Premio Racconti nella Rete 2020 “Parco della Luna” di Alberto Silva
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020La ruota panoramica si fermò all’improvviso come se avesse ubbidito ad un ordine perentorio, ma nessuno se ne accorse. La folla sembrava impazzita: i bambini si affollavano ai banchetti dello zucchero filato, dei pop corn, delle patatine e dei torroni, i giovani erano impegnati a mostrare muscoli e abilità per stupire le ragazze leggiadre agghindate per la festa e colpivano con pugni terribili i punching ball per vedere chi era il più forte, chi segnava il valore più alto di potenza.
Dalle cabine della ruota panoramica si vedevano le luci del cinema multisala, del centro commerciale poco distante, i quattro enormi generatori a pale con le luci lampeggianti rosse del “parco eolico”, il fiume e le sua anse fino all’immissione nell’Arno e tutto quello che restava della “città delle ciminiere” e della sua archeologia industriale. L’intera area della fabbrica delle Vespe, dei velivoli e degli elicotteri era stata ristrutturata nel tempo, così come l’aeroscalo con i giganteschi hangar, rifugio per i dirigibili della Regia Marina.
La notte stava conquistando il piazzale del luna park e si accesero all’improvviso le luci alogene della struttura perché la festa potesse continuare, allegra e luminosa come era stata quella giornata.
Dal punto più alto della grande ruota panoramica ancora ferma lui, da solo nella cabina, si sfilò il lungo zaino e ne estrasse un panno scuro che custodiva la sua carabina di precisione, quella più adatta alle piccole distanze, già in assetto di tiro con il mirino telescopico aggiustato ed il primo colpo in canna. La prese e la posizionò sulla spalla destra, si appoggiò ai braccioli della poltrona, regolò il poggia-guancia e prese la mira in direzione della galleria degli orrori inquadrando con precisione la porta scorrevole dell’uscita. L’illuminazione adesso era perfetta. Era la prima volta che si trovava in questa città, ma ne aveva sentito tanto parlare dal padre che nei primi di novembre del 1966 fu testimone di un terribile evento, quando i fiumi Era e Arno in piena erano usciti dal loro letto ed avevano sommerso la cittadina con acqua, fango e detriti: una vera catastrofe.
Vlad, che era il suo nome di battaglia, era stato assunto in fretta e furia dal socio di minoranza della struttura viaggiante Parco della Luna, John Lupi: un lavoretto veloce, semplice, senza troppo impegno e con minimo spargimento di sangue. Si erano incontrati una settimana prima su una panchina accanto alla fontanella del parco di villa Crastan e gli accordi si erano limitati all’essenziale: John avrebbe organizzato i tempi e definiti i passaggi necessari, coordinato i movimenti degli impianti di divertimento, le interruzioni di corrente, l’illuminazione necessaria e tutti gli aspetti tali da creare l’ambiente giusto per la buona riuscita dell’operazione. Lui, Vlad, avrebbe pensato al resto.
La sua cabina aveva smesso di oscillare: sentiva i botti dell’autoscontro, le urla dei ragazzi eccitati e spaventati sul Tagadà e sulla Montagne russe, i colpi secchi delle carabine del tiro al bersaglio, l’olezzo dei popcorn, della patate fritte che gli piacevano così tanto, dello zucchero filato, degli hamburger bruciacchiati. Era il momento giusto.
La ruota panoramica sarebbe ripartita da lì a quattro minuti, il tempo giusto perché il signor Freddy Volpi, direttore e socio di maggioranza dell’impresa di divertimento, uscisse dal tunnel degli orrori a bordo del trenino assieme ad un gruppo di possibili acquirenti del luna park, facoltosi asiatici, forse cinesi.
Era da due giorni che Freddy tentava di irretirli, stupirli, per concludere l’affare ma John Lupi non era d’accordo sulla vendita del luna park. Il maledetto Freddy Volpi aveva scarrozzato per la città i potenziali clienti utilizzando certamente la cassa comune, li aveva invitati nei ristoranti tipici e in qualche club privè della zona per allentare la tensione e favorire il clima relazionale atto alla buona riuscita dell’operazione. Se l’erano goduta quindi anche con i suoi risparmi, pensava John Lupi e questo lo faceva infuriare ancora di più.
Freddy aveva fatto provare ai cinesi le emozioni più forti offerte dalle numerose attrazioni del Parco della Luna, dalle montagne russe ai calcinculo, dal tagadà alla “piovra” fino all’autoscontro.
Il tunnel degli orrori sarebbe stata l’ultima esperienza di tutte le giornate piene di emozioni che il direttore del parco aveva offerto al team di imprenditori; poi sarebbe uscito a cena con Dasha, quella giovane e leggiadra artista circense che da tempo insidiava e che pareva accettare il suo corteggiamento, sebbene fossa già accasata. Aveva in serbo ancora delle sorprese per gli imprenditori e non appena il trenino avesse varcato l’uscita, Freddy avrebbe fatto esplodere i quattro preservativi gonfi e pieni di ketchup che teneva appesi sotto all’ampia giacca per simulare una morte violenta dopo il passaggio accanto all’ologramma della morte con la falce, ultimo personaggio della galleria degli orrori. Sarebbe stata la ciliegina sulla torta, la salsa di pomodoro sulla patatina, un’emozione inaspettata per gli asiatici e l’adrenalina sarebbe scorsa a fiumi.
