Premio Racconti nella Rete 2020 “La profezia” di Bruno Balloni
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020Siamo sotto un violento bombardamento e la notte è illuminata dai traccianti delle mitragliatrici e dalle esplosioni dei tiri di mortaio da diciassette centimetri. La trincea è una palude viscida e maleodorante. Acquattato nella melma gelida non sento più i piedi, la divisa è incrostata di fango dalle ghette al bavero, la poltiglia mi ricopre mani, collo, faccia. Ne ho perfino sotto all’elmetto.
Gand è il maggiore. Mio fratello, somiglia a un folletto spiritato dagli occhi accesi che strabuzzano anche mentre dorme. Disordinati ciuffi gli fuoriescono dall’elmetto. Sbracato e a gambe larghe accende una sigaretta senza filtro sfregando un fiammifero su unghie simili ad artigli, poi siede su un roccione e stringe il moschetto sul petto, come un bimbo spaventato e al contempo sfrontato. Ma né il fucile né Gand hanno paura. Aspettano solo di sparare e uccidere.
«Fai la nanna alla spingarda, fratello?» Sono giorni che non apro bocca, chiedo solo per ricordare il suono della mia voce che riconosco appena. Quello che cerco sono conferme: sono ancora vivo? Ho la gola secca e la sete mi assale all’improvviso.
Sono ancora vivo.
Gand slinguazza la canna della spingarda con fare osceno. «Se ne avrò cura, lui farà altrettanto.»
È tutto quello che ha da dirmi. Non so quanti uomini abbia ammazzato. Se cento o nessuno.
In trincea c’è anche mio fratello Vinicio, il più piccolo, il più spaventato. Accucciato sulla bisaccia tira su con il naso. È congestionato da giorni, sottopeso, il viso smunto e una rada peluria. Ha un aspetto esanime e dei tre è il più morto che vivo. Si esprime a fatica e spesso è silente ed evasivo. Ho paura che un giorno o l’altro si spari un colpo in bocca.
Io faccio quello che devo. Sparo a tutto quello che riverbera sulla trincea. Il tenente ha ordinato di far fuoco anche sui moribondi. Amici o nemici, quella mota rende i corpi smembrati tutti uguali. Do una sventagliata di carabina per coprire le grida strazianti che odo da lontano; le urla di dolore non hanno idioma, parlano la stessa lingua, e se il nemico di là dalla trincea mormora preghiere a denti stretti, noi non lo sentiamo. Né ce ne curiamo. «Morite in silenzio!» Accompagno la mia esclamazione con una roboante bestemmia e rido e subito dopo piango… prima di questo inferno non avevo mai bestemmiato… prima
– Sergente Giona! – Il tenentino.
Alza la voce, è il massimo che riesce a fare.
Mi comanda di riorganizzare le truppe, un bombardamento tanto intenso precede sempre un assalto. C’era bisogno di lui per scoprirlo. Il tenente è arrivato la settimana scorsa con la divisa immacolata, impeccabili guanti in morbida pelle di vitello e la erre moscia. Viso imberbe e capelli profumati di brillantina. Tutti si domandano come faccia a muoversi per il campo senza imbrattare la magnifica uniforme. Non che si veda spesso in giro, se ne sta sempre rintanato nella casamatta che lascia solo per raggiungere le latrine ogni volta che arriva un portaordini.
Gand mi fa un cenno. Le dita appena visibili che fuoriescono dai guanti laceri. Beve grappa dalla borraccia, la butta giù come acqua di fonte e sghignazza. Bercia che il tenente si caga addosso all’idea che dallo Stato Maggiore giunga l’ordine di lanciare un contrattacco. «Coniglio di un ufficiale», brontola rauco, e beve un altro sorso di cordiale.
Per le reclute e i novellini noi tre fratelli siamo I Veterani. Altri ci chiamano I Tre Moschettieri. Siamo sopravvissuti a non si sa quanti assalti alla baionetta. Su queste vette dure e spazzate da gelido nevischio Siamo Leggenda. Si è sparsa la voce che portiamo fortuna e i commilitoni fanno di tutto per restarci vicino. Nessuna paura della morte, se prima di attaccare ci facciamo forza ubriachi di acquavite che ci brucia in corpo, mentre sbilenchi andiamo incontro al sibilare di proiettili e granate. Il coraggio è degli audaci e la sfrontatezza per chi beve troppo.
Ancora bombe sulla testa. Riprendiamo fiato scaraventati nei crateri scavati dall’artiglieria che presto si riempiono di una fanghiglia melmosa che puzza di latrina e ti risucchia come sabbie mobili. Cerchiamo le ultime stille di coraggio e di nuovo bracchiamo l’ignoto inciampando sui cadaveri o su quanto resta di loro. Un’altra robusta sorsata di cordiale e insensibili ridiamo sguaiatamente dei nostri compagni dilaniati dal fuoco delle mitragliatrici.
