Premio Racconti nella Rete 2010 “Non uccidere” di Patrizia Mattei
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010La ripose adagio in un panno verde, dopo averla rigirata tra le mani almeno una decina di volte. La sera prima l’aveva smontata e pulita in modo quasi compulsivo, mentre le labbra sussurravano la stessa cosa ormai da mesi. Spesso si ricordava di suo padre che da bambino lo obbligava a seguire la messa tutte le domeniche. Don Alberto accompagnava le orazioni con gesti impetuosi delle braccia e fra tutti i comandamenti che scandiva fino allo spasmo uno in particolare lo aveva colpito: non uccidere. Enrico non aveva interessi di nessun genere e la vita gli scivolava addosso senza lasciargli grandi emozioni.
Tra le immagini sbiadite delle sue giornate l’unica foto a colori sembrava essere quell’interesse per il poligono che frequentava regolarmente tre volte la settimana ormai da tre anni. Enrico Gherardi abitava al numero venti di una vecchia palazzina di via Ordonez. Ogni mattina si svegliava alle sette, si sedeva sul letto e allungando la mano molliccia sul comodino, s’infilava pigramente i suoi occhiali da miope. In bagno si lavava con perizia maniacale i denti, osservandoli sospettoso uno ad uno, mentre tirando su col capo, ripeteva le abluzioni. Era di statura decisamente sotto la media e di corporatura leggermente in sovrappeso. Gli occhi piccoli e scuri, mal celavano un leggero disgusto quotidiano, accentuato ancor più dal naso arcigno che sopravanzava oltremisura sopra la bocca, anch’essa piccola con labbra serrate, come a voler zittire qualcosa che da un momento all’altro sarebbe uscito. Lavorava da circa dieci anni come impiegato di sesto livello in una banca del centro e per dieci anni aveva raccolto le domande dei nuovi correntisti, suddividendole per residenza, per sesso, per età e per altre inutili informazioni, provvedendo ad inviare loro un questionario da compilare in ogni sua parte. Una mattina il telefonò del suo ufficio squillò e lui rispose sospettoso mentre agitato si guardava intorno. “Gherardi ? Sono il direttore, ho bisogno di parlarle, venga subito da me”. Enrico riagganciò il telefono senza aver il tempo di replicare. L’ufficio del direttore occupava quasi tutto il sesto piano, da quando, reduce da un corso per manager, si era convinto che il potere delle persone era senza dubbio proporzionale alla dimensione del proprio ufficio e di tutto l’arredo. Carlo Forti, il direttore, era coetaneo di Enrico, decisamente un bel uomo, sempre abbronzato, alto e atletico, affascinante con le donne, brillante coi clienti, sportivo e pure un tantino stronzo.
Quando Enrico entrò nella stanza il direttore se ne stava in piedi, di schiena, davanti alla finestra, una mano in tasca mentre con l’altra sosteneva un puzzolente sigaro cubano, forse regalo di una delle sue tante amanti. “Caro Gherardi, lei ben saprà dei momenti difficili che stiamo passando e del personale più volte trasferito. Ed é proprio di questo che le volevo parlare, del suo trasferimento”. Un bradipo ferito avrebbe avuto una reazione più veloce di quel povero omuncolo che tentava di non affogare nei suoi stessi pensieri. “Ma direttore, lei saprà quanto io sia stato sempre fedele all’azienda e con quale competenza mi sia dedicato al lavoro”. ……”ma è proprio per questo mio caro Gherardi ! Lei è troppo serio. E’ pur vero che il suo non è certamente un lavoro di grande responsabilità, ma lei è una vera tristezza ! Insomma, si sono lamentati persino i clienti. Mai un sorriso gratuito, che so io, buttato là per esempio verso qualcuno che non rientra nelle sue grazie, mai una leggera inflessione verso la politica o i sindacati, di questi tempi, lei converrà che è quasi un reato ! Capisco la sua delusione, ma siamo costretti a farle un trasferimento di ufficio. Al paese. Lei caro Gherardi verrà trasferito al paese. Vedrà, si troverà più a suo agio, ci sono meno correntisti, gente più alla mano, forse alla sua portata. Capisco la sua delusione, ma caro Gherardi lei verrà trasferito dove la sua tristezza non potrà fare più alcun danno”. Enrico fu congedato dal direttore con una pacca sulla spalla mentre, tra congetture informi, sentì di nuovo quella voce “non uccidere”. I colleghi lo videro uscire dalla stanza dei bottoni con aria assente ma non si meravigliarono più di tanto visto che era sempre stato alquanto strano.
Alla fine del turno Enrico s’infilò il suo cappotto grigio antracite, raccolse qualche oggetto personale dalla scrivania che depose con cura nella sua ventiquattrore di finta pelle e uscì dalla banca. Il direttore lo vide allontanarsi mentre, ancora in piedi davanti alla finestra, spense il sigaro appena iniziato. Carlo Forti aveva una bellissima moglie, una figlia adorabile di undici anni ed un figlio di venti. Abitava in una grande villa appena fuori città, sopra una collina circondata da oleandri e rose selvatiche. Forti viaggiava spesso per lavoro e spesso si trovava a trascorrere serate mondane in compagnia degli amici e della sua famiglia. Possedeva una barca a vela di ultima generazione, una casa al mare ed una in montagna, eppure tutto ciò sembrava non appagare per niente quel suo bisogno smisurato di possesso, qualunque cosa fosse, anche persone. Per questo tradiva di frequente la moglie che restava in silenzio a guardare, senza fare scenate o chiedere la separazione. “Lo faccio soltanto per i nostri figli che ti adorano”. Si affrettava a chiarire lei dopo ogni discussione con il marito. Ora Enrico, seduto sull’auto di fronte alla casa del suo direttore, guardava tutto quello che anche lui avrebbe desiderato ma che il destino gli aveva negato. Circa sei anni prima aveva provato inutilmente a conquistare la figlia di un grosso imprenditore della zona. La cosa non prese mail il largo, anzi, come vele senza vento, si era ammainata prima ancora di partire. Enrico scese dall’auto e si fermò qualche secondo con la pistola in pugno prima di girare sul retro della casa. Si accorse di una piccola finestra aperta la cui visuale attraversava gran parte della sala e vide Forti sulla veranda. Passò una macchina a tutta velocità e un tipo mezzo ubriaco urlò qualcosa al bidone dell’immondizia. Forse il direttore era uscito per fumarsi uno dei suoi puzzolenti sigari, ma di certo, pensò Enrico con una smorfia di soddisfazione, non avrebbe mai immaginato che l’ultima cosa sentita sarebbe stato il blaterare di un vecchio marcio dall’ alcool. Enrico puntò la pistola e prese bene la mira e mentre alzava il braccio con maniacale precisione fu certo di aver preso la decisione giusta, perché era come sparare ad un grosso predatore. “Non uccidere” gli risuonò ancora una volta nella testa. Vide la canna della pistola tremare davanti ai suoi occhi e mentre pensava che non sarebbe mai stato in grado di farlo, nella grande sala apparve la moglie di Forti. L’aveva visto con quella pistola in mano, ma stranamente non gridava e non chiedeva aiuto, anzi sembrava quasi implorarlo. E gli parve quasi che sussurrasse: uccidilo. A quel punto la mano smise di tremare e si udì un colpo solo che squarciò quell’apparente immobilità. Enrico non riuscì neppure a versare una lacrima, forse perché suo padre fin da bambino gli aveva insegnato che piangere era un attività più da femmina che da maschio.
Patrizia Mattei