Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2010 “Bellissimo” di Paola Colleoni

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010

Era dicembre, l’antivigilia di S. Lucia. Anche se quel giorno a Bergamo faceva molto freddo, verso le due del pomeriggio avevo deciso di uscire col mio bambino di otto mesi. A casa, pur stanchissimo, non era riuscito a prender sonno per via di un raffreddore e di alcuni dentini che stavano spuntando tutti insieme. Carlo adorava uscire col passeggino, io sapevo che si sarebbe calmato ed infatti si addormentò quasi subito abbandonandosi al calduccio nella morbida copertina.

C’era una strana atmosfera, nella vecchia via Broseta. I rumori del traffico erano lontani, attutiti dalle nuvole basse; c’erano poche persone e tutte si dirigevano, come me, verso piazza Pontida. L’eco dei loro passi rimbalzava tra le facciate scolorite dei palazzotti, attaccati uno all’altro lungo entrambi i lati della via. Sul selciato umido balenavano i riflessi delle decorazioni natalizie tese tra le facciate, dove molte finestre mostravano fili d’argento e d’oro, palle di Natale lucenti, spruzzi di neve finta, lumini colorati.

Gustavo quell’imprevista occasione di svago: non avevo mai tempo per me, c’era il resto della famiglia, la casa, il lavoro. Quando uscivo con Carlo, portavo di solito anche Linda, la mia prima bambina, che era già grandicella e molto chiacchierina. Quel pomeriggio potevo camminare tranquillamente lasciando correre il mio pensiero, che spontaneamente cominciò a riandare agli ultimi mesi vissuti.

Carlo era nato in un limpido mattino di aprile e limpida era sempre stata la nostra vita, in una specie di simbiosi: io avvertivo ogni suo bisogno al suo primo formarsi e provvedere a lui mi era naturale come provvedere a me stessa. Non piangeva praticamente mai, mangiava e dormiva moltissimo. Il nostro giorno era scandito da ritmi, gesti, risa, tenerezze. Fatica e stanchezza erano del tutto insignificanti per me, giovane e piena di energie; durante i suoi lunghi sonni riuscivo a concentrare le faccende di casa, il lavoro con mio marito e le attenzioni per Linda, che per buona parte del tempo era a scuola. Assaporavo poi con Carlo luminose ore di gioia e giochi, e lente ore notturne in cui lo allattavo in un’intimità protetta, in una pace solitaria tutta nostra. Accadeva, in quei momenti, che il mio sguardo venisse catturato dalla profondità dei suoi occhi azzurri e allora mi perdevo nello sconcertante contrasto tra il suo essere del tutto dipendente da altri e una inafferrabile, innata saggezza assoluta, una specie di consapevolezza della propria dignità e del diritto alla vita, all’amore, alla felicità. Lì, negli azzurri occhi fiduciosi e ignari del mio bambino, c’era un’inesauribile fonte di senso della vita e c’era, insieme, il mistero. In quella profondità, mi imbattevo in un’innocenza che diveniva il punto di contatto tra i nostri due infiniti, magicamente capace di accenderli entrambi e di rendere per un istante intuibile il riverbero della complessità umana e della totalità in cui siamo immersi. Tutto quanto di possessivo poteva esserci nel mio amore di mamma svaniva ogni volta nel senso di profondo rispetto per una creatura che tutto era, tranne che mia.

Il mio piccino quel giorno così palliduccio, la fronte un poco lucida, le palpebre pesanti, il nasino arrossato, mi commuoveva: coglievo appieno l’individualità e la fragilità di un essere che, per quanto amatissimo, era altro da me. Malgrado tutto il mio rispetto e il mio travolgente amore, ero impotente di fronte alla banalità del malessere per i primi dentini e mi rendevo conto che ben altre cose non avrei potuto alleviargli.

Ero commossa da questi pensieri e ne ero anche compiaciuta: erano profondi, appaganti, gratificanti. Intanto, spingevo il passeggino con mille attenzioni, per evitare scossoni.

