Premio Racconti nella Rete 2020 “Trascurabili residui” di Giuseppe Fabrizio Ernesto Coco
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020– Non posso più uscire. Vedo solo ciò che mi appare dalla finestra. –, dal giorno in cui lo hai detto, in me qualcosa è cambiato. Adesso il mio sguardo è attirato da ciò che vede. Mezza banana gettata sul marciapiede da poco: è ancora chiara, si vede il segno del morso. Un paio di scarpe di cuoio nere usate, ma in ottime condizioni, sono abbandonate su una panchina. Questo semaforo pedonale ci mette una vita a scattare. É di moda, ma trovo pacchiano l’accoppiamento pantaloni neri e scarpe bianche. Le odio! Mi ricordano quando ero allievo infermiere. Erano consumate e scadenti, poi mi puzzavano i piedi, lessati nei calzini di spugna.
Risposi a un numero che non avevo in rubrica:
– Ciao, ti ricordi di me?
– No. Chi sei? – Mi ostino a rispondere ai numeri che non sono registrati. Spero che mi comunichino buone notizie. Invece eri tu che mi cercavi dopo decenni:
– Mi si è manifestato il tuo profumo, sapeva di fresco, ho visto la marca e ho deciso che ti avrei cercato. Ora non ho nulla da perdere. Non faccio che pensare al passato. Ricordare a volte è dolore.
Ti dissi:
– Anche io ricordo, però diventa doloroso solo se ne parlo.
Ho provato a far riaffiorare dalla memoria come eri: ricci paciosi, occhi verdi e sguardo sempre afflitto, come certe figure della pittura fiamminga. Il resto è evaporato. Ho provato a immaginare come potresti essere adesso. Non riesco, per me sei un’estranea. Forse per te sono stato importante.
Minchia, mi perseguiti con messaggi che hanno sempre lo stesso tema: Voglio sapere, Non puoi aver dimenticato tutto. Invece non ricordo molto. Avevamo vent’anni, 1989. Ero grasso. Ero infelice. Ero stupido. Indossavo le Dr. Martens, camicie bianche, jeans e profumavo di Cool Water. Tu vestivi seria, da universitaria. Oggi si usano queste scarpe terrificanti che paiono la rivisitazione di calzature ortopediche, hanno la zeppa squadrata e i brillantini che luccicano.
Rivolesti indietro i regali che mi avevi fatto: I versetti satanici, Salman Rushdie, libro Mondadori; Angelo Branduardi, Pane e rose, audiocassetta Polydor, e, altre cose che non ricordo. Ti dissi che i miei potevi tenerli o forse li ho ripresi e poi buttati.
Eri troppo seria, pesante con la fissa delle poesie. Non l’ho mai capita la poesia, arrivavo a Emily Dickinson, Alla parola «fuga» Mi si accelera il sangue. A te piaceva Ignazio Buttitta, Parru cu tia, to è la curpa. Io rinnegavo il dialetto. Ascoltavi solo musica italiana, Mina, Mia Martini, De André. Io ascoltavo David Sylvian, The Blue Nile, mi piacevano i testi di Battiato anche se non ci capivo niente: mi facevano evadere.
Un canino impettito e ingrigito come il suo padrone è seduto nel cestino anteriore della bici. Fende l’aria con il muso a punta. Gente già in fila per entrare in un negozio di telefonia. Vecchi pensionati spiano operai sudati che con calma ritmica eseguono dei lavori stradali, muovendosi come se nessuno fosse intorno.
La suoneria strilla, vorrei non risponderti. La mia compassione ha il sopravvento.
– Perché chiami?
– Perché sono malata. Dentro.
– Mi dispiace. Fuori dal lavoro sono incapace di consolare, è meglio che non ci sentiamo più come abbiamo fatto in tutti questi anni.
– Non puoi sparire così. Voglio sapere.
– Non avevo voglia di mettere su famiglia. Volevo vivere. Avevo già una famiglia pesante. Forse non ero maturo.
– Ho bisogno di vederti.
– Ma io non vengo più a Catania da quando è morta mia madre, cinque anni fa.
– Hai un’ottima occasione per tornare.
– Non puoi dirmi cosa devo o non devo fare.
– Sì, è vero, adesso sono un’estranea. Me lo devi e sai perché.
Riattacca.
Nella mia esistenza caotica ci mancava solo lei.
Basta, hanno rotto le palle questi in bicicletta che vogliono avere sempre la precedenza. Sono arroganti, si credono nel giusto ed ecologici anche rispetto a me che vado a piedi. Si sentono la coscienza a posto. Poi vanno a mangiare il panino prosciutto e formaggio o la fettina, dimenticando che la prima fonte d’inquinamento sono gli allevamenti.
