ma mi consolo pensando solo a sciocchezze, del tipo: Se Bernardo da Chiaravalle, con tutti i suoi peccati, è riuscito a diventare santo, anch’io ho qualche possibilità, visto che il mio disturbo di personalità si è impossessato di me come un demone nero e come un demone mi tiene sotto scacco. 

Alla fine, prima che la terapia faccia effetto, la sera, sogno. Sogno di fare la giornalista della rivista Internazionale e scrivere dalla Turchia. Mi sono sempre venuti i brividi leggendo la storia dei Saraceni. Nel 1453 il sultano Maometto II è entrato a Costantinopoli e molti storici considerano questa data per il passaggio dal Medioevo al Rinascimento, e non il 1492, anno della scoperta delle Americhe da parte di Cristoforo Colombo. Da allora, gli ottomani governeranno buona parte dei Paesi che erano stati guidati prima dai Romani. Instanbul, in particolare, è la città più affascinante che io abbia mai visto. Istanbul, Costantinopoli, Bisanzio. La moschea blu. Mi ha sempre affascinata e l’ho visitata in lungo e in largo: ho fatto una passeggiata e un pisolino sotto un faggio a Gorky Park, ho meditato e  letto sotto un grosso tiglio a Gezi Park e ho mangiato uno spuntino a base di  falafel seduta su un gradino in piazza Tahrir.  Ho fatto un sacco di foto al palazzo diTopkap?, la reggia e il caravanserraglio del sultano. Mi piacerebbe prendere un caffè, sul Bosforo, con Oran Pamuk, di cui ho letto tutti i romanzi. E attraversare il ponte di Galata tenendo per mano Nazim Hikmet, il poeta  che ha scritto i versi più romantici che io abbia mai letto. 

“Il più bello dei mari
è quello che non navigammo.
Il più bello dei nostri figli
non è ancora cresciuto.
I più belli dei nostri giorni
non li abbiamo ancora vissuti.
E quello
che vorrei dirti di più bello
non te l’ho ancora detto”.

Sognare è bello, anche dissociarsi, e io sono brava a farlo, ma alla fine bisogna tornare alla realtà. In realtà la follia ci fa la posta, a noi ragazze della psichiatria.

Il giorno della mia dimissione non ero poi così felice: avevo trascorso, in fondo, una settimana e qualcosa in compagnia, mi ero fatta delle nuove amiche e soprattutto, avevo conosciuto Massi.

Per lui il destino era già segnato: lo attendeva la comunità, il primario gliel’aveva imposto e non voleva sentire ragioni. D’altro canto, Massi, strafatto di coca, aveva distrutto l’intera cucina, una porta e aveva messo al muro il padre.

“Sono cambiato”, giurava, “quello è stato solo un brutto periodo e non ci stavo con la testa”. A me, lui piace molto esteticamente, sembrava uno dei Galli descritti da Cesare nel De Bello Gallico: alto, possente, con la chioma bionda, gli occhi azzurro ghiaccio. Massi è una persona intelligente, anche se a volte si fa troppe paranoie sui soldi, sull’azienda di famiglia che i suoi sarebbero stati costretti a svendere, per la crisi. Non mi piaceva, insomma, quel lato di lui tutto bolidi costosi da guidare e conti in banca.

A casa sono arrivata carica, grazie a tutti i complimenti ricevuti da Massi e dagli infermieri: apprezzavano i miei occhi chiari e il mio incarnato scuro. “Sembri una libanese, o una mezza indiana”, mi dicevano. Da quel momento ho iniziato a truccarmi, dopo anni che non lo facevo più, per andare a trovare Massi. Mi ha rivista con la piega, il fondotinta, la matita sugli occhi e il mascara. Inutile aggiungere che ho indossato i vestiti migliori che avevo nell’armadio. Un sabato sera, il primario ci ha concesso di cenare insieme in camera sua, con la porta aperta, ovviamente. Ero andata a prendere un Happy Meal per entrambi e, tra una tirata di Coca Cola e l’altra dalla cannuccia, siamo riusciti a baciarci molte volte.

La vita è tornata come prima, fuori dalla psichiatria, scandita da pratiche da sbrigare, fatture elettroniche da inoltrare, preventivi da scrivere per mail. E grazie a Dio l’officina dei miei genitori, la Florgas, ha molti clienti. La sera, chiuso l’ufficio, curavo la pagina Facebook della Florgas, aggiornandola e invitando amici: siamo a quota 2036 followers.