Giungemmo in piazza Pontida. L’atmosfera era più animata, ma solo poco più avanti, in via XX Settembre, tra la folla che andava sempre aumentando, ricordai che quelli erano i giorni del tradizionale mercatino sul Sentierone, la passeggiata centrale della città. Vi vengono accompagnati i bambini per scegliere i doni che Santa Lucia porterà nella notte tra il dodici e il tredici dicembre. Dopo la visita al mercato, letterine a disegni e brillantini, piene di promesse e di richieste, vengono deposte dai bambini con una emozionata preghiera davanti alla statua di Santa Lucia, nell’antica chiesa all’inizio del Sentierone.

In breve, la quieta atmosfera natalizia svanì del tutto, lasciando il posto ad una sempre più caotica eccitazione. Le persone, attirate da luci e suoni, camminavano spedite senza badare agli altri e non sempre io riuscivo ad evitare urti al mio bambino; cercai una via di fuga, ma ormai l’unica possibilità sarebbe stata tornare indietro. Mi voltai: dietro di me la ressa era ancora aumentata. Decisi perciò di proseguire un po’ lungo il Sentierone sperando di poter svoltare in una via laterale libera da bancarelle.

Calamitata dai colori delle merci di ogni genere, dal profumo di dolciumi e zucchero filato, dalle nenie di alcuni zampognari, la gente gettava solo sguardi disinteressati al mio bambino e ci evitava solo all’ultimo momento oppure, molto spesso, ci urtava. Malgrado tutti i miei sforzi, borsettate e spintoni al passeggino erano inevitabili, cosicché il mio piccolo sussultava, ogni volta lì lì per svegliarsi.

L’indifferenza per quel delicato sonno mi avviliva, anzi, il mio era un vibrare offeso perché la tenerezza risvegliata da quel visino malaticcio era struggente ed i pensieri che andavo facendo avevano attivato emozioni molto profonde, sentimenti vibranti per la vita e per la dignità umana dovunque offesa nel mondo, sentimenti del tutto in contrasto con la noncuranza e la frenesia lì attorno. Commossa, mi pareva di intuire la presenza di un Amore causa e fine di ognuno e di ogni cosa, eppure tanto offeso e negato, ed ero sopraffatta dalla sua ineffabilità.

Dalle vette di tanto sentire, non immaginavo quanto ero inadeguata a ciò che stava per accadere.

 

C’era ormai una vera ressa. Fu dunque molto strano che all’improvviso davanti a me si aprisse un varco lungo una ventina di metri e largo circa dieci, ed ancor più strano che questo varco non venisse né occupato né attraversato da alcuno. La gente, pur stipata tutt’attorno, pareva non accorgersi di tutto quello spazio vuoto. Alcuni voltavano le spalle fermandosi ai margini, alcuni rallentavano e procedevano guardando altrove.

In fondo a quel largo corridoio, vidi solo allora alcune persone che avanzavano tutte insieme, una accanto all’altra. Percepii qualcosa di strano, un vago ondeggiare, una disposizione non parallela dei corpi, movimenti inusuali, scatti. Per uno o due secondi, non ne fui sicura, poi fu inequivocabile: verso di me procedeva un intero gruppo di disabili. Sostenendosi a vicenda, avanzavano molto faticosamente: camminavano a braccetto, impacciati e ondeggianti.

Oh, no! – fu il mio automatico pensiero – Se tutte le persone normali incrociate finora hanno del tutto ignorato il mio piccolo, chissà che faranno questi poverini. Adesso sì che me lo sveglieranno!

Deviai subito verso destra, sperando di trovare un po’ di spazio tra la gente per poter lasciare strada libera al gruppetto; solo allora però apparve proprio dalla stessa parte, all’estremità destra del gruppo, un giovane molto grosso su una ingombrante carrozzella. Tentai allora di spostarmi sulla sinistra, ma la distanza si era ormai ridotta troppo: senza poter far più nulla per evitarlo, stavo andando dritta contro il gruppo, proprio al centro.

