Premio Racconti nella Rete 2020 “Calabria” di Rachele Avagliano
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020Il riverbero sordo e penetrante di un motoscafo in lontananza si innesta sul suono prolungato di risucchio a denti stretti e dell’andirivieni di mille pietruzze che scorrono dentro cilindri cavi di bambù. Apnea. Più in profondità, dove il blu volge al cobalto e l’acqua è più fredda, i movimenti lenti e fluidi sono spezzati da uno spasmo improvviso a cadenze regolari. Attraverso la patina acquosa sugli occhi socchiusi, la pelle ha un aspetto traslucido e i lunghi capelli neri sciolti descrivono un andamento sincopato rispetto al corpo, si allungano e si ritraggono, si gonfiano e si distendono. Con la spinta dell’addome inarco la schiena con le braccia distese e la testa riversa all’indietro, poi richiamo le gambe al petto in posizione fetale per completare il giro. Ben fatto. Il fondale giace noncurante delle mie evoluzioni; mi affascina e mi inquieta mentre osservo i suoi relitti custoditi come piccoli tesori sommersi, reliquie immobili testimoni del tempo.
Ancora più giù, dove la luce filtra appena.
Sfioro con tutta la lunghezza del corpo il fondale sabbioso, come se stessi distesa, per l’istante concesso, su di un tappeto millenario, setoso e impalpabile, dalle sfumature caraibiche e intessuto di fili argentati e cangianti. A contatto con i palmi, con la guancia e il petto, una nuvola di polvere dorata si solleva rimanendo per un tempo indefinito sospesa, sorpresa e indecisa, per poi depositarsi lentamente e ricompattarsi in sonnolente venature sinuose. Potessi qui riposare in eterno. E’ meraviglioso.
Le tempie premono, il battito rallenta. Non posso trattenermi oltre; affondo le dita e stringo la presa nel suolo che si sfalda come uno strato di sottili fogli di carta bruciata. Un pugno di sabbia. Come la contromarca nelle gare di immersione che mio fratello maggiore ogni tanto disputava al largo con i suoi amici. Un pugno di sabbia…Dopo alcune stime discordanti circa la profondità del fondale in questo o in quel punto, quella volta la discussione tra il gruppo di adolescenti era diventata più concitata ed eccitante, allorché vennero definite le regole della prova di virilità e qualcuno lanciò la sfida: “non ce la farai”. Un guizzo nei suoi occhi. Conoscevo fin troppo bene quella luce e quel ghigno, ma la situazione precipitò troppo rapidamente perché potessi provare a dissuaderlo in qualche modo. Così vidi mio fratello scomparire sott’acqua per lunghi, interminabili secondi. Rimasi a fissare il punto in cui lo avevo visto per l’ultima volta con l’ansia che mi attanagliava la gola, le labbra premute, le lacrime dietro alle palpebre. Gli altri ridevano, schiamazzavano, facevano pronostici sull’esito. Io tacevo paralizzata nello sconcerto del vederli imperturbabili e indifferenti di fronte alla tragedia che si stava consumando. Bruciavo dentro e colavo odio dagli occhi socchiusi. Certo, sapevo bene che mio fratello era il più forte di tutti (secondo solo a mio padre) ma quella volta, impressionata dalle cifre riguardanti la profondità – si parlava di duecento metri e di uno squalo – quella volta ero sicura che non ce l’avrebbe fatta. Ed era colpa mia, che non l’avevo trattenuto. Mio fratello, piuttosto che ripresentarsi con un pugno di mosche in mano e ammettere il fallimento, sarebbe colato a picco. Sapevo anche che non mi avrebbe ascoltato comunque, infastidito e seccato dalla sua sorellina sempre intorno che vuole stare con i grandi, e che forse gli ricorda di essere ancora piccolo. Ero certa che mi odiasse, ma io non potevo fare a meno di ammirarlo, amarlo e volerlo proteggere. Avrei dovuto fermarlo, non curandomi dei suoi insulti e del suo disprezzo. Avrei potuto impedirglielo, chiamando a gran voce la mamma. Avrei voluto dirgli…
La sua testa alla fine emerse dall’acqua. Esplose in un respiro affannoso mentre a malapena riusciva a tenersi a galla, all’altezza del mento. Il chiacchiericcio si interruppe e tutti, con lo sguardo in una sola direzione, attendevano il responso. Mio fratello tirò faticosamente un braccio fuori dall’acqua e mostrò il pugno chiuso. Poi sabbia, sollievo, orgoglio.
Sento i polmoni infiammarsi. Mi volto e supina risalgo passivamente godendo della superficie del mare da quella prospettiva inusuale, e della luce, che attraversa il sottile strato di vetro increspato e tremolante. Sempre più vicino, finché il pelo dell’acqua si lacera sulle cornee.
Ossigeno. Vertigine. Voci.
Mia madre mi osserva preoccupata dalla riva. Rimango per po’ a galleggiare nella posizione del morto, con gli occhi chiusi, immobile. Ho solo dieci anni, e lei non sa nuotare. I tempi delle mie immersioni si sono notevolmente allungati, così come la profondità che riesco a raggiungere. La immagino misurare in silenzio i secondi trascorsi, scrutando le bolle d’aria che risalgono a galla e indecisa sul limite oltre il quale è opportuno dare l’allarme. Ancora un po’. Persevero in quel gioco crudele finché sento il suono del mio nome attutito dalle orecchie tappate. Decido che può bastare. Apro gli occhi, alzo un braccio e le sorrido; mamma ricambia titubante il saluto e voltandosi più volte indietro torna sotto l’ombrellone.
Sono le sei del pomeriggio e la luce di sbieco tinge il mare di ceruleo e di acciaio, mentre alcuni bagnanti vicino a riva avanzano con l’aria distratta di pochi passi, con prudenza e senza fretta, verso l’interno. Altri descrivono il perimetro del bagnasciuga passeggiando adagio in direzione perpendicolare alle onde, con la schiena dritta e lo sguardo fisso all’orizzonte. Impaziente osservo il mio bottino: sabbia marrone grigiastra puntinata di granelli più scuri, compatta e fangosa. Immergo la mano in acqua affrettandomi a farla scorrere tra le dita. E’ troppo tardi. La contemplo dissolversi come Euridice agli occhi di Orfeo e seguo la diaspora dei granelli mentre lentamente precipitano privi di vita sul fondo. Perduto per sempre, il sacro mondo subacqueo.
Il rapporto con l’ambiente marino è coinvolgente nella sua semplicità grazie alle descrizioni e al ritmo della prosa a mio avviso perfetti.
Emozionante e al tempo stesso tenera l’emulazione del fratello nell’immersione.
La fine della giornata col saluto al “mondo subacqueo” rimanda alle giornate trascorse al mare da bambini e a quell’infinito “arrivederci” alla spiaggia. Brava!
Bel racconto dove si percepisce la cura del dettaglio e la ricerca puntuale della parola. Tutto questo contribuisce a far entrare il lettore in una dimensione alternativa, costringendolo a lasciare la sedia e a tuffarsi in questo “mondo sommerso” visto con gli occhi di una ragazzina e descritto con un linguaggio da scrittore consumato.
Grazie, davvero. Questo è uno dei miei “frammenti”. Li chiamo così. Incompleti, imperfetti, ma che ho piacere di condividere. Grazie.