Mi stai martellando di chiamate:
– Ciao, ti ricordi i pomeriggi in cui non avevo lezione?
– Vagamente. (In realtà non ricordo nulla!)
– Andavamo in macchina lungo la scogliera. Rimanevamo dentro la tua Panda di seconda o terza mano che odorava di terra umida e di deodorante dolciastro per auto. Senza dirci nulla iniziavamo a pomiciare. Dai finestrini appena abbassati s’intrufolava l’odore di alga putrefatta e uovo marcio. Il suono del mare incazzato che s’infrangeva sugli scogli di lava accompagnava i nostri mugolii. Le tue mani impacciate sganciavano il reggiseno. I peli rasati, ma duri del tuo viso irritavano la mia pelle.
Ora ricordo: due palloncini mezzi sgonfi, poca cosa rispetto a quelle mammelle di madre e sorelle che transitavano per casa. Mi piaceva insinuare le dita sotto il vestito e scostare gli slip ed esplorare la tua passerina immacolata. Mi piaceva stimolarla e vederti ansimare mentre ti baciavo i seni. Mi ricordo il dolore che mi procuravano i peli pubici tirati dall’uccello eccitato e della tua mano che maldestramente provava a masturbarmi. Di questi particolari che stanno affiorando non faccio cenno, invece ti dico con un certo distacco:
– Facevamo le cose che facevano tutti i fidanzatini.
L’odore del vapore di interiora bollite e sangue rappreso che arriva dal trippaio, lo trovo stomachevole. È lo stesso che sentivo a Catania in quei baracchini che cuocevano ‘u sangeli, a Palermo in quelli che preparavano i panini câ meusa o i food truck di Berlino che vendono wurstel. C’è un passeggino doppio con due gemelli orientali: anche loro ricorrono all’inseminazione?
Minchia, avevo dimenticato: prima di lasciarti eravamo oltre la macchina. Andavamo a casa mia quando era libera. Avevamo deciso di usare la pillola. Poi quando accettai il posto a Torino mi dicesti: – Ho un ritardo. – Ma non prendi la pillola? – A volte la dimentico.
Dalla voce capii che mentivi: troppo bigotta.
Non volevi, ma ti convinsi ad interrompere la gravidanza, a ruota, la relazione. A vent’anni eri già vecchia: pensavi di fare tre, quattro figli.
Chiami, rispondo, indispettito riattacco.
Le pozze schiumose di catarro scivoloso, che la gente lascia lungo il marciapiede, fanno schifo. Una sedia con lo schienale di legno e il sedile imbottito di pelle scolorita è abbandonata difronte a un cassonetto dell’indifferenziato, aspetta che qualcuno la raccolga per destinarla a nuova vita.
– Ma poi hai tirato su tutti quei figli che volevi?
– Solo uno. Era anche malato.
– Mi dispiace.
– Di cosa? Cosa c’entri tu? Aveva la Distrofia di Duchenne. Me lo sono visto morire. Non sono più la stessa. Adesso è tardi, non ho più la forza per provare ad averne altri. E tu?
– No. Neppure uno. Non sono arrivati e io non mi sono accanito.
– Quando arrivi?
– Non deciso di partire.
– E allora fallo in fretta.
Le sentivo la voce impastata, ansimava come se avesse fatto uno sforzo imponente.
– Riposati. Stasera ti dedicherò dei Mantra, magari ti aiuteranno a dormire meglio.
– Non ha senso. Devo vederti.
Nelle sue parole percepisco stanchezza e sofferenza.
La sera medito, poi tra i fumi delle resine legnose dell’incenso tibetano, recito il Mantra del Buddha della Medicina e sgrano i semi del rosario. Dedico tutto affinché possa lenire la sofferenza e stare meglio, poi guardo i voli. Ho dei giorni da prendere. Non so perché, ma mi sento in colpa.
Aspetto, che ti palesi, lo fai ogni giorno, così posso dirti quando arriverò. Una signora di una certa prestanza fisica sfoggia una t-shirt nera in cui in rosa shocking è scritto: il vero lusso? L’intelligenza. E sotto la firma Karl. Indossa una gonna di tulle con applicati dei pois di panno colorati. Non è il massimo dell’eleganza, anzi direi che rappresenta il minimo del buongusto. Controllo il cellulare, nessun segno. Ti stai facendo desiderare. Mi fermo a mangiare in un bar, mi arrivano bocconi di conversazione: compassione ed empatia sono diventate parole da intrattenimento.
