Premio Racconti nella Rete 2020 “Scrunt” di Vito De Lucia
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020(come a dire “E mou belin”)
Scrunt:s.m. (anglicismo onomatopeico), 1)schiocco o tonfo da impatto con superficie turgida e molto tesa, 2)(arcaico popolare)pallone da calcio.
Si fa presto a dire “Palla”. Intanto… è un pallone, non una palla, e poi c’è pallone e pallone.
Di solito si parlava di quello rosso o blue di plastica con i pentagoni neri stampati sopra, 500 lire dal cartolaio. Se riuscivi a mettere insieme una decina di persone, con una colletta potevi persino permetterti di comprartene uno nuovo ad ogni partita. Però… Non era rigonfiabile, le traiettorie erano irritantemente sinusoidali e in più spesso si afflosciava sul piede di un tiratore particolarmente violento. No, non era serio… Andava bene solo per il gioco dei “passaggi”: quello che si prendeva buona parte dei nostri oziosi pomeriggi estivi. Quello in cui la serranda chiusa di un garage diventava la linea da violare ed il frastuono sgangherato della saracinesca percossa validava effettivamente la segnatura. Sì, ma il pallone a pentagoni non andava bene per una “partita vera”.
C’era anche un’altra alternativa: sempre di plastica, s’intende, ma arancione, il mitico “Santos”. Era ufficialmente rigonfiabile e piuttosto pesante, e in più, se volevi, potevi anche farlo passare per palla da basket (sì, d’accordo, era un po’ troppo piccolo, ma battubelin). Costava anche parecchio e questo modello abbondava di solito solo dopo Natale, ma a Pasqua già non se ne trovava più, che, vabbè che lo davano per rigonfiabile, ma mica vuol dire che poi l’aria del rigonfio ci rimane davvero dentro… Peccato però, perché questo era un pallone simpatico e ogni volta che batteva per terra faceva un verso strano come di molla che improvvisamente scatta fuori dal materasso… boiiinnnn. Si, comunque, a parte questo, ti sembra serio giocare una “partita vera” con un pallone da spiaggia che ogni volta che rimbalza fa due volte la tua altezza? No, dai, un minimo di professionalità…
No, no, la soluzione c’era, eccome, solo che tutti noi si aveva quasi timore di pronunciarla, quella parola. Timore atavico del tipo “Non nominare il nome di Dio invano…”. Anche perché se solo osavi accennare che ci sarebbe stato bisogno di “quello”, c’era lì sempre qualcuno pronto a dire che la stavi facendo fuori dal bulacco. No, non era proprio timore. Pudore piuttosto. Riverenza. Quell’oggetto veniva manipolato e calciato solo dagli dei. Per noi bambinetti, il possederlo, gonfiarlo e prenderlo a calci andava ben oltre la profanazione. Sicuramente ti ponevi il problema se metterlo nell’elenco dei peccati da riportare in confessione dopo la “dottrina” del sabato pomeriggio: tra quelli di gola e … di tatto. Al massimo potevi fare un riferimento generico al ”pallone di cuoio” che avevano regalato a tuo cugino, che tanto abitava lontano e chi poteva controllare che fosse vero? Ma quella parola, “la parola”, non era da pronunciarsi.
Se ne parlava, certo: c’era sempre il conoscente di qualcuno che era riuscito ad acchiapparlo al volo una domenica allo stadio “vero” approfittando di un tiro sbilenco in gradinata. Era anche riuscito a giatarlo e portarlo fuori a partita finita. Forse. Beato lui. E comunque, diceva il narratore, con quello mica ci si giocava, ora. No no, ma ciocchi davvero? E’ in salotto, sul buffet, in un piatto da portata. E quando arrivano gli amici del papà, hai voglia a raccontare l’azione che poi ha spedito questo regalo diritto nelle tue mani… Il tiro di Cristin, il grande centravanti della Samp. E si è pronti a giurare che Cristin, dopo essersi messo le mani sulla faccia, abbia guardato in gradinata e ti abbia trovato, lì, con il suo pallone in grembo. E ti abbia guardato negli occhi, come dicesse “Te lo affido, e ricordati che le nostre vite per un secondo si sono incrociate, fa’ il bravo”. E così la mattina dopo a scuola… “Cristin mi ha guardato”. E poi a mezzogiorno.. “Cristin, ha gridato di rilanciargli il pallone”. E poi la sera… “Cristin, ha voluto vedermi negli spogliatoi e ha detto che viene a casa mia e che mi regala uno sc…, ehm, un altro pallone nuovo con il suo autografo”. E poi la settimana dopo… “Io e Cristin siamo amici e mi ha chiesto se voglio fare un provino nella Samp”. E poi un mese dopo… chi lo sa più davvero a che punto la fantasia ha cominciato ad ammiccare?
