Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2020 “L’Oreste” di Martina Antoci

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020

Stava lì, dove era sempre stata da dieci anni. Lì su quella mensola della grande cucina in legno massello, sola, a svettare come torre di castello.

Ogni giorno l’Oreste la spolverava per bene, come la statua di una madonnina acquistata per un ex voto.

Anche quella sera aveva passato sopra la superficie di vetro scuro il panno di cotone.

Lucida, l’etichetta ancora intatta, nonostante i due lustri. Un’etichetta non pretenziosa, sobria nel suo color crema, ravvivata sullo sfondo da disegni, quasi arabeschi, color oro. Un’etichetta che, in un’enoteca, in mezzo a mille bottiglie, non avrebbe di certo spiccato.

Come ogni anno, per il loro anniversario di nozze, la Marisa e l’Oreste si regalavano un viaggio in una città d’arte. Quell’anno la scelta era caduta su Ferrara. Un fine settimana di musei e degustazioni enogastronomiche, il tutto a bordo di una bicicletta presa a nolo.

Dopo aver visitato la mostra antologica del Boldini, infreddoliti da un ottobre che già sapeva di nebbia, si erano rifugiati all’interno di una cantina che offriva degustazioni di vini e piatti locali.

Cappellacci alla zucca e salama da sugo, non si poteva dire di no ai piatti estensi per eccellenza. L’oste aveva consigliato loro un bordeaux. Come, un vino francese in terra d’Emilia?

No, subito l’equivoco era stato chiarito. Si trattava di un vino proveniente da una piccola azienda di Montecchio Emilia, in provincia di Reggio.

L’Oreste e la Marisa ne erano stati conquistati: fermo, corposo, un leggero retrogusto di amarena. Si sposava alla grande con i piatti ordinati. Capace di lasciare un aroma fruttato e non appesantire i sapori.

Alla fine del pranzo, i due coniugi avevano deciso di acquistare una bottiglia da bere in un’occasione speciale, come speciale era stato quel loro viaggio.

Dieci anni erano trascorsi da allora e ancora non avevano trovato quel momento unico e irripetibile da meritare di essere benedetto da quel vino che, ormai, era parte dell’arredamento della loro cucina e della loro quotidianità.

L’Oreste quella sera la guardava, guardava quella benedetta bottiglia come chi, ormai, si sente giunto al capolinea. Gli occhi sgranati e vuoti, la bocca leggermente aperta dalla quale si intravedevano i denti consumati dal tabacco del sigaro. Le braccia abbandonate sul bordo del tavolo.

Stanco. L’Oreste fissava stanco la bottiglia che aveva segnato tanti momenti della sua vita con la Marisa, momenti di fatica, di duro lavoro. Momenti di gioie, sempre troppo piccole per essere degne di quel vino.

Ricordava bene quel pomeriggio, quando si era deciso. Aveva ottenuto un nuovo incarico nella sua azienda, non particolarmente prestigioso, ma meglio pagato.

Più soldi al mese significava tanto. Più viaggi con la Marisa. La sua Marisa, così assente negli ultimi tempi. Troppo lavoro nell’ufficio dell’avvocato, troppi i mestieri di casa. La sera era stanca, non si andava neppure più a ballare. E sì che proprio lei aveva insistito tanto per fare quel corso di balli di sala. Che ci si era pure divertito l’Oreste, tutto impettito nei valzer e nelle milonghe.

E adesso che potevano danzare, volteggiare leggeri sulla pista liscia e sulle piccole rogne quotidiane, adesso la Marisa ci era rimasta sotto a quelle rogne.

Più soldi al mese, magari una signora per fare le pulizie più pesanti, così da lasciare il fine settimana al riposo e al divertimento, magari anche a qualche momento di intimità.

Facevano poco l’amore e se e quando, erano distratte carezze e baci freddi, come sa essere l’inverno a Milano.

Era uscito dall’ufficio di via De Amicis e, a passi piccoli e veloci, le gambe tozze e arcuate, si era diretto a casa, poco distante, Corso Genova. Le luci dell’appartamento erano spente. La Marisa doveva essere ancora in ufficio, ti pareva. Poco male. C’era tutto il tempo per preparare una cena come diocomanda e brindare finalmente con la bottiglia.

Arrivato al terzo piano, estratte le chiavi dalla tasca interna del loden blu, era entrato in corridoio.

Il cappotto gettato sullo schienale del divano in stoffa provenzale, le scarpe abbandonate sul tappeto, si era diretto, scalzo, verso la cucina.

Lei era lì, sulla sua mensola, come una bella sposa pronta per il giorno delle nozze.

La guardava, emozionato. Già gli sembrava di sentire il ticchettio delle scarpe della Marisa, la porta che sbatte, il suo sono arrivata. L’entrata in cucina, il suo sguardo esterrefatto di fronte alla tavola tutta ben messa. E al centro la bottiglia. Ancora vergine, col suo bel tappo in sughero sigillato, perché per quel momento bisognava essere in due. Loro due, l’Oreste e lei, la sua signora, la Marisa.

Si stava dirigendo in bagno per lavarsi le mani prima di prendere possesso dei fornelli.

Uno strano scricchiolio. I vicini probabilmente.

Poi di nuovo. Poi un sussurrare sommesso. Certo che le pareti di quella casa erano proprio di carta velina. Si sentiva tutto. Bisognava tenerlo presente ed essere meno fracassoni, così da evitare di essere ascoltati a loro volta.

Più si avvicinava al bagno e più le voci si facevano nette nei loro contorni.

Girato l’angolo aveva imboccato la porta della camera. Era buio. Non abbastanza per non vedere.