Il resto della sera lo trascorrevo leggendo, andando in palestra e poi a spasso col cane, Stella, un pastore belga che pare una lupa. Durante le passeggiate ascolto anche i podcast, unendo l’utile al dilettevole: La Zanzara quand’ero giù, Barbero quando ero di luna buona. Il podcast di Barbero sull’Impero Ottomano l’ho sentito così tante volte da averlo imparato a memoria: Pascià, Visir, ambasciatori veneziani, il Solimano. Ho scoperto che i per i Turchi era un’empietà ritrarre figure umane, perché in tal modo il pittore si poneva al livello di Dio, l’unico creatore possibile.  Ho imparato anche che il trittico realizzato da Gentile Bellini su Maometto II, esposto alla National Gallery di Londra, è stato il primo e ultimo caso di ritratto di in un sultano.

Ogni tanto, prima di addormentarmi, pensavo a quanto fosse cambiato il mio rapporto con la psichiatria: ho avuto quattro ricoveri, uno spontaneo. Ma il primo, nel 2008, fu terrorizzante per me. Tanto da aver annotato in un piccolo taccuino che mi aveva portato mia mamma delle riflessioni di questo genere: “Sento sempre il tintinnio delle chiavi in sottofondo, qui dentro non sono più una donna, e neppure un essere umano: sono un’internata, la mia libertà si è infranta contro questi muri e contro queste sbarre di ferro a ogni finestra”.

Il manicomio. Ora non si chiama più così, per fortuna, grazie a Franco Basaglia che il 13 maggio del 78 fece approvare una normativa giuridica, la famosa 108, per chiuderli e trasformarli. Ricordo di aver letto una sua intervista, in cui dichiarava: ”Ho immaginato di essere uno sceriffo che entra per portare la legge. Le difficoltà che ho trovato? Trovare il filo di Arianna, tant’era la confusione. I manicomi andavano chiusi per una semplice ragione: non curavano i pazienti ma anzi li facevano stare peggio. Dove va a finire la gente rinchiusa? Da nessuna parte. Bisogna creare una situazione alternativa e fare prevenzione. Chiediamoci cos’è il malato. Dobbiamo rivedere il concetto di malato psichiatrico, le coscienze devono cambiare. Quando sono arrivato a Roma, c’erano mille e cento internati al Santa Maria della Pietà e più di tremila sparsi in tutto il Lazio. E parliamo di popolazione molto anziana, alcuni dei quali anche down, e di persone che non trovano collocazione da nessuna parte, perché non hanno famigliari, parenti, amici o soldi. Non sanno dove andare e vengono da noi. Una buona famiglia metteva sempre la figlia brutta in cucina. Oggi ci sono tante donne e figlie brutte e dobbiamo accettarle. Occorre un salto di qualità”.

Le visite dalla psichiatra erano fissate ogni quindici giorni. Un giorno, la dottoressa Martucci mi disse: “Sai che, a fronte dell’elevato numero di suicidi registrati in Veneto nell’ultimo anno, partirà un nuovo corso riservato alle persone che hanno tentato il suicidio o hanno avuto l’idea di farlo? Sono arrivati da poco i fondi stanziati dal governatore Zaia”. Ho accettato subito entusiasta: finalmente mi sarei trovata in compagnia di gente che sa cosa significhi essere disperati, non vedere la fine del tunnel buio, e essere risucchiati come la polvere dall’aspirapolvere nel buco nero della grave depressione. Ah i suicidi, in una settimana ne ho contati otto, tra Rovigo, Padova e Vicenza, leggendo la cronaca locale. Gente di tutte le età, studenti, anziani, adulti licenziati o imprenditori rovinati. Un po’, però, la cosa mi innervosisce: anche se parlo dal pulpito sbagliato, se uno sta male deve chiedere aiuto, non deve vergognarsi. Eppure resiste, perigliosa, la stigma sociale legata al disagio mentale. Come se un malato dovesse per forza essere un serial killer, girare col martello in tasca o altre sciocchezze del genere. Anzi, noi ragazze della psichiatria siamo tutte fragili, sensibili e chiediamo solo un po’ d’amore.

Il 12 febbraio, un mercoledì, sono andata al corso. Eravamo in dieci, due uomini e otto donne. Superato l’imbarazzo iniziale, ho parlato io, per prima e ho raccontato di essermi buttata sotto un treno merci, che dopo l’impatto ero tutta rotta e pieni di lividi ma in mese me la sono cavata. Ho parlato pubblicamente di miracolo. Credevo di aver sconvolto tutti, ma invece le altre hanno parlato di aver tentato di impiccarsi a un cancello con una grossa catena di ferro, una con un’overdose di sonniferi e infine, l’ultima: Suo figlio, che oggi avrebbe la mia età, si è buttato sotto un treno quattro anni fa, ma a lui è andata peggio. Il signore più anziano ha raccontato di avere un’impresa edile che è fallita e il pensiero di farla finita lo persegue. L’altro uomo non ha mai aperto bocca.

