Premio Racconti nella Rete 2020 “Meglio le farfalle” di Giusi Taglialatela
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020<<Sai la Gina? La Toffoli, la zia della Rosella. Sua cugina era in classe con tuo fratello, Marica si chiama!>>
Sbriciolo gli amaretti, mentre mia madre impasta farina e uova, aggiungendo un parente alla sua lista per ogni mio no con la testa.
<<Insomma, la Gina, ma sì che sai chi è! Abitava in cascina, vicino alla Valle, avevano le mucche. Lo zio ti ci portava da piccola, giocavi con la Sabrina e Domenico, i gemelli, ti ricordi?>>
<<Sì, i gemelli>>.
<<Ecco, brava! La Gina è la cognata della nonna della Sabrina e di Domenico!>>
<<Va bene, ho capito, è successo qualcosa alla Gina?>>
<<Ma no, sta benone, l’ho vista domenica al cimitero, ti saluta tanto!>> e mi dà una piccola spinta con il fianco, mentre aggiunge del latte all’impasto.
<<Le facciamo belle morbide le torte della sagra quest’anno, Don Marzio aspetta la sua, quel goloso! Poi gli stringe la veste in vita quando dice Messa grande alle undici!>>
Ridacchia mentre con il dorso della mano si sfrega la fronte nel gesto di mandare indietro i capelli. Non trova nulla, quelli che le sono rimasti li ha infilati sotto la retina prima di iniziare a preparare gli ingredienti e le teglie.
Carcinoma.
È una parola che fa drizzare i peli sulle braccia, il suo suono è quasi più spaventoso di ciò che rappresenta.
Dovrebbero trovargli un nome più aggraziato, che so, farfalla.
“Sua madre ha una farfalla in un polmone”, suonerebbe rassicurante, innocuo.
Non rimanderebbe immediatamente a qualche cosa che ti vuole mangiare vivo, che ti divorerà fino a fare rimanere nulla di te o di chi ti è caro al mondo.
“La scacciamo la farfalla, signora. Oggigiorno, con le cure a nostra disposizione, stia tranquilla”, e via così: tutto scomparso in un battito d’ali, come non fosse mai esistito.
Osservo le mani di mia madre, che tremano appena nel gesto di governare le uova nella fontana di farina e zucchero.
<<Aggiungimi il burro, che altrimenti sporco dappertutto. L’anno prossimo non le faccio. Tutta questa lavorata per poi ingrassare, sia io che tua nonna!>>
Il suo ciarlare mi fa salire un mal di testa feroce, repentino. Vorrei spazzare con una manata la farina dal tavolo, vedere il giallo delle uova schizzare sui mobili bianchi della cucina, sentire lo schianto della ciotola di ceramica sul pavimento.
Fa finta di niente, come se fingere fosse abbastanza per tutti, come se servisse a distogliere l’attenzione dalle vene blu che attraversano le sue braccia magre.
Se non avessi paura di spezzarla, la scuoterei, le direi di smetterla, la stringerei, la schiaccerei, la terrei con me.
<<Sai cos’ha combinato Battista?>>
<<No, cosa?>>, mi sforzo di sostituire il nero che ho nella testa con l’immagine del matto del paese.
<<Ha chiesto alla vedova di Cerutti di sposarlo!>>
<<”Sei bella giovane, mi piacciono le donne giovani, mica le vecchie”, le ha detto!>>
Imita i modi di Battista come sanno fare tutti in paese. Non è cattiveria, danno un’occhiata che non si metta nei guai e in cambio si prendono almeno il divertimento di ridere per quello che combina.
Metto gli amaretti nella pentola, insieme alla frutta che sta già bollendo da tempo ed è ormai poltiglia, spengo il fuoco e continuo a mescolare. Provo un inspiegabile conforto nel compiere questi gesti rimasti immutati dalla mia infanzia.
<<Togli i chiodi di garofano, che altrimenti si sentono troppo>>.
Cerco la retina in mezzo alla frutta e la estraggo con il cucchiaio di legno, il profumo mi inebria.