Telefono silente: di mattina la cosa mi irrita, nel pomeriggio mi preoccupa.
La sera sento il bisogno di uscire. La zona limitrofa il centro pullula di macchine strombazzanti e gente che parla e ride. Attraverso Piazza Santa Croce, dei ragazzi già alticci, seduti sulle scale della chiesa, chiacchierano con discorsi a vanvera. Sento uno che ripete agli amici – Ma non è solo quello – è già la sesta volta che lo ripete, ogni volta con un volume un po’ più alto. Avrei voglia di urlargli: Ma se non è solo quello, che altro c’è?
Sono le 21, decido di telefonarti, non sei mai stata tanto latitante. Non rispondi. Continuo a camminare.
In fondo vivo una vita vuota, così come probabilmente sarà quella di quei tizi, fermi al semaforo, nelle loro macchine. I volti colorati a chiazze dai lampioni e dagli schermi degli smartphone: qualcuno parla, altri chattano.
Sono convinto che le persone, che vociano e ridono in quel bar luccicante, dove anni fa c’era una libreria famosa, quando torneranno a casa sentiranno il vuoto della loro esistenza. Mentre spengono la luce, dopo essersi lavati i denti, prima che il sonno s’impossessi di loro, per un attimo sentiranno l’inutilità della loro esistenza. Daranno la colpa alla stanchezza o allo stress.
Ascolto musica dagli auricolari, lo facciamo in tanti, siamo come spiriti in cerca di vitalità. Crediamo di essere speciali, ma siamo copie scialbe.
Sono già sette giorni che non ti fai sentire e sento un vuoto.
Un paio di estintori polverosi sul marciapiede, accanto una bottiglia di birra e una di vino, vuote, più avanti una mela golden morsicata e ammaccata da una parte. Oggi il cielo è terso. Chissà cosa volevi veramente.
Originale la tua scrittura. Bel racconto ricco nelle descrizioni di luoghi e situazioni.
Saverio ti ringrazio del commento.
Ruvido e verace. Apprezzo l’impatto dato dalle descrizioni accompagnate alle sensazioni fisiche. La crudezza della vita e della relazione è ben resa, risuona “arsa” e aspra come l’ambientazione.
Grazie Alessandro per il bel commento.
Ciao, mi è piaciuto molto il tuo racconto. Mi piace il tuo stile di scrittura quasi “cinematografico”, la capacità che hai di far vedere le cose senza limitarti a raccontarle. Mi piace la costruzione, l’alternanza tra descrizione, riflessione, e azione. E anche le immagini che usi per descrivere l’ambiente. Mi piace il ritmo, e anche il finale. In bocca al lupo per il concorso!
Ciao Valentina, grazie per il commento articolato.
Bravo Giuseppe, hai reso molto bene la drammaticità delle relazioni umane che si chiudono. D’altra parte lasci al lettore una certa libertà di interpretazione (o sono forse io che la vedo così): lei dopo la loro separazione si trova a lottare con una scia di sofferenza che la distrugge. Ma l’aspetto (a mio avviso) ancora più triste dal punto di vista umano, è che lui ha scordato tutto, o quasi, di lei. Vent’anni trascorrono per i due in modo totalmente diverso e non è solo una questione di sentimenti più o meno intensi da parte loro, ma una più importante questione femminile…Hai suscitato una serie di riflessioni che rischia di portarci lontano, perciò mi fermo qui e ti faccio i miei complimenti.
Ciao Pasqualina, grazie del commento e della tua analisi. Il tempo tra due trascorre in modo diverso è vero, specialmente se poi sono un uomo e una donna che hanno avuto una relazione.
Sentimenti, pensieri e ricordi che affiorano tra odori e umori. Una storia condotta senza falsi pudori, un amore imperfetto, molto molto umano.
Grazie Monica del tuo commento!
“Mentre spengono la luce, dopo essersi lavati i denti, prima che il sonno s’impossessi di loro, per un attimo sentiranno l’inutilità della loro esistenza”. Bellissima descrizione dell’epifania del vuoto dell’esistenza. Così come le molte immagini frammentate del “decadimento”, di sapore eliotiano. Bello.
Grazie Rachele del commento!
Mi è piaciuto molto. A volte troviamo che ciò che ci infastidisce è diventato indispensabile… ma a quel punto, spesso è troppo tardi. Questa sensazione è ottimamente descritta dal tuo racconto. Bravissimo.
Grazie Michela del commento.