Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2020 “Bianca” di Valentina De Luca

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020

Bianca era cresciuta senza sapere cosa fosse un abbraccio vero.

Tutto quello che aveva conosciuto erano le braccia grassocce di sua madre che, soltanto quando lei le si gettava contro, si arrendevano a stringerla senza troppa convinzione.

« Mamma, mi vuoi bene? » le domandava allora, guardando dal basso i suoi occhi algidi.

« Certo, ma ora basta. »

Venne su da brava cristiana, come volevano i suoi. Prese tutti i sacramenti e andò in chiesa fino ai sedici.

Cosa ne fu del suo cuore?

Lo svendette, fin da subito.

Si abbandonò a storie tormentate – ubriaconi, nullatenenti, idealisti e artistoidi d’ogni categoria -, con cui non costruì niente e distrusse tutto. Ciononostante studiò con diligenza, si laureò col massimo dei voti, e trovò un bel lavoro da impiegata che le faceva schifo. Lo portò avanti per tre anni tondi e poi, il dodici ottobre 2017, non si presentò in ufficio, non avvertì il suo capo, e non inviò nemmeno la mail che da regolamento aziendale doveva pervenire all’Ufficio Risorse Umane entro le 10.00. Non si presentò e basta, né alla scrivania, né a casa per cena, né la mattina dopo.   

Così, alle 11.10 del giorno successivo sua madre Rosa, che non si era imbottita di sedativi solo perché aveva ancora in iper circolo quelli della nottata, andò a sporgere denuncia dai Carabinieri.

L’avevano chiamata Bianca e a lei era sempre sembrata una presa per il culo.

Cioè. Bianca odiava tutto quello che era bianco.

La neve.

La nebbia.

Le nuvole bianche la infastidivano, perché Bianca adorava la pioggia.

I vestiti bianchi le facevano venire il vomito, con tutta quella trasparenza senza senso. E che cazzo, se voglio farti vedere qualcosa mi spoglio, pensava.

La sua amica Rebecca, estetista, le aveva consigliato un ombretto bianco da applicare sulla parte interna della palpebra, perché ingrandisce gli occhi.

Bianca gli occhi se li impiastricciava di nero più nero del carbone e girava sempre con gli occhiali da sole: col cavolo che voleva ingrandire gli occhi.

Bianca li nascondeva, gli occhi.

Perché gli occhi sono lo specchio dell’anima, aveva letto sui libri.

E la sua anima erano cazzi suoi.

Rosa andò a rinchiudersi nel bagno della stazione dei Carabinieri di Nozzano Castello e prese a fissare la sua faccia nello specchio, imponendosi di restare calma. Doveva fare così quando qualcuno cercava di mettere alla prova i suoi nervi, doveva segregarsi da qualche parte, respirare, e convincersi che là fuori erano dei buoni a nulla e che non era colpa sua, no, non era colpa sua se quelli non capivano.

L’avevano fatta aspettare più di mezz’ora perché prima di lei c’era una marocchina (o tunisina, o indiana, o musulmana, tanto sono tutte uguali) che doveva denunciare il furto di una bicicletta. E poi, quando finalmente l’avevano fatta accomodare con tutta calma come se si trovassero nella sala d’attesa di un dentista, si erano messi a scrivere le generalità di sua figlia. Allora non era servito a niente il braccio di Gaetano che cercava di rimetterla seduta: aveva sbottato. La questione non era l’anagrafica, la questione era che la sua bambina era scomparsa, lo capivano o no?

Bianca non era una bambina, le aveva risposto uno sbarbatello che poteva essere suo nipote.   Bianca aveva ventisei anni.

« Avete litigato? Magari ha voluto fare una bravata? »

« Ha un fidanzato che non vi piace? »

« Fa uso di stupefacenti? Ha rubato dei soldi in casa? »

Rosa si asciugò la fronte e il collo sudati con l’unica cosa che trovò vicino a lei, la carta igienica. Aveva sempre nutrito rispetto per le Forze dell’Ordine ma adesso si rimangiava tutto. 

Quegli imbecilli avevano dato a sua figlia della sbandata e a lei – perché anche se non l’avevano detto era sottinteso – della madre incapace di fare la madre.

Era questa, solo questa, l’unica cosa veramente stupefacente.

Bianca odiava tutto quello che era bianco.

Eppure quando la vide per la prima volta, distesa sul piatto, in riga, accanto ad altre tre righe uguali, dritte e luccicanti come la lama di un coltello, si avvicinò.

« Questa è per te. » le disse Alfredo.