Ma un bel giorno, qualcuno ruppe gli indugi. Non era Natale e neanche Pasqua, forse primavera.
Enrico venne giù dal suo palazzo con due pacchi avvolti in carta da imballo beige chiaro Avana. Si piazzò in mezzo al campetto e aspettò furbescamente che montasse la curiosità di chi di noi stava da quelle parti. Finalmente, appena qualcuno gli si avvicinò, lui cominciò a scartare i pacchi. Nel primo c’erano sei maglie color granata, una maglia nera, numeri di plastica bianca dall’uno al nove, quattordici calzettoni granata con il risvolto bianco ed infine sette paia di pantaloncini così bianchi che sembrava quasi che ci avessero la luce dentro.
Che bello! Tutto nuovo! Chissà quanto era costato. Eppure Enrico fa le medie come noi. Boh. Soassài. Ma certo è che lui, Enrico, traeva da quel momento il massimo della ritualità possibile. Noi tutti gli facevamo mille domande… “Me ne fai provare una?”, “Posso essere tuo amico?”, “Se mi metti nella tua squadra, gioco anche in porta”… ma lui stava in silenzio e, incurante, continuava a fare l’inventario del pacco. Alla fine, sempre con fare sacerdotale, allungò le braccia verso l’alto e noi ci chetammo tutti in un secondo: prese in mano l’altro pacco e cominciò ad aprirlo, con compiaciuta lentezza. Si udiva solo un pochino di vento, qualche grillo e l’accartocciamento della confezione in carta da pacchi.
Infine apparve. Lui. Lo SCRUNT, In tutta la sua lucente sacralità. Gialla. Lucida. Enrico lo guardava come il figlio appena nato dopo lungo travaglio, con soddisfazione e tenerezza. Noi parlavamo, sì, ma sottovoce, per rispetto del momento. “Come è rotondo!!!”, “Sembra quello di Cristin”, “Ed è gonfio preciso!”, “C’ha anche un buon odore…”. “Io ci avrei strizza a giocarci… che se poi si sguara?”. Mai si fosse detto! Enrico aprì bocca in modo perentorio e minaccioso “UNO SCRUNT NON SI SGUARA, Uno scrunt è eterno, con questo ci giocheranno i miei figli!!!”. (“Giusto”, “Enrico non dice belinate”, “E’ vero! Anche il pallone di Cristin è eterno”).
“Ma dove hai trovato le palanche?”
C’è sempre un prosaico in ogni famiglia e Aldo questo ruolo lo ricopriva perfettamente, soprattutto se si trattava di Enrico, il suo nemico di sempre. Aldo… camicina bianca maniche corte senza cravatta ma chiusa fino al collo, calzoni grigi lunghi ma i cui bordi spolveravano l’alta zona della caviglia, un ciuffo un po’ oleato a coprire volutamente parte della montatura dei grandi occhiali alla Peppino di Capri. Più diligenza che intelligenza, e comunque curriculum scolastico migliore di quello di Enrico: l’unica cosa che davvero li accomunava, in realtà li separava irrimediabilmente: entrambi erano ambiziosi attaccanti.
“Con il mio nuovo lavoro” (Enrico era chiaramente contrariato dalla domanda e rispondeva con una cantilena di scherno).
“Ah, a 12 anni hai già un lavoro? E la scuola?” (ma come faceva Aldo a non concentrarsi sull’idolo giallo rotondo invece di fare domande del belino?) .
“Lavoro la sera” (Enrico stava perdendo la pazienza… e il buon umore).
“Lavori in Via Gramsci, di sera?”
“Sei un galuscio. Se vuoi saperlo, faccio il batterista in un complesso inglese che suona di sera in un locale di Arenzano”.