<<Mamma, sono tornata! Il nonno mi ha fatto fare quattro giri sulla giostra, ho preso il codino!>>
Mi figlia è prova vivente dell’infallibile valore della genetica: parla quanto mia madre, se non di più, e peccano nell’ascolto, entrambe, in maniera commisurata all’età.
Mio padre entra poco dopo, è affaticato per la passeggiata, ma sorride.
<<Posso fare i biscini di pasta? Posso, nonna?>>
<<Vieni, ti aspettavamo perché belli come i tuoi non li fa nessuno, però lega quei capelli lì>>.
Amelia gira più volte un elastico intorno ai suoi ricci scuri e tira su le maniche fino ai gomiti, prima di mettersi in ginocchio sulla sedia accanto a mia madre.
<<Faccio una pausa, visto che hai una nuova aiutante>>.
Esco sul terrazzino, mio padre è sulla sua sedia di plastica, ha una Marlboro tra le dita e osserva il fumo salire dalle braci.
<<Ti fa male>>.
<<La gastrite me l’ha fatta venire tua madre in quarant’anni di matrimonio. Tuo marito viene?>>
<<No, ha un convegno questo fine settimana, e poi sai che non gli piace stare a tavola a lungo>>.
<<Per il bene della bambina, uno sforzo lo poteva fare>>.
Mi appoggio alla ringhiera con la schiena e incrocio le braccia: <<Sei sicuro che vogliamo parlare del mio matrimonio proprio oggi?>>
<<Tieni, va>>.
<<Non fumo>>, rispondo ulteriormente infastidita senza guardarlo in faccia.
<<Sì, certo, lo vedo come guardi la fiamma quando me ne accendo una>>.
<<Mi nascondo in bagno, come a sedici anni>>, l’ho detto.
Stringe le labbra e fa il suo gesto con l’indice e il pollice che si uniscono, quello che dice “come volevasi dimostrare”.
<<Andrea entro fine anno si trasferisce, gli hanno proposto un contratto su Roma, dice che è una buona occasione e che gli hanno garantito che potrà tornare due fine settimana al mese>>.
<<E quando lo dite ad Amelia? Volete fare i moderni, quelli che si lasciano con dignità. Prendilo un po’ a calci quell’uomo senza attributi che hai sposato! Si lascia una bambina così, dall’oggi al domani, dopo che avete finto di fare la bella famiglia per anni?>>
Vorrei rispondergli a tono, una bella litigata come ai vecchi tempi, qui, sul terrazzo, con tutto il condominio che ascolta. Probabilmente farebbe bene ad entrambi.
<<Dammene una, va>>, mi arrendo.
Mi passa il pacchetto e l’accendino, <<Scusa>>, mi dice a mezza bocca.
La malattia di mia madre lo sta consumando. Lei se la mangiano le farfalle, lui il dispiacere di non saperla aiutare, e la separazione tra me ed Andrea non fa che aggiungere una variabile al sistema impazzito delle nostre esistenze.
<<Non vuole riprendere le terapie, dice che la fanno stare male, che le fanno perdere la lucidità e invece lei vuole essere presente, per il tempo che resta>>.
Me lo dice tra un tiro e l’altro, senza alzare lo sguardo dalle piastrelle rosse del balcone. Lo vedo che si fa violenza per comunicarmi cose che non vorrebbe sentire, tantomeno dalla sua stessa voce.
<<Ci parlo io>>.
Mi fa cenno di no con la testa, è così invecchiato. Ha le spalle curve di chi sopporta un peso troppo grande, sia da portare da solo che da condividere.
<<Ci ho pensato, Anna, ci ho anche litigato, lo sai che io e lei con calma non sappiamo parlarci. Ma quando la porto in ospedale e la lascio in quella stanza bianca, con i separé che dividono il suo male da quello di altri disgraziati come lei, dovresti vederla…>>, respira forte dal naso senza riuscire a concludere la frase.