Aveva preso precisi accordi con un clown, un pagliaccio, che lo aspettava all’uscita per rendere ancor più forte ed inaspettata l’esperienza.
John Lupi, il suo socio, si trovava invece alla consolle di comando del grande parco dalla quale si potevano gestire gli impianti, fermare e far ripartire la ruota e altri divertimenti, controllare dai monitor anche il passaggio del trenino nella galleria degli orrori.
Era dai monitor che John si era accorto che negli ultimi tempi il suo socio Freddy faceva lo scemo con sua moglie, Dasha, che lavorava come trapezista al circo Millanthium e come cubista in quel club privato vicino ad Altopascio: era una cosa che non sopportava assistere in diretta al corteggiamento della giovane consorte che sembrava non disdegnare delle attenzioni di quel porco.
Vlad avrebbe colpito Freddy con tre proiettili corazzati e non poteva sbagliare: era un tiratore scelto, un cecchino, un professionista che aveva dato prova del suo valore in Kosovo, in Iraq, Israele ed in altri scenari di conflitto dove si era guadagnato una certa fama. A dir il vero era specializzato nel colpire alle gambe e ferire gravemente gli obiettivi: un ferito crea al nemico più danni di un morto ed espone altri soggetti ad uscire allo scoperto offrendo a lui la possibilità di sparare ad altri avversari. Non aveva mai ucciso sul colpo, se non per errore. Adesso invece doveva “freddare” il direttore Freddy Volpi ma si trattava solo di un gioco, di una sciocchezza senza pericoli, niente a che vedere con i suoi scenari abituali di conflitto dove il rischio della vita era elevatissimo. Non era certo una vita tranquilla la sua e non poteva permettersi di perdere tempo o rilassarsi gustando un sacchetto di patatine fritte al luna park, come gli sarebbe piaciuto. Erano sempre state il suo cibo preferito e l’odore intenso dell’olio bruciato lo faceva impazzire, ma doveva darsi un contegno: prima viene il lavoro, la patatina dopo.
Finalmente il convoglio dell’orrore uscì allo scoperto, in frenata sulla fine corsa del tunnel dopo il transito nella galleria: Vlad ebbe un attimo di esitazione per l’emozione di questa nuova esperienza ed esplose i tre colpi un po’ in ritardo quando il trenino era già fermo. La ruota panoramica riprese all’improvviso il movimento che lo fece caracollare e sbattere la testa nella struttura metallica: fu scaraventato fuori dalla cabina e dopo un lungo volo cadde sull’enorme banchetto delle patatine fritte e nessuno si scompose poi tanto nell’euforia che pervadeva i visitatori del Parco della Luna.
La folla sembrava impazzita, i bambini si affollavano ai banchetti della zucchero filato, dei torroni, delle patate fritte, i giovani facevano i gradassi con le giovani più belle della città. Il signor Freddy Volpi giaceva sdraiato nel primo vagone del trenino immerso in un bagno di sangue che pareva essere una salsa di ketchup e pomodoro messicano. Mentre gli ospiti asiatici, inzaccherati anch’essi di rosso si guardavano attorno tra lo sgomento ed il divertito, un clown si avvicinò al vagone e iniziò a piangere inzuppando le patatine fritte che aveva in un sacchetto nel falso sangue del direttore del parco.
Mentre gli asiatici ridevano adesso certi dello scherzo, il pagliaccio che faceva il verso di gustare la patatina inzuppata, come da programma stabilito, pensò: “ma che cazzo di salsa di merda ha usato questo coglione, sa di ferro, di ruggine!”. Si sentiva il rumore dell’autoscontro, le urla dei ragazzi eccitati sul Tagadà e sulla montagne russe, i colpi secchi delle carabine del tiro al bersaglio, l’olezzo dei popcorn, della patate fritte, dello zucchero filato, delle salse di pomodoro piccanti dal sapore dolce ed acre come il sangue. La notte aveva preso possesso del Parco della Luna.
Intrigante la storia e direi ottimo il ritmo, che scandisce molto bene il tutto, in particolare le scene finali, in cui, alla stregua di un film, si alternano risa e sangue. Una sorta di grande metafora di come la società odierna ignora il dolore altrui, se distratta da sollazzi e leggerezza. Mi piace anche la scelta dei nomi dei protagonisti! Bravo Alberto!
Molte grazie Silvia, la vita è un luna park.
Coinvolgente e inaspettato. Ci accoglie nell’atmosfera festosa di un luna park per poi portarci, gradualmente, in una situazione del tutto inaspettata. Il passaggio dall’imbrunire alla notte accompagna sapientemente lo sviluppo della storia. Il retroscena è descritto in pochi chiari passaggi che, senza appesantire la narrazione, le forniscono il necessario contesto. Molto bello!
Grazie Giada, i luna park nascondono sordido intrighi. Grazie di nuovo