Tutti noi ci eravamo distolti di colpo dall’idolo e seguivamo lo scambio di battute. Forteeee! Enrico suona in un complesso. Proprio giusto che Enrico sia il capo qui da noi. E’ uno asperto. Guarda come si veste ganzo: capelli neri a caschetto un po’ ondulati con frangetta sugli occhi, camicia a fiori, con il colletto lungo a biscotto, tutta incollata al torace, cinturone con fibbione in finto bronzo “make-love-not-war”, braghe a vita bassa di velluto verde prato attillate e strette fino alla caviglia. Stivaletti di pelle nera a punta con elastici sui lati. E hai visto sul davanti delle braghe? Hai visto che bel rigonfiamento ci ha? Avrà solo 12 anni ma lui è uno che beccia.
“Un locale di Arenzano? Un naits, vuoi dire ? Ma se non li fanno neanche entrare quelli con meno di 21 anni…”
“Io ho fatto credere di averne 16 e di essere inglese, così non devo parlare. Il proprietario ha chiuso un occhio anche perché è amico del capo complesso che si chiama Shel Shapiro.”
“Sarà… E come si chiama il complesso?”
“TeRokes, ma si pronuncia Te Rocs”.
“Mai sentiti”
“Sono già famosi in Inghilterra. Mio fratello ha tutti i 45 giri.”
“E hanno preso te come batterista? Il massimo che hai battuto finora è stato il marciapiede…”
“Meglio battere il marciapiede ogni tanto che essere un buliciotutta la vita come te. Comunque, il loro batterista se n’è tornato in Inghilterra, allora un amico del biliardo dove vado io me lo ha detto. Io mi sono presentato e… mi hanno preso.”
“Anche se non hai mai preso una bacchetta in mano? Bei belinoni‘sti inglesi…”
“Beh, tanto suoniamo in pleibece poi… non è che mi pagano proprio… mi fanno dei regali.”
Enrico si accorse subito di aver abbassato troppo la guardia e Aldo non si fece pregare. Rivolgendosi a tutti i presenti…
“Sentito? A Enrico ci fanno i regali… e in cambio tu cosa gli fai? Gli sbottoni la braghetta?”. E cominciò a ridere. Da solo. Noi tutti eravamo disorientati e in silenzio, ma cercavamo una buona spiegazione per la storia di Enrico, che, in effetti, richiedeva davvero troppa benevolenza per essere creduta.
Esce Pig che sentiva un gran bisogno di farsi sentire dal basso dei suoi 70 cm di statura, e dice”Mae Puaè mi fa sempre i regali quando dico le poesie…”
E Aldo. “Altro che poesie… questo glielo prende in mano…”.
Enrico cercava un tono da darsi, ma si capiva che la sua rabbia stava salendo a una soglia pericolosa… molto pericolosa…
Abbandonò per un secondo i suoi pacchi e si avvicinò lentamente ad Aldo.
“Che belino vuoi sugare?”
“Io nessuno, ma mi pare che tu, invece, di sugare belini te n’accapisci”.
“Ritira…” gli intimò Aldo con tono di voce basso ma inquietante.
“E cosa ritiro a fare? Io posso anche non dirlo, ma tu lo sughi lo stesso. Lo sanno tutti che tua madre lo suga in giro e tuo fratello è un buliccio di mestiere… Sarai mica diverso tu…”.
Noi tutti facemmo istintivamente un passo indietro, forse per non essere schizzati dai fiotti di sangue che sarebbero volati di lì a poco.
Nel dire le ultime frasi, la voce di Aldo aveva cominciato a tremare e a diventare flebile. La spavalderia stava pian piano facendo spazio alla paura. In tutte le tante tenzoni con Enrico, Aldo le aveva sempre prese di santa ragione. Aldo sapeva che le avrebbe prese ancora. Che Enrico gli avrebbe fatto male. Forse molto male. Ma tant’è …
E il piccolo Pig tentò la sua ultima carta conciliatrice: “MoliloEnri che cià i spegetti”. Enrico girò lo sguardo minaccioso verso Pig come a dire “Non ti permettere di dirmi cosa devo fare…”.
Esitazione fatale. Aldo corse verso la zona dei pacchi e cominciò a prendere a calci senza pietà maglie, calzettoni, pantaloncini, a calpestarli e a sporcarli di terra… fin quando non rimase davanti a lui soltanto la sfera gialla.