Lì procedeva, più barcolloni degli altri, un ragazzone dinoccolato. Aveva braccia e gambe lunghissime, così scoordinate da sembrare ognuna in preda ad un moto indipendente e casuale e che pur produceva nell’insieme, inspiegabilmente, l’ondulatorio avanzare in una direzione.

Rassegnata, mi aspettavo ormai lo scontro, con relativo scossone al passeggino. Decine di persone sane, coordinate, intelligenti non hanno fatto nulla per evitare scontri, pensavo, chissà che cosa succederà adesso con queste persone. Per di più, dal loro punto di vista nemmeno possono vedere che il mio bambino è addormentato; e poi, anche se lo vedessero, chissà che cosa capirebbero.

Non potendo far altro, rallentai fin quasi a fermarmi per essere, almeno, del minor intralcio possibile a quella così faticosa andatura.

 

 

Inesorabilmente, più che mai disarticolato e scoordinato, il ragazzo era giunto a un metro da me. Lo sforzo del camminare gli piegava gli arti ad angoli assurdi.

La testa troppo grossa, troppo lunga, troppo inclinata; il volto troppo asimmetrico, troppo pallido; il naso troppo grosso, le labbra troppo umide, troppo rosse, troppo aperte; i denti troppo distanziati; gli occhi troppo grandi, troppo sporgenti.

Fu allora, quando quegli occhi si posarono sul passeggino, prima ancora che fosse possibile vedere che il mio bambino dormiva, che l’improvviso alzarsi di due folte sopracciglia in un imprevedibile cenno di stupore e tenerezza, costituì come il colpo di bacchetta che avviò il comporsi innanzi a me di una magica danza lieve, dalla coordinazione soave e dal ritmo perfetto.

Le membra che fino a poco prima sembravano muoversi ognuna secondo una propria imperscrutabile volontà, improvvisamente si unirono in un gesto che riuscì, insieme, a significare stupore, delicatezza, attenzione.

Come per dire a tutti ‘silenzio!!’, un lungo dito indice si avvicinò alle labbra, mentre la dignità e la sollecitudine di un cavaliere antico mossero armoniosamente gambe e braccia, a lasciarmi il passo.

 

Nessun urto, nessuno spintone.

Rimasi lì, come una stupida. Noi, persone ‘normali’, intelligenti.

Quanto amore ricevuto e dato, dietro a quel gesto; quanta premura, quanto rispetto.

Il gesto del ragazzo aveva richiamato l’attenzione dei suoi compagni, che si fermarono un momento a guardare, sorridendo al mio bambino ognuno a modo suo, in religioso silenzio, attenti a non urtare il passeggino: su quei volti così lontani dai canoni della bellezza c’era l’espressione di chi guarda un tesoro.

Poi, faticosamente, ripresero ondeggianti il loro cammino.

 

Li guardai allontanarsi, senza riuscire a muovermi.

Dopo un paio di minuti, lentamente, ripresi a camminare svoltando in una via più tranquilla. Carlo dormiva beato. Io tenevo gli occhi bassi, li sentivo lucidi. L’eco dei pensieri che mi erano nati automatici mentre mi avvicinavo a quei giovani pesava come un macigno sui miei elevati pensieri di poco prima, facendone poltiglia.

 

Ad automatico paragone, nel mio cervello iniziarono a srotolarsi le immagini della bellezza umana allocate nella memoria, poi i ricordi di, gesti, atteggiamenti, comportamenti, sentimenti.

Arte, sport, cinema, fotografia, letteratura. Statue, atleti, attori, danzatori, personaggi.

Mai avevo visto niente di così bello come quelle sopracciglia inarcate e quel dito indice che si appoggiava alle labbra, mentre con stupore e tenerezza i grandi scuri umidi occhi dicevano: ssssst, c’è un bimbo qui, e forse dorme.

 

Mai nessuno avevo visto, bello come te.

Bellissimo.

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1 commento »

  1. Ci sono bellezze nascoste, che vivono invisibili accanto a noi: succede, a volte, che ci si spalanchino davanti agli occhi, dilagandoci nell’anima.

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