Premio Racconti nella Rete 2020 “Natale ad Arabba” di Alfredo Bertuzzi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020Nei giorni di poco precedenti le festività natalizie, mi trovai a sbirciare in-volontariamente entro una finestra in aggetto, che si apriva al piano rialzato di una villetta invero modesta, dal giardino selvaggio, irto di tronchi stecchiti ed anneriti dal gelo; nella stanza ben illuminata, riuscii a vedere solo i colli delle bottiglie, che verosimilmente poggiavano sulla tavola, invisibile da quell’angolazione, ma che immaginavo carica di vivande. E nell’angolo più in om-bra svettava la cima di un abete addobbato con decorazioni sicuramente tramandate da una cinquantina d’anni e luci coeve.
Era l’ambientazione che tormentava ancora la mia memoria dei Natali in cui di-sertai volontariamente la famiglia; era la tavola che ossessionava da tempo la mia immaginazione; era la sala che mi faceva provare il rimorso per un’incom-prensibile ed irrimediabile assenza, quando potevo rappresentare il felice com-mensale che ora non posso più essere, poiché è tutto finito, visto che non c’è più nessuno con cui celebrarlo.
Ma quando ne faccio parola, esortando qualcuno e non commettere quel fatale, ir-reparabile errore, mi accorgo che le risposte rasentano quasi il dileggio, oppure la palese intenzione di darmi garbatamente ragione, come si fa con le persone con cui non si prova gusto neppure a discutere e le si asseconda perché se ne vadano in fretta. Come al solito, chi ne ha facoltà, non ne ha l’intenzione e chi ne ha intenzione non ha più facoltà, proprio come feci io e questo mi addolora troppo.
E la mamma, le nonne, la pletora di zie nubili che aspiravano ad esibire innanzi ai nostri occhi le loro specialità gastronomiche e la loro arte culinaria, se ne sono andate piano piano, travolte da un tempo che a tutta prima pareva lasciarmi indenne, ma neppure quei profetici, inequivocabili segnali portavano in me un ravvedimento. Ora mi attende, per le feste natalizie, una mensa deserta, una ta-vola apparecchiata con vivande mercenarie, anonime ed esangui, giusto castigo della mia improvvida stoltaggine di allora.
Ma veniamo ai fatti, così come si sono succeduti fin da un passato piuttosto re-moto ad un presente la cui memoria mi fa ancora rabbrividire di sconcerto, se non di paura!
In un anno lontano, conobbi una ragazza di Arabba, che salì con una comitiva di altri trentini sull’Alexandra, per una crociera. Com’è, come non è, del resto il tempo ottunde sia la memoria che le sensazioni ad essa legate, ci rivedemmo in seguito svariate volte e sul far dell’inverno, lei mi invitò a casa sua per il giorno di Natale.
Avrei dovuto rifiutare e col senno di poi l’avrei fatto, ma allora le tradizioni, il trovarsi con la famiglia, avevano ben poco significato per me o meglio, non ne capivo la dolcezza, quasi la voluttà che, viceversa, provo ora.
Purtroppo c’era anche del malanimo, della supponenza per ciò che ritenevo un terminale retaggio del passato.
A parziale discolpa, ritenevo andassimo a pranzo in casa sua e ciò mi tentava, ma probabilmente anche lei era divenuta schiva della tradizione, quasi disperato e vano senso di autonomia, spocchioso sfoggio di anticonformismo, che pare con-naturato con la giovinezza.
Così ci trovammo in un ristorante tipico, poco lontano dal paese, elegante, anonimo, ove venimmo serviti con gelida cortesia e irreprensibile stile, in un’atmosfera sterile, di solitudine remota, che assumeva, ai miei occhi di reo, un sapore vagamente ostile.
Poi le cose con Ludovica finirono, non ricordo neppure come, ricordo solo un te-lefono che squillava sempre a vuoto e lettere a cui non c’era mai riscontro, così abbandonai la partita.
Gli anni passarono, a quell’incredibile passo che pare d’ambio e viceversa si rivela un galoppo e crudelmente, la nostalgia del Natale in famiglia, si è insi-nuata nel mio cuore, quando, per ineluttabili eventi naturali, il cerimoniale, quel caro cerimoniale, retaggio di un passato la cui memoria si fa sempre più dolce, non poteva nuovamente essere rappresentato.
Mi amareggiava dover prendere atto che dietro quella principale ricorrenza, ci sono cose che non possono essere comprese per tempo, segreti che non devono venir violati, confidenze che non possiamo più ripetere ad alcuno.
E cominciai a provare la solitudine anche con le compagnie migliori e ben nutri-te, in ambienti anonimi, scontati, tra persone che festeggiavano i regali ed il giorno di riposo, non il Natale.
Verso metà di dicembre di quest’anno, ricevetti un biglietto che con sorpresa si rivelò essere stato impostato ad Arabba: era di Ludovica, che mi invitava, se non avevo nulla di meglio da fare, proprio così scriveva, a trascorrere il Natale a casa sua.