Non abbastanza per non riconoscere quella sagoma, le sue forme ancora così acerbe nei suoi cinquantacinque anni.

La Marisa. Seduta sul letto. I piccoli seni scoperti, il lenzuolo avvolto intorno alla vita.

Rideva, rideva mentre i capelli ricadevano sulle spalle e coprivano il suo bel collo da cigno.

Rideva. Da quanto non la vedeva ridere così. Era quasi bello vederla solare, leggera, libera da quel fardello che ogni giorno si faceva sempre più pesante.

Rideva a lui, l’Aloisio, il vicino di casa. Quello di cui tanto avevano fantasticato. Tee, bello com’è, sempre in giro fino a tardi e lei sciatta, sempre di corsa con quella sporta della spesa scialba come lei. Vuoi che non abbia un’altra? Hai voglia! Altro che una! Non li vedi mai insieme. Lui quando esce sembra un attore da fotoromanzi, tutto tirato a lucido. Sempre il sorriso dipinto sulle labbra, stirato e inamidato come le sue camicie. Povera la signora.

Già, l’Aloisio. Povera la signora.

Era stato troppo. Non poteva, non riusciva a far finta di niente, ad affrontare civilmente la situazione.

Il dialogo, certo, il dialogo è importante, mai smettere di parlare, mai tirare su muri, che poi ti ci voglio vedere a buttarli giù. No. Non era in grado. Aveva girato la schiena e si era messo a correre, così, senza scarpe, senza cappotto.

Aprendo la porta aveva urtato il tavolino del corridoio, quello comprato al mercato dell’antiquariato, quello dove la sera, congedandosi dal mondo, lasciava le chiavi di casa.

Il tonfo era stato forte.

La Marisa, era allora uscita dalla stanza e si era diretta in sala.

Il cappotto dell’Oreste, le sue scarpe.

Cosa ci faceva a casa alle diciotto. Non era possibile. Aveva calcolato tutto, come sempre. Lui era metodico, un vero ingegnere. Mai un ritardo, tanto meno un anticipo.

Seduta sul divano la Marisa piangeva, piangeva di rabbia, la testa tra le mani, che avrebbe voluto prendere a schiaffi quella sua bella faccia dipinta.

L’Oreste, sceso in strada, camminava. Le gambe pesanti, il fiato che faticava a venire.

Camminava, senza una meta, senza sentire freddo, senza vedere niente, nessuno. Solo un boato che riempiva la sua testa, le sue orecchie.

Gli occhi smarriti a cercare un approdo nel quale trovare riparo da se stesso.

Di fronte a lui il naviglio, torbido immobile, freddo. Sordo.

Era entrato nella solita tabaccheria per prendere dei sigari e bere del cognac.

Il Peppo, col suo grembiule sempre bel nett, lo squadrava da dietro al bancone, incredulo. L’ingegnere. Sembrava lo spettro di se stesso. Gli occhi spiritati, scalzo. Lo aveva salutato il Peppo, cercando di sorridere a quell’immagine.

L’ingegnere non rispondeva. Fissava, intensamente, cosa non si capiva.

Poi aveva indicato la bottiglia di cognac, la solita. Il Peppo gli aveva allungato il bicchiere, ma no, non andava bene. La bottiglia, quella, tutta quanta, tutta intera.

Poi seduto sullo sgabello della parete opposta al banco, la schiena ai clienti, lentamente, sorso dopo sorso, aveva assaporato il caldo di quell’abbraccio che aveva immaginato ben diverso.

Beveva, fumava e parlava. Parlava col muro. Sorrideva alla parete e la sfiorava con le dita, leggero, attento, come se fossero state ali di falena.

Il Peppo gli aveva allora offerto aiuto. Lui, l’Oreste, l’ingegnere, non si era neppure voltato, assorto nella sua nuova dimensione, sordo ormai alla vita.

Finita la bottiglia si era alzato e poi calato i pantaloni, fino alle ginocchia.

I clienti presenti, i soliti, lo avevano aiutato a rivestirsi e lui, senza mai parlare, aveva pagato e poi si era diretto verso l’uscita per imboccare una direzione ignota.

Da quella sera, ogni giorno, col freddo e col caldo, dalla mattina fino alla chiusura, entrava dal Peppo, si sedeva sempre sullo stesso sgabello e dava fondo al solito cognac.

Al lavoro non si era più presentato.

Stanco, la testa intontita dal suo nettare di fuoco, rientrava poi a casa. Quella casa ormai vuota. Non più nido. Prigione.

E lui prigioniero di una felicità troppo a lungo attesa,  poi fuggita per sempre.

E la bottiglia stava lì, sulla mensola in legno massello della cucina, sempre lucida, priva di polvere, quando il resto della casa sembrava soffocare dalle ragnatele e dalla sporcizia, cristallizzata sotto una coltre di tempo che, ormai, non scorreva più.

E quella sera, l’Oreste, aveva deciso.

Il momento perfetto per brindare era quello. A cosa? Alla sua solitudine.

Alla sua vita che scorreva in sorsi. Al suo piccolo sgabello, la sua nuova tana. Alla sopravvivenza, perché si sopravvive, nonostante tutto.

L’aveva presa, stappata, annusato il tappo. Poi, dalla credenza, aveva riesumato un calice di cristallo, il calice delle grandi occasioni.

Inclinata la bottiglia aveva versato quel vino che sapeva ancora di una felicità lontana.

Sollevato il bicchiere, sorso dopo sorso, l’aveva bevuta tutta, lei e le lacrime che ne avevano diluito quel sapore di amarena.

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