Enrico era rimasto letteralmente impietrito. La rabbia oramai aveva varcato la soglia della reazione e già entrava nei territori delle abulie impotenti… E lui non ci poteva fare niente se una lacrima, la bagascia, cominciava a scendere. E forse se la prendeva più con se stesso che con Aldo. Che se qualcuno vedeva quella lacrima o quel tirar su col naso… ti saluto Marianna.
Ma ci pensò Aldo a toglierlo dall’inerzia. Prese la ricorsa e colpì lo scrunt con tutta la forza puntando di preciso verso la base della collina di cui il campetto era un’alta terrazza. La traiettoria della sfera si inarcò fino al primo piano del palazzo nella terrazza di sotto, poi cominciò a scendere lentamente rimbalzando sugli orti della quarta terrazza, colpendo le piccole serre di nailon della terza, spiaccicando i pomodori della prima per poi finire il suo civettuolo palleggio in mezzo alla camionale che c’era in fondo… e perdendosi alla vista negli urti da flipper con le macchine di passaggio. Era la fine: perduto, nel migliore dei casi per un camionista giataiolo,oppure sguarato dalle ruote di un cammio a rimorchio oppure cacciato da un rimbalzo irriverente oltre il muro dell’Italsider…
Noi stavamo ancora guardando, mano alla fronte, la trista fine del sogno (“io non l’ho potuto neanche toccare!”, “mi piaceva vedere se era proprio così rotondo preciso”, “poverino…”) quando sentimmo l’urlo di Enrico. Non era neanche un urlo. Era un suono gutturale di uno strazio indicibile. Di quelli che ti lasciano sempre una cicatrice nel tempo. Di quelli che non guariscono mai del tutto. Di quelli, che, a raccontarli, rompono la voce a distanza di anni. Di quelli che macellano per sempre un po’ della tua ingenuità infantile. Di quelli che, poi, da grande, dirai a te stesso “Era solo l’inizio…”.
L’urlo non si era ancora spento quando Aldo era per terra in mezzo al sangue e ai frantumi dei suoi occhiali alla peppino di Capri. Enrico, a cavallo, su di lui continuava a martellare con il pugno destro che si sporcava sempre più di rosso eAldo ad ogni colpo ripeteva: “Bastardo!”, “buliccio!”, “Figiu de ‘na bagascia”, “Picchia, picchia che tanto non mi fai niente”…
L’ultima cosa che ricordo erano “i grandi” che scendevano a scapicollo dai due palazzi intorno, a staccare Enrico. “U l’amasa”, “Caccighe l’aegua” gridavano tutti…
Noi, i piccoli, stavamo a guardare con gli occhi umidi, ma davvero non ci avevamo testa di fare niente… era una di quelle cose che non si capiscono bene… che ci avrebbero fatto tornare a casa a testa bassa, senza merenda, senza voglia di pane e marmellata gettato giù dal poggiolo nella carta da zucchero chiusa con l’elastico. Ci si guardava a vicenda con imbarazzo e quasi di nascosto: “Che c’è da dire? Che c’è da fare? Chi ci ha voglia adesso di ripassare le equivalenze per domani?”… Era una di quelle cose che ti fanno perdere la strada, forse perché questa volta non sei tu a voler imitare i grandi, sei proprio tu invece a trovarti in una veste da grande: ma tu i grandi ancora non li capisci… forse li subisci… come fai a capire le cose “da grandi” che succedono a te? Come fai a farti venire ancora la voglia di diventare… grande prima o poi?
Glossario di “Scrunt”
da SCRUNT, come a dire… “E MOU BELIN”
E mou belin: locuzione dialettale genovese, dal complesso significato molteplice che va dal “Accidenti! E’ incredibile!”, come nel contesto attuale al “Chisse ne frega”, ovvero al “…E figuriamoci, non ci penso nemmeno” e al “Siamo alle solite…”. la locuzione è tuttavia in progressiva obsolescenza. Nel contesto del racconto serve proprio a richiamare un tipo di espressione infantile paradialettale tipico degli anni 50 e 60.
Soassài: loc.”E che ne so io?” Intercalare difensivo che serve a guadagnar tempo e ad allentare il collegamento soggettivo tra la persona che parla e i fatti descritti (e quindi la veridicità dei fatti stessi). Letteralmente “Ne so mica tanto io…”.
Sguara; Sguarare: v.t. Lacerare drammaticamente. L’onomatopea del verbo è già particolarmente significativa.
