Premio Racconti nella Rete 2020 “Un film di Eisenstein sulla rivoluzione” di Mattia Nocchi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020Bruno mi serviva nella band perché poteva suonare al mio posto la batteria. Ci vedemmo un inverno intero, solitamente nel primo pomeriggio, lo portavo in sala prove e lo tenevo a mollo nel quattro quarti fino quando mi implorava di smettere, mostrandomi i polpastrelli ricoperti di vesciche.
Bruno era una specie di cugino di secondo grado, di cinque anni più piccolo di me, che da Roma era venuto a vivere al paesello da un paio di mesi, una volta scomparso il padre. All’epoca aveva pochi amici, una galassia di brufoli in fronte e girava per le vie storte della nostra mezza campagna in bicicletta, mentre tutti i suoi coetanei erano passati da almeno tre anni al motorino. Sua madre/mia zia, mi chiese di prendermi cura di lui, farlo distrarre un po’, farlo uscire di casa. Così gli passavo le cassette da ascoltare – non aveva nemmeno il lettore per i compact disc – mi soffermavo sull’importanza di preferire i Rolling Stones ai Beatles, i suoni sgraziati ma sinceri del punk, rispetto alle band hair metal che spopolavano in provincia e gli insegnavo a suonare la batteria. Lui accettava i miei consigli, si prendeva le cassette, e me le riportava dopo una settimana infilando una breve recensione dentro la custodia, senza mai strafare nelle bocciature.
Un pomeriggio di agosto, dopo che ebbe passato con successo la maturità, mi venne a suonare a casa. Stavo guardando Ottobre di Eisenstein, in VHS. Bruno si sedette sulla poltrona, guardava me e lo schermo, lo schermo e me e poi daccapo, in sequenza. Mia madre ci servì delle limonate su un vassoio d’argento.
«In bianco e nero?»
«Certo.»
«Muto?»
«Sì.»
«Russo.»
«Eh, già.»
«Perché? »
«Devo fare una tesina di storia del cinema, ho scelto Eisenstein.»
Nello schermo, Kerenskij è il pavone.
«Sai che ho sempre pensato che la presa del Palazzo d’inverno fosse a Mosca? Invece è successo a San Pietroburgo.»
Il montaggio verticale. Kerenskij è Napoleone.
«Ma cosa? »
«La rivoluzione d’ottobre. »
«Non me ne intendo di queste cose da comunisti.»
«E’ cultura generale, non c’entra la politica» e gli detti un buffetto sulla testa.
Da qualche mese Bruno aveva preso il mio posto alla batteria nella band. Non aveva la mia fantasia nei fraseggi, ma la tecnica di base era buona. D’altra parte, Ernesto era stato categorico: «Passi alla chitarra solo se ci trovi un batterista cazzuto. Non decente, cazzuto». Era in fissa per Leon, usava “cazzuto” per tutto. A settembre avevamo aperto un concerto degli Assalti Frontali al Festival di Acquaviva e sulle magliette il nome della nostra band si trovava a sole tre righe di distanza da Francesco De Gregori. Potevo rivendermela anche con mia nonna.
«Claudio, mi sono iscritto a medicina. Te lo volevo dire… per chiarezza, ecco.»
«In che senso, medicina? »
“La rivoluzione è in pericolo”, comparve scritto sullo schermo.
«Beh sì, sai, ti avevo detto filosofia, ma poi insegnare ai ragazzini, insomma, non fa per me. Anche secondo mamma è meglio medicina, dà più garanzie.»
«E dove, Siena? »
“Konrilov avanza”, bandiere rosse, un treno che sbuffa. Lenin è tornato.
«No, Firenze. »
«Firenze? E la band? »
«Ma vedrai che torno, di sicuro il fine settimana e poi oh, ma il martedì che mi ci vuole a prendere un treno e venire in cantina? Niente mi ci vuole. »
Lenin si sbraccia, sbandiera il berretto, agita le masse. Eretto sul pulpito, l’attore si conferma incredibilmente identico.
«Ma medicina, cazzo, dovrai studiare parecchio… dico, sei sicuro che ci si fa a continuare?»