Alla fine ci troviamo tutte fuori dall’Asl e ci fumiamo una sigaretta, scambiandoci, celeri, il numero di telefono. Da qui alla creazione del gruppo WhatsUp chiamato Miss il passo è stato breve. Per puro caso, quel giorno ho ritrovato Roberta, in attesa di una visita. Era con il solito uomo sposato. L’ho invitata a uscire. La domenica successiva ero a casa sua: la figlia era dall’ex marito, i genitori in sala, e noi abbiamo mangiato una pizza surgelata. Dopo il caffè, mi ha fatto vedere le valigie colorate in cui tiene i suoi trucchi: prime, fondotinta, rossetti, smalti per unghie, maschere distensive e stimolanti, scrub, creme corpo alla banana e alla mela. L’ho anche aiutata a mettersi il piercing: si è infilata da sola, guardandosi allo specchio, l’anello nel buco dell’orecchio e io ho le ho avvitato, con pazienza certosina, la micro-pallina per tenerlo fermo. Del suo compagno preferisco non parlare, sa cosa penso, ormai, degli uomini sposati. Mi cadono un po’ le braccia, a onor del vero, sentirla piagnucolare perché, a causa del Coronavirus, non potrà vederlo per tre settimane, abitando lui nel padovano, una provincia in quarantena, dalla quale possono passare nel rodigino solo quelli dotati di un permesso, rilasciato dalla Polizia, per motivi di lavoro e di salute. Dopo la torta, mi ha steso sulle unghie uno smalto gloss molto dorato. Odio lo smalto sulle unghie, ma per le amiche si fa questo e altro. Roberta però non lavora e ha tempo da vendere, mentre io no. Per questo, nei giorni successivi, le ho risposto picche per pranzi e cene da lei, e anche per un caffè. Purtroppo, io lavoro dodici ore al giorno e, dopo il lavoro, mi immergo nella scrittura. So di essere lunatica e lei ha ragione a definirmi “fredda negli ultimi tempi”. Ma, parlando con la psichiatra e la mia amica Silvia, mi hanno fatto notare che ho già i miei problemi e fragilità, n on riesco a tenere su anche Roberta. “Deve essere più egoista Elisa, pensare di più a se stessa”, mi ha intimato la Martucci. Un tempo anch’io sono stata un vampiro emotivo, specie nei confronti dei miei genitori e dei ragazzi che frequentavo. Il disturbo di personalità borderline è caratterizzato, tra l’altro, da un enorme vuoto interiore che il malcapitato tenta di riempire col cibo, con l’alcol, con i farmaci, con la droga, col sesso. Da adolescente sono stata una ninfomane per necessità: da ogni uomo che mi scopava, infatti, cercavo di rubare un po’ d’amore e di affetto. Purtroppo, ottenevo il contrario. Ma ora, vuoi l’età, vuoi il percorso psichiatrico che dura da vent’anni, vuoi i farmaci, gli uomini non mi interessano quasi più, a parte Massimiliano. Li trovo troppo fallaci, bugiardi, egocentrici, sempre troppo impegnati per concederti un po’ di tempo, ti trascurano. Ricordo, anni fa, che il mio ex mi chiamava per dirmi: “Arrivo” e io l’aspettavo con la pentola sul fuoco acceso e spesso, spessissimo, ritardava a dismisura, c’era sempre qualche nuovo e recente fatto di cronaca che lo occupava. Ma faceva il giornalista.

Comunque, anch’io non ero una santa: quel giornalista l’ho tradito con un altro, pur amandolo, solo per fargli capire che non doveva darmi per scontata. Alla fine, anche lui si è attrezzato e mi ha mandata a quel paese. 

Io e Massimiliano ci sentiamo tutti i giorni, a volte con una telefonata, a volte con i messaggi vocali. Ci tempestiamo di foto vicendevolmente. “Sono stufo di stare qui al freddo, conto i giorni per uscire”, mi dice. “Dai che a giugno sarai fuori”, gli rispondo. Erano anni che non mi prendevo una cotta così. Il potere del reparto psichiatrico.

Il Coronavirus, o meglio, la psicosi legata al Coronavirus, ha fatto chiudere la palestra dove mi alleno quasi ogni sera, l’unica fonte di endorfine sane. Tutto è chiuso. Le scuole, pare le riapriranno il 3 aprile (mia nipote, quattordicenne, è al settimo cielo, così può stare col moroso), i teatri, i cinema. La mia passione cinefila è messa a dura prova. L’ultimo film che ho visto è stato, tre mesi fa circa, l’Ufficiale e la spia, di Roman Polansky, che trattava l’affaire Dreyfus. La fotografia era splendida. I costumi eccezionali Il cast, con Jean Dujardin, Louis Garrel ed Emmanuelle Seigner azzeccato. Mi sono persa, per lo stesso motivo, Parasite, il film coreano che ha fatto incetta di Oscar e di premi Bafta. Ho tolto pure Netflix, perché, a forza di guardarlo, ho esaurito tutte le serie più belle. Ho amato, in particolare, Seconda guerra mondiale, Hitler’s Circle of Evil, gli ultimi Zar, l’Impero romano, l’Impero ottomano ed Einsatzgruppen: erano speciali reparti tedeschi, composti da uomini delle SS, della polizia e della Wehrmacht, che operarono nel corso della Seconda guerra mondiale. Il documentario descriveva il disprezzo contro gli Ebrei da parte dei Lituani soprattutto, ma anche da parte degli Ucraini, disprezzo che sfociò nei progrom prima e nel genocidio vero e proprio poi, dove, ai locali, si aggiungevano i nazisti. 