Galuscio: s.m. (dial. genov.). volg. Stronzo, pezzo di merda. La storia etimologica sembra curiosa perchè il significato secondario di persona fetente e viscida in realtà in questo caso assume priorità semantica e pare provenire direttamente dall’assonante termine “gallusso” e cioè “galletto arrogante”. Ancora più curiosa è la derivazione di gallusso come termine dispregiativo principalmente collegato alle ragazze. “Fa o gallusso” “fare la civetta, ruzzare con i giovanotti”.
Shel Shapiro:nome proprio di pers. Caso emblematico di mista verità. Non c’è dubbio che nei primi anni ’60 Shel Shapiro fosse il leader dei Rokes. Un po’ meno credibile appare che, in cerca di un nuovo batterista, i Rokes abbiano utilizzato il passaparola nei bar “generici” anziché nel tradizionale circuito dei “musicisti disoccupati” o dei turnisti da sala. E’ chiaro che Enrico la sta raccontando grossa, ma in fondo non si era preparato a dover giustificare la copertura economica del suo acquisto. Copertura peraltro che deve avere avuto in realtà un’origine non del tutto cristallina… quindi per non dover raccontare una verità dolorosa si inventa lì per lì una bugia completamente improbabile, e comunque la prima che gli capita in mente. Povero Enrico che si trova a dover giustificare anche un gesto di amore verso i suoi compagnucci…
Via Gramsci: nome proprio (urban.). Strada del centro storico di Genova. Tradizionalmente centro di raccolta di passeggiatrici , travestiti e fauna varia angiportuale. In realtà, dopo la creazione del Porto Antico e l’approntamento della rete metropolitana, Via Gramsci sta diventando un quartiere meno degradato, nonostante la forte prevalenza di residenti extracomunitari (a fianco ci sono altre vie oramai famose nel mondo come Via Prè e la deandreiana Via del Campo). Tuttavia ai tempi dei nostri fatti “lavorare in Via Gramsci” era un chiaro insulto (e.g.: “fare la vita”).
Arenzano:nome proprio (urban.). Ai tempi dei fatti Arenzano era quasi una località di Riviera, un centro di “resort” marini si direbbe oggi. In realtà negli anni ’50 e ’60 si era in piena epoca “rotonda sul mare” e Arenzano aveva proprio tutte quelle caratteristiche che facevano furoreggiare i “naits” da riviera. Ospiti consueti i Buscaglione, i Marino Barreto, i Carosone etc. Francamente questi “naits” non erano proprio i posti adatti per i complessini “beat” come i Rokes che si ponevano di fatto in netto antagonismo rispetto ai “dancing”, ai locali notturni e anche alle povere balere di periferia. Ma Enrico doveva cercare di trovare per la sua tenera bugia un’ambientazione sufficientemente sconosciuta e non riscontrabile. E non c’era nulla di più distante dalla sua esperienza personale (e quindi presumibilmente da quella dei suoi coetanei) di un “nait”.
Bulicio. (dial. genov.). volg. Omosessuale, finocchio, pederasta. Il termine è quello più offensivo presente nella gamma dei sinomini disponibili e richiama in analogia e gravità solo il termine “checca”. Ma vi è in più associato un elemento di ulteriore spregio all’interno della categoria stessa. Insomma: “checca da 4 soldi”.
Pleibec:(storpiatura anglic.) dall’inglese “Play back”. Per la cultura del bel canto italico negli anni ’60 suonare e cantare in “pleibec” equivaleva a rendersi responsabili di truffa. In realtà quello che i giovani già coglievano e che i “grandi” non ancora percepivano era che stava finendo per sempre l’epoca del grande cantante capace di interpretare allo stesso modo canzonette e romanze d’opera. Tale figura veniva oramai sempre più frequentemente soppiantata dall’”urlatore” dotato di chitarrone e poi, come passo successivo, dai “complessi” di “capelloni” per i quali la cosa più importante non era più il canto bensì il sound complessivo degli strumenti. Quindi se questi ultimi venivano riprodotti in plaibece non dal vivo nessuno in platea si lamentava, anzi, un significativo valore aggiunto nell’onda “beat” che stava per sopraggiungere in Italia era la capacità di riprodurre dal vivo in maniera quanto più fedele possibile il suono già registrato sui 45 giri di successo. Da qui in poi il passo verso la “HIFI” mania sarebbe stato molto breve.