«Sicuro. Ma davvero ti piace questa roba senza parole? »
Bruno iniziò a tornare sempre di meno, passavano mesi prima che si facesse vedere – “che ci vuoi fare, gli esami sono tosti”. Poi arrivò una certa Elisa, una fidanzata di Lastra a Signa – “ma le piacciono i Pearl Jam, sai? Appena torno te la faccio conoscere” – che non ho mai conosciuto. Dovetti abbandonare la chitarra e tornare a suonare la batteria, ma non mi andava più. Smisi di esercitarmi, mi vennero le vesciche sulle mani che per un batterista sono come le piante rampicanti su una casa abbandonata. La band si sciolse dopo pochi mesi. Di seguito ne vennero altre, sempre peggiori. Cover tristi, concerti desolati.
Tre giorni fa ho salutato Bruno nel suo studio, alle Scotte, a Siena. Ha solo le tempie leggermente ingrigite, per il resto è ancora uguale, dinoccolato da sembrare un Pippo appena più basso, gli occhi azzurri giganteschi sotto la cascata di ricci e dietro un paio di occhiali con la montatura trasparente. Mi abbraccia e mi chiede come sto, un secondo dopo si rende conto di aver sbagliato domanda.
«Clinicamente me lo devi dire te, per il resto sto bene», provo a sorridere.
«Suoni ancora con Robi e Alcide? Ernesto si è ripreso?». Ernesto entrava e usciva dal Sert a 40 anni suonati.
Mi siedo di fronte a lui, mi sembra improvvisamente più grande di me: mio fratello, mio padre, mio nonno.
«Ci proviamo, ma senza uscire dalla sala prove. Quello che piace a noi non piace ai ventenni di adesso.»
«Come si chiamava quel pezzo che avevi scritto, quello che iniziava con la batteria in levare che non mi riusciva mai… »
«Ottobre, mi pare.»
«Vero, “Ottobre”, come quei film in bianco e nero che ti guardavi per fare l’intellettuale. Che tempi, eh?»
«Già.»
«Un giorno prometto che torno a trovarvi, ragazzi, magari per le vacanze di Natale ci prendiamo una birra tutti insieme. Ancora mi tengo aggiornato, sai?»
Scorre le foto sul cellulare, ce ne sono una decina di lui con sua moglie e i loro due bambini di fronte a una torta di compleanno. Masha & Orso di glassa, candeline e palloncini colorati, altri bambini, altri genitori coi bambini. Posti di mare, pizze, colleghi in camice che fanno le facce buffe. Poi foto sfocate e scure di una folla di ex giovani.
«Ecco, guarda qua. Ho visto i Foo Fighters a luglio, a Firenze. Ancora mostruosi, Dave è un grande, ha suonato di tutto sul palco, come facevi te.»
«Magari come me. Cioè, come lui.»
Capisce che è il caso di tornare seri. Si aggiusta il camice bianco e prende a guardare dei fogli sulla scrivania. Gli pulsano le tempie, scorre il referto, prende tempo ed entra nel ruolo.
Sulla libreria alle spalle di Bruno noto un orologio al quarzo dalla strana forma cubica, irregolare. Troppo di design per essere stato fornito dal servizio sanitario nazionale, deve esserselo portato Bruno da casa. Magari è un acquisto fatto in vacanza, mi immagino in Svezia, o Danimarca. O qualche paese estremamente civile, funzionale, dove ogni oggetto è frutto di attenzione e studi ergonomici.
«Senti Claudio, non posso girarci intorno. »
«Dimmi.»
«Qui gli esami non sono buoni.»
«Quanto non-buoni? »
«Molto non-buoni.»
Mi guarda negli occhi e poi mi passa un fascicolo verde pallido. Lo apro ma non leggo nulla. I fogli mi sembrano senza parole, le immagini sfocate, montate male. Fotogrammi scuri con dentro la parte nascosta di me. Il vento fa tremare i vetri sottili della finestra. Là fuori l’autunno è al lavoro e stacca le foglie dagli alberi, una ad una, senza pietà.