Era sorprendente, come una donna che molti, tanti anni prima non aveva più rispo-
sto ai miei tentativi di contatto, credesse di poter determinare gli eventi, o quanto meno suggerirli. Probabilmente non aveva lei di meglio da fare ed andava a ripescare nelle sue agende i fantasmi del passato.
Bene, le rimetterò i debiti come lei li ha rimessi a me!
Ma l’approssimarsi delle feste addolcì i miei propositi livorosi, così il consueto tarlo della nostalgia e del rimorso, prese a logorarmi i pensieri; va bene, d’accordo, verrò, scrissi in una lettera, perché non avevo più telefono o altro recapito, se non quello diligentemente annotato sul suo biglietto, che faceva seguito agli auguri di prammatica.
Giunsi ad Arabba la Vigilia, in un tramonto interminabile, con una fredda luce glauca nel cielo che era più malinconica delle tenebre; le cime delle montagne scomparivano dietro pesanti vapori bluastri che rendevano fosca l’oscurità incombente.
Suonai al campanello, il cuore mi batteva forte e Ludovica venne sollecita ad a-prire. Nell’attimo in cui la fissai, mi accorsi che credevo, forse addirittura speravo, di vederla come era allora, i capelli biondi e sottili, le labbra piene, color geranio, gli occhi chiari, luminosi nel volto dall’ovale elegante. Mi fissava invece una donna che portava sì ancora le tracce di un’altera bellezza, ma che il tempo aveva implacabilmente avvizzito, appesantito, senza però privarla della grazia e compostezza che erano sempre state sue pregevoli connotazioni.
Solo dopo qualche attimo mi accorsi che anche lei mi stava esaminando con curio-sità e probabilmente analoghi pensieri occupavano la sua mente; il sorriso però distendeva la ragnatela di rughe sottili che quasi ingentilivano il suo volto che il tempo aveva reso austero.
Si chinò per baciarmi contegnosa una guancia ed il suo profumo mi rimescolò un attimo.
Il salotto era caldo, accogliente, illuminato dalla luce pastosa diffusa da un bel lampadario in ceramica di Bassano.
Non appena tolto il soprabito, mi fece cenno di sedere sul divanetto.
Credevo volesse parlarmi del passato e freneticamente cercavo di ipotizzare ar-gomenti, domande e risposte, mentre alla finestra, a cui ormai non brillava che un vago barlume opaco, si accendevano in lontananza i lumi della sera.
Tuttavia Ludovica non parlò, limitandosi a fissarmi ed io, che non sapevo bene quale atteggiamento assumere, tacevo imbarazzato.
Mi accompagnò poi nella camera a me destinata, dicendo di mettermi comodo e che sarebbe venuta a chiamarmi per cena; alla mia occhiata indagatrice, si sentì in dovere di precisare, certamente memore del mio tardivo rigore per la tradizione: di vigilia.
Mi svegliai al perentorio colpo bussato alla porta e, indossato l’abito, scesi nel salottino, ove già sedeva Ludovica, che mi sorrise dolcemente, senza però che quel sorriso dilagasse nello sguardo.
D’un tratto, alle mie spalle, una porta si aprì ed io frenai l’impulso di vol-tarmi, ma sicuramente chi si era affacciato aveva solo porto un cenno alla pa-drona di casa, che, infatti, si alzò, avviandosi verso il locale attiguo, da cui proveniva un vago brusio, cedendomi alla fine il passo.
Dopo un attimo di esitazione spalancai la porta per arrestarmi di botto.
Ero sulla soglia di una luminosa sala da pranzo, scaldata dalla fiamma del cami-no, apparecchiata di tutto punto ed in cui erano intenti a dare gli ultimi ri-tocchi le mie zie, i miei genitori, quella vedova mesta e castigata che veniva chiamata ad ogni festività, le nonne superstiti, avvolte negli scuri abiti della lunga vedovanza. Con sgomento vidi brillare alle finestre la luce del giorno ed il riverbero della neve, che scendeva placida, come nei film edulcorati della mia infanzia, conferiva un particolare candore alla luce smorta che cadeva dal cielo.
Con il cuore gonfio di pena, feci per voltarmi terrorizzato verso Ludovica, ma lei, che nel passato mi confortava solo con carezze dolci e movimenti pacati, lo impedì, poggiandomi due sconosciute mani di ferro sulle spalle, mentre con una voce sottile ed imperiosa, mi sibilava ad un orecchio:
” Voglio che tu veda ciò a cui hai rinunciato volontariamente e voglio che lo ricordi”
La ridda di sensazioni contrastanti mi abbandonò, lasciandomi come un senso di profonda spossatezza e chinai tristemente il capo:
” Non importa che lo riveda, so quanto ho perduto, me ne sono amaramente pentito. E so anche che non rivivrò più la magia del Natale; in quel periodo felice, ogni giorno, anche quelli non festivi, odoravano di magia, di mistero, di meraviglia. Come i giocattoli che mi portava la Befana”
Sì, ricordavo troppo bene quell’atmosfera quasi arcana, quando da ogni vetrina di cartolaio, per modesta che fosse, illuminate da fili di luci tenui ed ingenue, occhieggiavano statuine del presepio, sovente anche artistiche e bocce in vetro, ma non quelle false, pacchiane ed infrangibili, bensì quelle delicate, di vetro soffiato, che si rompevano con un nonnulla.