Nel frattempo, sono tornata a leggere Seneca e Virgilio, i miei due autori preferiti da sempre. Ho addirittura imparato a memoria delle loro frasi, come l’inizio delle Georgiche:

Che cosa fecondi le messi,

sotto quale astro rivoltare la terra convenga, o Mecenate,

e agli olmi legare le viti,

quale cura per i buoi,

le sollecitudini per incrementare l’armento,

per le api frugali l’esperienza necessaria.

Da qui trarrò il mio canto”.

Sul mio comodino, non manca mai Seneca per la sua saggezza, Virgilio per la bella scrittura, Cesare per la possanza, Le Goff per la mia passione per il Medioevo. Al momento sto leggendo Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque e, contemporaneamente, La caduta di Roma e la fine della civiltà dell’archeologo inglese Bryan Ward-Perkins. Sarebbe il mio sogno iscrivermi a storia, a settembre. Anzi, sarebbe il mio sogno laurearmi in storia per scrivere un saggio sulla vita di mio nonno, capo della brigata partigiana Tasso, attiva in Alto Polesine durante la seconda guerra mondiale, e sulla vita di mia zia, Maria Bolognesi, in realtà cugina di mia nonna: è stata proclamata beata sette anni fa, alla cerimonia c’erano il vescovo e decine di prelati.

Alla fine i sogni sono tanti, ma tra il dire e il fare, si sa, c’è di mezzo il mare. Intanto mi concentro sulla terapia, sulle amiche e sulla scrittura, un trittico terapeutico. In questi vent’anni sono migliorata, sono più calma, più paziente, più riflessiva, più educata, le mie introspezioni sono molto più profonde e sento ormai di conoscermi bene. “Non sono la mia malattia”, come diceva Nietzsche. Anche il grande filosofo Nietzsche, appunto, è stato in manicomio, alla fine dei suoi giorni;  anche Van Gogh a Saint Remy; anche Alda Merini era bipolare, come noi ragazze della psichiatria, e ha subito pure l’elettroshock, che ora, per fortuna, non esiste più. E anche Oriana Fallaci, come molte di noi, ha tentato il suicidio con un’overdose di sonniferi, a Londra , per un misterioso giornalista, ed è finita da prassi in psichiatria. Troppo breve la vita per inchiodarla a una diagnosi. Se siamo stati creati a sua immagine, anche Dio non sarà scevro di qualche forma di nevrosi.

Loading

4 commenti »

  1. Se è una storia costruita è costruita bene. Se è una storia vissuta è ancora più notevole. Peccato qualche piccolo errore di stampa

  2. Buongiorno signora Gianna, si tratta di una vicenda autobiografica. Le do ragione, purtroppo, sul fronte errori di stampa, o refusi, ho la brutta abitudine di non leggere attentamente ciò che scrivo prima di spedirlo. Grazie, comunque, del complimento.
    Elisa

  3. Buonasera a tutti. Pur essendo consapevole che si tratta di un concorso letterario in cui uno dovrà/potrà emergere, mi piacerebbe comunque ricevere commenti: anche al vetriolo, anzi, sarebbero i più graditi! Perché sappiamo che l’Italia è il Paese in cui tutti scrivono ma nessuno legge. Ecco, appunto, mi interessa sapere, da gente come voi che ha la mia stessa passione – scrivere in generale – se il mio racconto risulti troppo lungo, troppo pieno di riferimenti culturali che lo appesantiscono facendo perdere, o meno, il filo del discorso al lettore. Questa è un’ottima arena per confrontarci e metterci alla prova.
    Grazie a tutti
    Elisa

  4. È una scrittura ricca e dimostra una grande cultura. Ho imparato molte cose leggendo il tuo racconto.
    Trovo magnifico il finale: Se siamo stati creati a sua immagine, anche Dio non sarà scevro di qualche forma di nevrosi.
    Continua ancora a scrivere, Elisa, e io ti leggerò ancora con piacere!

Lascia un commento

Devi essere registrato per lasciare un commento.