Dovrei concentrarmi, ma penso solo che a fine mese mi scade il contratto al call center, che dovevo stampare le locandine per la retrospettiva su Sergio Leone del nostro centro culturale, ma mi sono scordato di inviare il file alla tipografia, che tra due giorni-due ho l’esame scritto per entrare all’acquedotto del Fiora come impiegato amministrativo ma siamo duecentrotrentaquattro candidati per tre posti di lavoro a Grosseto (a Grosseto!). Penso a Marzia che continua a mandarmi foto di appartamenti più grandi da prendere in affitto, magari con la terrazza – “così possiamo prenderci un cane” – e che non le ho ancora detto nulla e non so come dirglielo.
«Quindi che si fa?»
«Quello che dobbiamo fare. Intanto, Carlo, ti seguo io, su questo ci puoi giurare. Attivo il Gom, seguiamo il protocollo. Prendiamo subito un appuntamento per una seconda tac con esame di contrasto. Meglio fare un esame in più, che uno in meno. Dobbiamo essere sicuri di tutto e circoscriverlo, il bastardo.»
«Quindi che si fa?», ripeto.
Vedo la sua bocca, vedo le labbra che si muovono, le dita che si agitano nell’aria come inseguendo un fraseggio jazz, ma non riesco a sentire cosa dice. Volano in levare, si staccano dal tempo. Gli occhi blu come la piscina di Nevermind, la camicia pastello sotto il camice bianco, la magrezza del torace.
Lo vedo, mi parla.
I fogli, la radiografia, Ottobre, mi ero scordato di Ottobre.
Lo vedo, seguo la linea della bocca, mi concentro sulle parole. Un orologio danese. Montaggio verticale.
Sapeva tenere il tempo, ma aveva poca fantasia nei fraseggi.
Lo vedo, mi parla, ma non sento nulla.
Mi è piaciuto molto, Mattia. Hai saputo accompagnare bene il lettore nel passaggio tra passato e presente. Ho apprezzato anche il modo in cui hai descritto i personaggi e il loro rapporto dall’adolescenza all’età adulta. Si percepisce la nostalgia della spensieratezza giovanile in contrasto con la realtà di un uomo maturo.
Grazie mille Giulia, apprezzo molto. Mattia
Bellissimo racconto, Mattia. ‘Cazzuto’ e delicato (come Dave Grohl). Mi ha fatto ripensare a quando anch’io frequentavo il festival musicale di Acquaviva di Montepulciano, come i ragazzi della storia. Vita loro, vita di tutti noi. Bravo.
Molto bello, mi è piaciuto molto il cambio di prospettiva che sposta progressivamente l’ attenzione, l’affetto e la protezione del lettore dall’uno all’altro dei due personaggi. Anche lo stile si asciuga sempre più verso la fine come un po’ tutto lo spazio e il tempo attorno al protagonista.
Grazie anche a Silvia e Marco, di cuore. Mattia
In così poche righe hai riassunto due vite, bravo. Bello il cambio di punto di vista in merito a chi si prende cura di chi.
Bel racconto con i cambi d’atmosfera, di età e di punti di vista. Intriso di nostalgia e malinconia. Mi è piaciuta molto la frase: “Là fuori l’autunno è al lavoro e stacca le foglie dagli alberi, una ad una, senza pietà.”
È piaciuto parecchio anche a me, per tutte le ragioni già mirabilmente individuate da coloro che mi hanno preceduto nel giudizio. Complimenti!
È piaciuto parecchio anche a me, per tutte le ragioni già mirabilmente individuate da chi mi ha preceduto nel giudizio.
Nessuna sbavatura: ottime sia le descrizioni dei due personaggi che i loro dialoghi. Complimenti!
Ti segnalo solo un “fino quando” iniziale che andrebbe convertito in “fin quando” o in “fino a quando”. Almeno credo. Non me ne volere (^_^)
Grazie ancora a tutti per gli apprezzamenti e per le correzioni. Grazie davvero
Per commentare il tuo bel racconto voglio partire dalla scelta del titolo. Un film di Eisenstein sulla rivoluzione. La rivoluzione che è lotta contro il potere, contro il male. La rivoluzione che vedrà Claudio impegnato nella sua lotta personale contro la malattia. Il racconto si dipana con maestria e trascina il lettore in un turbinio di sentimenti e di ricordi. Malinconia, rimpianto, piccoli successi e fallimenti di una vita che deve trovare il coraggio e la forza di vincere la sua battaglia. Ottimo lavoro!