Bianca scrutava quella cosa più bianca del suo nome, più bianca della sua pelle, più bianca di quel capello bianco che le era comparso tra i riccioli e che Irene l’aveva convinta a non strappare. Era più bianca dei piatti di porcellana che sua madre tirava fuori per le occasioni speciali e sui quali le veniva sempre una gran voglia di sputare. Era più bianca di quel ghiaccio nel cuore contro cui non trovava rimedio. Più bianca dei cotton fioc che non sopportava infilarsi nelle orecchie. Più bianca dei suoi denti dopo quell’insulsa, insopportabile, odiosa igiene dentale cui i suoi la costringevano una volta ogni sei mesi. Quella cosa sul piatto era più bianca di tutti i bianchi che Bianca detestava e avrebbe continuato a detestare per i secoli dei secoli. Ma fu in quel momento, nell’esatto istante in cui prese dalle mani di Alfredo una banconota da cinque euro arrotolata e si avvicinò alla superficie liscia e ancora tiepida del piatto collezione Ikea, che Bianca capì.

Cioè non è che lo capì, ma lo intuì.

Lo sentì, lo percepì, lo immaginò come si immaginano le cose che non hanno ancora una forma, né una strada, né un perché.

Capì che il suo nome era quello e che non sarebbe potuto essere altrimenti.

Capì che c’era una ragione ben precisa, profonda, atavica, nascosta tra le righe del destino e dello sconosciuto, per cui si chiamava Bianca.

E capì che questa ragione non era altro che una fottutissima, merdosissima, bianca maledizione.

Rosa si rigirò nel letto e suonò il campanello tirolese che aveva ripescato da non si sa quale scatola di souvenir e posizionato sul comodino. Gaetano arrivò con la velocità e lo sgomento di un’infermierina missionaria al capezzale di un eroe di guerra moribondo.

« Portami la boccetta di EN » gli ordinò.

« Ma ne hai già prese trenta gocce… » si azzardò a rispondere lui.

La moglie gli ricordò che sapeva contare benissimo. « Non dormo, si vede che non bastano. »

Erano passati dodici giorni dalla scomparsa di Bianca. Gli ultimi sette Rosa li aveva passati a letto e non intendeva muoversi finché non gliela riportavano. Perché lei sapeva – le madri certe cose le sanno e basta – che Bianca era là fuori da qualche parte, e aveva lasciato il compito al marito, ai parenti, ai Carabinieri e a chiunque si offrisse di dare una mano di andare a cercarla.

Ma Rosa no, lei proprio non poteva, lei si rifiutava di uscire di casa. Per la prima volta in sessantasei anni aveva saltato anche la messa domenicale.

Ce l’aveva persino col prete.

Ce l’aveva con tutti, quella povera donna.

Perché erano circolate delle voci, delle voci oscene, vergognose, che era impossibile anche solo ripetere nella sua mente. E infatti lei voleva dormire, dormire e basta, così non c’era il rischio di pensarci.

Dicevano che forse Bianca si drogava.

Che l’avevano vista dare dei soldi a dei marocchini (o tunisini, o albanesi, o senegalesi, tanto sono tutti uguali) e poi nascondere qualcosa nel reggiseno.

Dicevano che forse era scappata con uno di questi qui, era diventata la donna di uno spacciatore per avere la droga gratis.

Rosa adesso sapeva che il mondo fuori dalla finestra della sua stanza non era quello in cui aveva sempre creduto di vivere: il mondo era cattiveria, invidia, e follia.

Bianca aveva un freddo micidiale. Soprattutto al collo. Non era mai stata senza una sciarpetta, nemmeno a Ferragosto. E non avere niente intorno alla gola la faceva sentire nuda. Più nuda di quella minigonna oscena rimediata rovistando nel cassonetto della Caritas. Vedendola si era detta che quello straccetto rosa con l’elastico slabbrato doveva essere appartenuto a una bambina, per forza. Era troppo piccolo, troppo rosa, e troppo ridicolo perché una donna potesse indossarlo.

Lei, poi. Lei non aveva mai osato una minigonna, mai nella vita.

Sua madre le aveva fatto notare già a dodici anni che le sue gambe erano storte ma subito l’aveva rincuorata dicendole che non importava perché la bellezza è quella dentro, mica quella fuori, e poi le donne sono belle anche con i pantaloni. Eppure adesso quel pezzettino di stoffa se lo teneva stretto addosso, e le copriva a malapena il culo schiacciato contro il muro.

Si sfregò con le mani le cosce nude e poi tornò a guardare la strada. Le auto passavano a velocità regolare, nessuno finora aveva rallentato. Bianca sapeva che se non si schiodava da quel muro nessuno si sarebbe accorto di lei. Ma ogni volta che aveva provato a fare due passi in avanti era tornata subito ad annullarsi lì, contro quel calcestruzzo che sembrava cartavetra sulla sua schiena scoperta.