Nemico: tu stai al di là della barricata e stiamo venendo a prenderti.
Anche oggi vi abbiamo combattuto con coraggio. Abbiamo osato e vi abbiamo sconfitto.
I tre moschettieri e i loro commilitoni hanno vinto.
Guadagnato duecentocinquanta metri e perso centoventisei uomini.
Adesso è sera ed è ora di rientrare.
Gand.
Tobia.
Vinicio.
I fratelli Giona.
Sempre uno fianco all’altro. Ecco rientrare i veterani. Dei neri spauracchi sghembi con il moschetto a tracolla che ricurvi reclamano scatolame ghiacciato e carne secca. A pancia piena, piegati come animali raccolti attorno al tepore del fuoco, passiamo olio di lino alle maleodoranti piaghe suppuranti, alle mani scorticate e fibrose, dure come corteccia, e a piante di piedi livide e martoriate quanto quelle del Cristo sulla croce.
Con quel cielo ultraterreno che ci soverchia, Gand mi scruta con l’elmetto calato sugli occhi.
Si accende un toscano rimediato chissà dove. «Ora tocca a lui», bisbiglia.
«Chiamalo col suo nome», gli fa eco Vinicio, flebile. Si è slacciato il colletto infeltrito e con la baionetta si scortica il collo e la barba infestata dai parassiti.
Io abbraccio il moschetto e rispondo per bocca di Gand. «Tocca al Nemico. Sta a lui adesso venire a farsi massacrare.»
Gand ride, gli occhi sono spiritati «Sì fratello, ma questa volta moriremo ed io sarò il primo ad andarmene, ma neppure me ne accorgerò.»
Un innaturale e spaventoso, terrificante silenzio cala dopo le sue parole «Che cazzo dici fratello! Noi siamo Leggenda, gli immortali fratelli Giona.»
Vinicio piange a dirotto e trema come una foglia, quasi come se la gelida mano della morte lo avesse accarezzato, Gand mi si avvicina «Non avere paura di morire, non cambierà nulla, passeremo solo dall’inferno dei vivi all’inferno dei morti.»
Inizia a piovere e violenti scrosci d’acqua mi mondano il viso dalle sozzure della guerra. Gand e Vinicio si allontanano dal fuoco agonizzante e tratteggiano due ombre scure in cerca di riparo. Resto lì finché qualcosa di grosso e viscido mi si arrampica sulle gambe in un guizzare ripugnante, poi una seconda irsuta creatura mi percorre il braccio scambiandolo per una mulattiera di transito. I topi prendono possesso dei bunker.
Adesso le esplosioni sono sempre più forti.
All’improvviso un sibilo interminabile, sempre più forte, è l’istinto che dice di gettarmi a terra, la faccia immersa nel fango un attimo prima che il cielo esploda. L’aria si fa rovente mentre il suolo trema dalle viscere ed erutta odore di terra fresca, di tela e carne bruciata, alzo lo sguardo e tutt’intorno ci sono pezzi di cranio, pezzi di faccia, pezzi di mio fratello Gand mentre la pioggia si è tinta di sangue. Ora tutto tace, fisso alcuni secondi il volto dilaniato e abbrustolito di mio fratello, la granata è scoppiata dietro la prima ansa della trincea, cinquanta metri da dove mi trovo io, con Gand c’era Vinicio. Tra odore di pirite, acciaio rovente e rivoli di sangue che mi colano sul viso, struscio nel fango alla ricerca del mio fratellino.
Sono uno spirito che vaga nel silenzio.
Niente più esplosioni, niente più fuoco nemico.
I mortai tacciono.
«Alle mitragliatrici!» Un comando strillato da un punto indistinto del fronte e mi trovo a correre verso i mitraglieri. Sono ai loro posti, scattano gli otturatori. Ci affacciamo dalle feritoie, facciamo capolino dai sacchi di sabbia a baionetta innestata. Mi fermo a osservarla: la punta è acuminata come un punteruolo. La baionetta non taglia, penetra e affonda fino al manico. La lama è solcata da scanalature per far defluire il sangue che sprizza dal buco d’ingresso. La prima volta non pensavo potesse penetrare nel corpo di un uomo e lo feci con forza. Per estrarre la canna del fucile squartai quell’uomo come avevo visto fare dal mastro macellaio nelle feste di piazza da bambino. Il macellaio mi riporta alla mente il corpo maciullato di Gand e la sua profezia.
Gand è morto.
A nord della trincea echeggia un urlo: «Gas!»
Prendo un pezzo di pane raffermo dalla bisaccia, lo bagno in una pozzanghera e lo ficco in bocca, estraggo il fazzoletto di tasca e me lo tengo stretto sul naso; si dice filtri il veleno.
Lo scoprirò tra poco.