E le persone, tutte le persone che incrociavo, allora, avevano sulle labbra un sorriso. Ed il solo pensiero della fiera di Santa Lucia mi rimescolava e di cui ricordo ancora, con struggimento, il profumo di muschio e resina che emanava da-gli abeti esposti. E mi sovveniva anche l’irreparabile tristezza che mi coglieva verso l’Epifania, allo sfarinarsi sempre più rapido degli ultimi giorni delle Festività e le luci degli addobbi che intristivano alle finestre e sulle strade, festose ed ammiccanti all’inizio, indifferenti ed opache ora, tanto da parere ormai un surreale simulacro, quasi belletto sfatto di una peripatetica al termine della notte.
Mi trovavo sempre a spiare, in quelle ultime ore di malia, le luci dell’albero e del presepio con l’apprensione con cui si veglia il respiro di un malato. E so-lamente il tenue conforto dei doni che la Befana mi avrebbe fatto trovare l’ul-timo giorno di quel periodo indimenticabile, mitigava la mia malinconia:
” Ti sei pentito troppo tardi e soprattutto non hai espiato”
Pur nell’angoscia che mi sommergeva il cuore e nel timore acquattato nell’animo a quel succedersi di eventi, tanto da dar loro un sapore quasi macabro, la risposta mi venne immediata:
” Credevo almeno che in questa liturgia non valesse la regola del determinismo, per cui una causa debba necessariamente sortire un effetto o per lo meno che lo effetto fosse probabilistico. Credevo insomma che per non dannarsi bastasse pen-tirsi”
Avvertii, anche se non lo vidi poiché le voltavo forzosamente le spalle, un riso ironico apparire sulle labbra di Ludovica( ma era poi Ludovica?)che però non al-lentò la sua morsa:
” E da quando in qua sono i peccatori a stabilire la penitenza?”
Intanto le figure in sala stavano prendendo posto, senza mai volgere lo sguardo nella mia direzione, quasi io fossi invisibile. O assente, come mala consuetudine.
Vidi anche un uomo con qualche maldestro frinzello nell’abito e le scarpe sdru-cite, certamente il derelitto che i miei chiamavano a tavola con loro il giorno di Natale.
Fuori la neve cadeva incessante, ammucchiandosi sul davanzale, in una luce tor-bida da giorno intercalato nel tempo:
” Va bene, dimmi quale dovrà essere la penitenza”
La presa sulle spalle si ammorbidì un tantino:
” Ogni Natale, per tutti i Natali che ti restano da vivere, ricorderai questa sce-
na, che altro non è che la ripetizione dell’ultimo Natale che avreste dovuto trascorrere tutti insieme. Ricordi dov’eri invece?”
Arrossii e chinai il capo. Sì lo ricordavo, una meta che non valeva la metà di ciò che avevo perduto:
” E’una penitenza che sconto già”
” Credi? Ora però sai che non avrà mai fine”
” Non c’è dunque redenzione?”
Le persone a me care avevano iniziato a pranzare, in allegria. Solo mia madre e mio padre guardavano con tristezza la mia sedia vuota. Allora capii che non meri- tavo il perdono, l’assoluzione e che” nihil inultum remanebit”.
Una puntuale teodicea mi puniva non tanto per il male fatto, ma per il bene che a-
vevo omesso di fare.
L’orologio a pendolo scoccò il primo rintocco dei dodici del mezzogiorno ed un
pezzo di sala scomparve, quindi, via via, ad ogni colpo, interi settori svaniva-
no, quasi un palcoscenico in cui vengano smontate le scene e gli attori se ne vadano alla spicciolata, mentre le luci al lampadario si spegnevano in successio-ne.
E a nulla valse tendere le braccia a quelle figure che svanivano, mentre lacrime silenziose solcavano il mio volto, similitudine di quelle che versai a suo tempo sulla festa che finiva.
All’ultimo rintocco, la presa ferrea sulle spalle scomparve ed io sospirai nell’a-prire gli occhi, nel buio della stanza al primo piano in cui Ludovica mi aveva accompagnato poco prima.
Era la mezzanotte che dava l’avvio ad un altro Natale incompiuto, di nostalgia pe-
sante come piombo ed alla porta stavano delicatamente bussando.
Per te scrivere bene è proprio un viziaccio, allora!
Non capisco tutti questi problemi formali di editazione presenti nel testo.