Si aggiustò il reggiseno. Era troppo piccolo anche per le sue piccole tette.

Dio quanto vorrei una sigaretta, pensò.

Ma non ne aveva. Non aveva sigarette e non aveva soldi, e non li avrebbe avuti finché non si decideva ad avanzare fino alla linea continua che separava la carreggiata dal marciapiede e stabiliva quale sarebbe stato il suo ruolo in quella notte e nelle prossime a venire.

Una stella le disse che poteva rimanere bianca e povera, e una nuvola ribattè che poteva diventare nera e  puttana.

È solo la prima volta che è strano, poi ci fai l’abitudine.

Bianca ripensava alle parole di Samantha mentre seguiva con gli occhi gli ennesimi fari passare oltre e scioglersi nel buio della Provinciale.

Già. A Samantha non mancavano mai i soldi per la coca.

Coca.

Soltanto pensarla le fece venire la smania e azzardò un passo in avanti. Si girò su se stessa, alzò gli occhi al cielo nero e tornò ad appiccicarsi al muro.

Coca.

Bianca si cercò lo spigolo della spalla e con la scusa di un brufoletto cominciò a scorticarsela.

Pensava ai cristalli sulla pipetta.

A quanto era bello guardarli quando si scioglievano bene, e allora voleva dire che era buona.

Muoviti, si disse.

Si staccò dal muro e cominciò a fluttuare sul marciapiede.

Pensava al fumo che oscilla dietro al vetro, a quella nebbia infernale che ogni volta la trascinava in paradiso.

Nel frattempo un’auto si fermò proprio davanti a lei.

Bianca, persa nel suo sogno, si avvicinò al finestrino abbassato di una Fiat Punto color cielo sbiadito.

« Quanto? » si sentì chiedere da una voce roca.

Sbirciò all’interno.

Vide un vecchio con la barba sudicia e la faccia grassa, con gli occhi rossi e mezzi chiusi, che si sporgeva verso di lei.

Puzzava di vino e di formaggio.

La sua fronte era così lucida che ti ungevi solo a guardarla.

Non ce la posso fare, si disse.

No, non ce la faceva, non l’avrebbe fatto, non con lui.

Anzi, con nessuno, né ora né mai.

Fanculo alle sigarette, fanculo alla coca, fanculo a tutto.

Pensava a questo.

Se lo ripeteva a ruota in quella piccolissima porzione di cervello che le rimaneva lucida.

Cercò di convicersi che era bella. Magari non una strafiga, e di certo avrebbe potuto tagliarsi un po’ più spesso i capelli e curarsi le unghie.

Ma le sue gambe in fondo in fondo non erano così storte, e il suo viso non era niente male. Dimostrava meno della sua età. E aveva sbagliato lavoro, aveva sbagliato tutto ma si era presa una laurea e non era una stupida. Non aveva saputo scegliere gli uomini giusti, è vero, ma non era tutta colpa sua, anche il destino aveva fatto del suo peggio nel mettere sulla sua strada dei cretini. Però c’era ancora tempo. Poteva rimediare. Si ricordò dell’ultima volta che aveva pianto per amore, quando Vincenzo l’aveva mollata con una telefonata.

Era andata a cercare consolazione da sua madre.

Non sapeva da chi cazzo andare se non da lei, l’ultimo dell’anno all’una di notte. Fatti qualche domanda se ti lasciano tutti, si era sentita rispondere seguendola in bagno mentre, scocciata e con gli occhi abbottonati, si tirava giù le mutande e pisciava.   

« Settanta » mormorò con voce zoppa.

Il vecchio aprì lo sportello.

Bianca cercò la luna senza trovarla, e prima ancora di rendersene conto si ritrovò in macchina.

La Punto ripartì.

Rosa si versò venti gocce di EN nel bicchiere e si fece il segno della croce, perché ce l’aveva con tutti, ma non con Dio. Lui vedeva tutto e conosceva la verità. Dio sapeva che sua figlia non si drogava, perché un figlio non si droga se cresce in una famiglia per bene.

Si voltò verso Gaetano che, ancora sveglio, fissava il soffitto.

« Non è vero quello che dicono di Bianca, ho ragione? » gli domandò senza guardarlo.

« Hai ragione. » rispose lui con un filo di voce.

« E io non ho sbagliato niente, vero? Lo sai che non ho sbagliato niente. »

Gaetano chiuse gli occhi. « No Rosa, non hai sbagliato niente. »

L’uomo le dette le spalle.