Scrutiamo la barriera di filo spinato. Tra poco arriveranno i guastatori per cercare di farla saltare, a seguire le urla di un assalto che per molti sarà l’ultima corsa della loro vita. Ecco che già i miei compagni si allontanano ed è solo allora che la vedo. Che la vedo davvero. Dal filo spinato avanza una densa foschia spumosa e biancastra. Mi sono distratto, ho dimenticato Vinicio, ma il sangue chiama, mi volto e vedo un’ombra farsi largo nella trincea, barcollante e nerastra. Si avvicina e mi osserva con occhi vitrei. Infine lo riconosco: è Vinicio. Si ferma a un passo da me, rigido come sugli attenti.
«Vinicio…»
Con fare lento rotea il volto sul quale è impresso una folle meraviglia. Pare spaesato, come ammaliato dal suono di una voce familiare. Le labbra sono due esangui strisce grigio cenere che vorrebbero disegnare un sorriso. Tossisce. Sputa sangue e un pezzo di polmone tra spasmi violenti e un bolo rossastro e bollente. Poi avverto un fetore indicibile e le vedo: le intestina, a ciondolargli dal ventre. Vorrei tirarmi su, ma il fango mi immobilizza e cado ai suoi piedi.
Un altro scoppio di mortaio e poi un boato enorme.
«Aiuto…» sibilo.
Avverto una mano cresposa e incrostata di fango che mi carezza il volto, poi qualcosa di caldo maleodorante. Vinicio, per carezzarmi ha lasciato andare il suo fardello «Non voglio andare all’inferno.» Strabuzza gli occhi e crolla su di me. Sono inerme e intrappolato dalla coltre di fango. Mio fratello collassa nella foschia spumosa che ci avvolge. Per anni il mondo dei tre moschettieri è stato la trincea. Gand è andato, Vinicio è morto e le sue membra premono su di me.
La profezia di Gand.
Da lontano odo delle voci. Più che voci urla. Qualcuno grida che la guerra è vinta e che ha vinto la libertà.
Il pensiero della libertà mi terrorizza, è per questo che ho combattuto?
Le urla si fanno sempre più vicine, la guerra è finita, è finita, viva la libertà! Il peso di Vinicio mi spinge sempre più in basso tra le sabbie mobili originate dai colpi dei mortai. Dovrei lottare per libere le gambe oramai inghiottite fino alle giberne.
Ma perché dovrei?
A destra sento urla di gioia, urla nobili dalla erre moscia. mi volto e come folgorato da una visione trovo il motivo per il quale lottare.
Adagio il corpo di Vinicio a terra, mi puntello sui suoi resti che affondano nel pantano e a fatica esco dalla melma che mi aveva imprigionato.
Il filo spinato, le mitragliatrici e i bunker semidistrutti. Sono la mia casa. Non abbandonerò questo luogo. Non abbandonerò i miei fratelli. Qua mi sento al sicuro. Ne conosco le regole.
Sul terrapieno il tenente dalla divisa immacolata spara in aria col suo revolver dal calcio in madreperla, i primi colpi di tutta la dannata guerra e urla di gioia, urla in francese “Victoire” perché lui è nobile. Mi sono sempre chiesto se sia vero che hanno il sangue blu.
Mi avvicino e si accorge che ci sono a causa della mia puzza. Un manichino di fango e sangue nel quale si vedono solo le pupille bianche. Il suo sguardo perplesso dura un attimo, il tempo di far spazio al terrore, non è stupido il nobile, ha capito tutto, ha visto la canna del mio moschetto puntata su di lui.
Non c’entra un cazzo, è un povero cristo pure lui ma pagherà per il suo Re, per chi gioca con la guerra e per chi ha ammazzato i miei fratelli.
Il proiettile lo colpisce al petto, gli occhi sbarrati per la sorpresa perdono in un istante la luce della vita. Finalmente la sua divisa non è più linda, adesso una macchia scura si espande piano ma inesorabile sul torace macchiandogliela per sempre. Crolla con la faccia nel fango, ai miei piedi.
No, i nobili hanno il sangue rosso come gli operai, i contadini e i figli di puttana come me.
Intorno a me la gioia fanciullesca di chi si è finalmente reso conto di essere sopravvissuto. Nessuno si cura di me.
Con calma ricarico il mio moschetto.
Appoggio il calcio a terra.
La canna in bocca. Che la profezia si realizzi.
Che dire? Sono davvero colpita. Bellissimo, toccante, crudo e crudele come la verità. Per me hai già vinto autore, questa è una storia che non lascia indifferenti.
Scrittura fluida, piena di immagini che consentono al lettore di vivere la storia appieno. Un finale agghiacciante ma assolutamente centrato. Perfetto oserei dire.
Bravo bravo bravo.
Racconto bellissimo, crudo, lacerante… con un finale perfetto. Condivido in toto il commento di Monica. Complimenti Bruno!
Un tuffo all’inferno raccontato con maestria tanto da far provare un brivido nella schiena del lettore. Complimenti di cuore.