Premio Racconti nella Rete 2020 “La casa e il tesoro di Ovidio” di Raffaele Santini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020Sono passati molti anni, mai dimenticherò le storie che il nonno raccontava sul poeta Ovidio di Sulmona. Seduto vicino al fuoco,con la pipa in bocca, da cui emanava un odore acre di fumo, con la verve dei grandi attori, iniziava i racconti, che non mi stancavo mai di risentire. Mi sembra ancora di rivedere la scena, in cui, da ragazzo desideroso di apprendere, mi appollaiavo sullo sgabello “ lu uancùcce” ad ascoltarlo per ore.
Vicino alla Badia Morronese, scaturisce una grossa vena d’acqua, che si chiama “ Fonte d’Amore” e rifornisce una fontana di diciannove cannelle “ cannotte”. Alla fontana una volta andavano a dissetarsi imperatori e re , mentre Ovidio “ ‘Viddie” ci si recava spesso con la figlia di Cesare, che era diventata la sua fidanzata e per scrivere un libro, che chiamò “ Amori”.
Il nonno divagava facilmente, per cui venni a sapere che la fidanzata del poeta, che era diventato anche mago, non era più la principessa, ma una fata che abitava a Santa Lucia, dove c’era il “Casino Pantano”, un gruppo di case presso cui erano stati rinvenuti acquedotti di piombo, vasche, pavimenti, anfore, lucerne e monete di bronzo.
Secondo l’immaginario collettivo, l’ acquedotto partiva dal Morrone, da dove i pastori dei monaci della Badia facevano scorrere il latte fino al centro abitato o alla stessa Badia, per farne il cacio. Si praticava l’usanza perché il fiume che scorreva all’interno del monte, proveniente dalla Majella, era scomparso per riapparire alle Gole di Popoli: un po’ di quell’acqua alimentava ancora la fontana.
Ovidio abitava vicino a Fonte d’Amore, in una grande villa con 13 stanze, in cui si arrivava in salita per la “Via Caprarecce”,che portava sulle balze del Morrone. (Tempio di Ercole Curino). L’edificio si chiamava “ le Poteche di ‘Viddie”, ma Celestino, secondo il popolo, era stato più furbo,per aver fondato il suo eremo più in alto,a S.Onofrio, quasi a strapiombo della creduta casa rurale di Ovidio.
Gli scavi archeologici effettuati riportarono alla luce avanzi di mura, a opera reticolata, e una necropoli, che fecero pensare ad un vicus o un pagus peligno e le pergamene del sec. XIII, ci attestano un luogo chiamato “ Saizzano o Sagezzano.
Secondo il nonno fra quelle rovine si aggiravano molti cavatesori, per cercare di trovare il tesoro di Ovidio, ma questo non lo permetteva.
Ogni anno, alla vigilia della Ss. Annunziata, che ricade il 25 marzo, verso mezzanotte, Ovidio andava in carrozza a quattro cavalli, passando prima al palazzo della fata, poi tra le rovine e, facendo molto fracasso,andava a controllare se i tre mucchi di monete d’oro, ivi nascosti, si trovavano al loro posto: constatato che tutto fosse in ordine , si recava a Sulmona. Quando non passava in carrozza, passeggiava per le falde del Morrone, con due candele accese in mano, per vigilare.
Se qualcuno fosse riuscito a prendere una sola di quelle monete, ogni incantesimo sarebbe cessato e avrebbe potuto portare via il tesoro. L’operazione , però, era molto pericolosa, poiché il malcapitato si sarebbe potuto ritrovare sbalzato in mezzo al mare , dentro un fosso o sulla cima della Majella.< “ Il tesoro si potrà prendere in sicurezza quando finirà questo mondo e ne comincerà un altro!”>
Un cavatesori aveva tentato l’impresa, ma Ovidio voleva un’anima innocente in sacrificio, poiché tre grossi serpenti stavano a guardare i tre mucchi d’oro, mentre bestie feroci, lupi, leoni, tigri minacciavano chiunque si fosse avvicinato.
Una volta un pastore che abitava vicino alle “ Poteche ”, mentre pascolava il gregge , tra quelle rovine sentì aprire un portone, in cui entrò per curiosità, trovando sette stanze.
Alle prime cinque c’erano solo un camino con gli attrezzi del focolare, un mantice e una cesta di carboni, mentre nella sesta, dalle pareti pendevano tanti pelliccioni d’oro, che sembravano di pecora.
Il racconto ci riporta all’antico mito del Vello d’oro!
Nell’ultima stanza c’era un trono, dove sedeva Ovidio, con una mazza di ferro in mano, mentre intorno c’erano sette barili colmi di verghe d’oro e d’argento. Il guardiano così gridò: “ Vedere e non toccare, se sagliocca(mazza) non vuoi provare!” A quelle parole, il pastore,terrorizzato fuggì precipitosamente, ma la notte, mentre dormiva nella capanna dello stazzo, sentì un rumore e svegliandosi vide un folletto“mazzimarejje”, vestito di rosso, che gli tirava i piedi. Si può immaginare la paura che si impadronì del poveretto!
Il tesoro, poi, fu preso da Celestino, che strozzò con le mani il drago e utilizzò le ricchezze per costruire l’Abbazia per i suoi monaci.
Nella tradizione popolare si diffuse l’idea che Ovidio fosse un sapiente mercante ricchissimo, per cui quando si parlava di grandi somme di denaro, ironicamente si soleva dire : “ Vàttele a fa’ dà’ da ‘Viddie ‘nnante a la Corte”( Vai a fartele dare da Ovidio davanti alla Corte). La Corte era l’antico palazzo comunale di Sulmona, un tempo adibito a prigioni, in cui si trovava una statua di Ovidio.
Ringrazio gli organizzatori per aver voluto pubblicare questo racconto molto breve , che ripercorre in poche righe alcuni aspetti storici e credenze scaturite intorno alla figura di Publio Ovidio Nasone, famosissimo poeta latino, nato a Sulmona (AQ) e morto esule a Tomi sul Mar Nero, che insieme a Pietro da Morrone, poi papa Celestino V, rappresentano la gloria dei Peligni. Nel testo figurano toponimi in dialetto abruzzese. Il testo può anche essere proposto ai più giovani, all’insegna dello spirito didattico-pedagogico.