L’ho vista di ritorno dalle sedute e so bene quali immagini mio padre sta cercando di togliersi dalla mente.
<<Non ce la faccio ad obbligarla, Anna. Mi sento di non averne il diritto>>.
<<Mamma, nonno, venite a vedere!>>, Amelia ci chiama, come rispondendo ad un muto SOS che salva temporaneamente entrambi dal naufragio.
Le torte sono bellissime, mia madre è pallida e si appoggia allo schienale di una sedia.
<<Adesso la nonna va a riposarsi un po’ e noi aspettiamo che le torte cuociano>>.
<<Povere voi, se me le fate bruciare!>>, trova la forza di dire, prima di porgermi il braccio per farsi accompagnare nella sua stanza.
La aiuto a togliere le pantofole, la faccio stendere e le metto addosso il plaid leggero. Non fa freddo, ma la avvolgo piano come si fa con i passeri, per non farli volare via.
Con gli occhi chiusi mi chiede di aprire il primo cassetto del comò.
<<L’anello, quello dell’anniversario, prendilo per Amelia>>.
<<Glielo darai tu per qualche occasione, quando sarà più grande>>.
<<Prendilo e basta>>.
Estraggo la scatolina bianca dal cassetto e la stringo in una mano, ho la forza di dire solo <<Ecco>>.
Le accarezzo la fronte, in un’imitazione inconscia del suo stesso gesto su di me bambina e prima di uscire dalla stanza apro due dita di tapparella, perché trovi un po’ di luce quando si sveglia.
Le torte stanno lievitando nel forno, Amelia sta di guardia davanti all’apertura.
<<Biscini belli così, non li fa nessuno>>, le dice mio padre.
Prendo una sedia e mi metto accanto a loro.
Brava, complimenti. Racconto commovente, narrazione asciutta. Bello il riferimento (non so se volontario o meno), ma comunque bello, a Pirandello de “L’uomo dal fiore in bocca”, che parla di quel tizio che se ne stava tutto il giorno a guardare le vetrine per distrarsi, in quanto aveva un tumore al labbro definito dalla medicia “epitelioma”. La morte che porta il nome gentile, quasi di un fiore: “epitelioma”
Bello. Tutto è dolce, provvisorio e dolente. Un fiore con le spine.
Grazie Gaetano!
Il riferimento non era voluto ma apprezzo molto che tu lo abbia, invece, colto.
Un caro saluto
Grazie Marco, il tuo commento mi è molto gradito
Un caro saluto
Bello, commovente, doloroso.
Grazie, Pasqualina!
La vita cerca sempre un modo per farsi strada, anche nel dolore, anche dove la speranza sembra non avere più ragione di essere.
Questo intendevo, o meglio, intendo fortemente, comunicare.
Un caro saluto, grazie ancora
Giusi, hai usato un tocco leggero, ed è perfetta la trasposizione della tenerezza, della dolcezza, della delicatezza nei rapporti tra figlia e genitori, tra nonni e nipote. E vorrei tanto entrare in quella cucina e abbracciare Anna, questa donna che raccoglie il testimone dalla madre, quell’anello che a sua volta passerà alla figlia, perché anche nelle situazioni più difficili la vita trova il modo di andare avanti.
Brava, brava, brava.
Grazie davvero, Luca. Sai bene quanto la tua opinione conti per me.
Una narrazione straordinaria, tutta costruita intrecciando dialoghi sopraffini, serrati, ultrareali, senza l’ombra di un difetto.
Un’emozione che parte delicatamente e cresce sempre più, attorcigliandoti lo stomaco fino all’ultimo, avvolgendoti senza scampo. E poi, un finale mesto, quasi sussurrato… il meglio che si poteva regalare a un lettore per farlo riaffiorare dalla catarsi.
Questo sì che è scrivere bene!
Grazie, Leonardo, le tue parole mi colpiscono per tante ragioni. Alcune sono legate all’emozione di ricevere degli apprezzamenti, altre, più profonde, hanno a che fare con i contenuti che hai saputo cogliere. Grazie di cuore.