Rosa spense l’abat jour e si addormentò.

Loading

15 commenti »

  1. VERY GOOD . Il racconto, ovvio. Bellissimo

  2. Raggiungo con piacere Laura Florio e a braccetto con lei mi unisco ai complimenti per questo racconto, scritto senza sconti ma senza cadere in facili eccessi. Con rispetto, oserei dire, per i due personaggi femminili che cercano soluzioni senza trovarle. La storia e la scrittura graffiano proprio come il calcestruzzo sulla pelle scoperta. Da ottimista non vedo nel finale una caduta senza appigli ma piuttosto un inverno che lascerà il segno ma che prima o poi dovrà passare.

  3. Grazie mille Laura e Marco per la lettura e per i bellissimi (e speriamo meritati) commenti!

  4. Marco Floridia volevo ringraziarti particolarmente per aver colto un aspetto a me molto caro: mi piace raccontare di personaggi che cercano, ognuno a modo suo, di riscattarsi. E poi, siccome la vita non è sempre un “e vissero tutti felici e contenti”, ammetto che il più che delle volte non ci riescono. Un grande abbraccio e un grande in bocca al lupo!

  5. Bello. Mi è piaciuto molto com’è scritto, alternarsi delle voci tra le due donne e le loro disperazioni.

  6. Grazie Giuseppe Fabrizio per il tuo commento. Vero, sono due disperazioni, anche se molto diverse. Quella di Bianca è legata a un’esistenza vera, quella di Rosa a una fittizia, incentrata sull’opinione che gli altri hanno (o devono avere) di lei. Un saluto e grazie per la lettura!

  7. MI piace, soprattutto i piani diversi in cui si svolge il racconto

  8. Ciao Alberto, grazie per il tuo commento. Sì, mi piace molto raccontare lo stesso episodio visto da occhi diversi. Questo, oltre a far emergere la personalità di più personaggi serve anche, a mio parere, a portare avanti la storia in termini di narrazione. Non ho ancora letto il tuo ma lo farò prima di sera. Intanto grazie e in bocca al lupo!

  9. Molto bello, Valentina. Realtà e illusioni si alternano, così come la rassegnazione e la lucidità di una frazione di secondo. Lucidità che, anche se fugace, c’è e lascia ben sperare.

  10. Ciao Pasqualina, grazie per la lettura e per il tuo bel commento. Se avrai voglia e tempo di rispondermi, ho una curiosità: perché sei portata a pensare che Bianca si riscatterà? C’è qualche elemento che te lo fa intuire o è “solo” una tua personale visione ottimistica della storia? Te lo chiedo perché non sei la prima che intravede questo finale, e la cosa mi incuriosisce molto. Ti sarei tanto grata se tu volessi rispondermi, ma lo sono già per il tempo che mi hai dedicato. Vado a leggerti! Un abbraccio.

  11. Carissima Pasqualina, l’hai soddisfatta in pieno e ti ringrazio. Non solo per la risposta, ma anche per la tua analisi: sei una persona che non legge solo le righe ma anche in mezzo, e questo è ciò che ogni scrittore (o aspirante tale) si augura quando si apre al confronto con un lettore. Ti rinnovo il mio in bocca al lupo e non mancherò di leggere anche gli altri racconti che ho visto hai pubblicato nelle scorse edizioni, sicura che mi daranno le stesse emozioni di questo. Un grande abbraccio e grazie a te!

  12. Con la velocità del bradipo mi accorgo delle allitterazioni nel tuo incipit. Bene.
    Ciao.
    P:S.
    Il tuo bel commento che mi avevi lasciato è evaporato nell’etere informatico. Mea culpa.

  13. Ciao Piero, in questo caso confesso che sono casuali. Deve essere la deformazione da poetessa incallita…

  14. Fin dalla prima riga, l’autrice t’acchiappa per il naso e ti si porta appresso come un vecchio paltò, regalando emozioni à gogò.
    Appena si decide a riappoggiarmi coi piedi a terra e a levarmi le dita dalle narici, le farò i dovuti complimenti!

  15. Caro Leonardo Schiavone, grazie per questo bellissimo commento. Una parte mi me mi porta a pensare che sia fin troppo lusinghiero, ma l’altra mi riempie di orgoglio; perché se davvero in poche righe (il limite e la forza del racconto è la sintesi) sono riuscita a portarti in un mondo appena accennato ma che io vedo benissimo, significa che ho fatto centro. Non c’è riga più bella che tu potessi scrivermi. Grazie!

Lascia un commento

Devi essere registrato per lasciare un commento.