Premio Racconti nella Rete 2010 “La rivincita di Pallemosce”di Raul Alvarez
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010
Quando le comunicarono l’esito degli esami, le lacrime di mia madre inondarono la casa. Per giorni e giorni andò in giro con due occhi gonfi e un intercalare di singhiozzi che parevano i rintocchi di una campana a morto. Ora il futuro le appariva incerto. Davanti a me si sforzava a mostrarsi tranquilla, ma l’inquietitudine le si era impressa sul volto.
“Abbiamo fatto di tutto per salvarlo ma è stato impossibile. Suo figlio dovrà ripetere l’anno” le aveva detto suor Veneranda con aria di costernazione.
Quella bocciatura fu accolta in casa come una deflagrazione. Nei giorni che seguirono fu un via vai di sguardi catatonici, di silenzi labirintici e un plateale smarrimento. La mia autostima ebbe il tracollo e indebolì il sistema immunitario. Da allora bastava un colpo d’aria, e mi ritrovavo a letto con un febbrone da cavallo e due tonsille grandi come melanzane. Questo avvenne dopo. Ma cominciamo dall’inizio.
Per me la scuola è sempre stata un incubo. Già alle elementari la maestra Bandiera (una zitella dal cuore rancido e la vista corta) disse a mia madre che non aveva mai avuto un alunno con un deficit di apprendimento come il mio e le consigliò di consultare uno specialista. Quella diagnosi scatenò il cataclisma in famiglia.
La nonna suggerì un consulto con la maga Celestina di Velletri che toglieva il malocchio e prediceva il futuro. Mia madre non volle saperne. In compenso mi portò dallo psicanalista, un fanatico del metodo freudiano che non capì un bel nulla del mio problema, sebbene mi frastornasse di domande incomprensibili. Ogni volta che uscivo dal suo studio avevo la testa in ebollizione. Quando poi iniziò a cerca le cause di quel blocco in un passato sin troppo lontano per essere raggiunto, la mamma rinunciò a farsi spillare altri soldi.
Considerata la gravità del mio caso lo zio Sisco, nonostante la sua tirchieria, decise di pagarmi la retta per una scuola privata, dove anche “un ritardato come me” (parole sue) avrebbe potuto superare gli esami.
Fui iscritto al Santa Maria Ausiliatrice: il rinomato istituto retto dalle suore raimondine, note per il loro rigore pedagogico e una ferrea disciplina. Ma poiché la fortuna non è mai stata dalla mia parte, capitai nella classe di suor Veneranda: una nana microcefala con la sensibilità di uno sfasciacarrozze. Basti dire che il primo giorno di scuola mi presentò alla classe (già formata da un anno) pronunciando inavvertitamente la mia condanna. “Serafino Guglielmetti è il vostro nuovo compagno. Dovete aiutarlo a inserirsi. Essere comprensivi e benevoli, perché…”, qui fece una lunga pausa durante la quale il suo volto assunse un’aria piena di afflizione, poi proseguì “purtroppo non è intelligente come voi. Ha cambiato scuola perché ha grosse difficoltà di apprendimento. Ma qui, con la grazia di Dio e della nostra veneratissima Santa Raimonda”, sottolineò alzando gli occhi al ritratto della santa appeso al muro, “potremo aiutarlo. È di salute cagionevole e deve evitare ogni sforzo, perciò non coinvolgetelo nei vostri giochi irruenti. Per lui sarà un grande sacrificio ma noi l’aiuteremo ad essere lieto ugualmente e ad affidare al Santissimo Cuore di Gesù le sue disgrazie, vero ragazzi?”.
“Sìììì!” risposero tutti in coro, con un aria che non prometteva nulla di buono.
“Allora, Guglielmetti, sei contento di stare con noi?” chiese la monaca.
Risposi un timido “sì”, mentre tutti mi guardavano come fossi un mostro fuggito dal Cottolengo. La vergogna mi paralizzò al punto che non riuscii più a spicciare una parola. La presentazione di suor Veneranda si trasformò in una boomerang devastante.
Da quel giorno tutti presero a trattarmi come un caso clinico e mi soprannominarono Pallemosce. La prima reazione a quell’epiteto sprezzante fu di andarmele a controllare. Sprizzavano salute. Perciò non riuscivo a capire perché mi chiamassero in quel modo. Finché un mio cugino, più grande di qualche anno, mi spiegò la differenza fra il significato letterale delle parole e quello traslato.
“Vieni Serafino che ti riassumo quello che ha detto l’insegnante così lo capisci anche tu”.
“Lascia perdere, non ti sforzare, è troppo difficile per te!”.
“Se ci arriva Serafino può capirlo anche un neonato” assicurava il capoclasse.
Erano questi gli incoraggiamenti dei miei compagni. In quel clima da “esercito della salvezza” la mia intelligenza innescò la retromarcia. Suor Veneranda tentò in ogni modo una mia ripresa: umiliazioni davanti ai compagni, doppia razione di compiti, castighi, bacchettate e urla da far tremare l’istituto. Nulla da fare: il mio cervello aveva iniziato le pratiche di pre-pensionamento. Alla fine del primo trimestre stigmatizzò il mio profilo con tre parole oscure e altisonanti: introverso, apatico, psicologicamente instabile. Non sapevo cosa volessero dire ma, dalla faccia che faceva nel pronunciarle, capivo non dovesse essere nulla di buono. Nell’anticamera di quella sua testolina piccola e vuota come una ghianda, dove troneggiava un imponente velo nero allungato sulle spalle come le ali di un’immensa cornacchia, non passò nemmeno per un istante l’idea di avvertire in tempo mia madre sulla situazione. E agli esami fui bocciato.
In tutto l’istituto quell’umiliazione fu riservata a due soli alunni: io e un paraplegico.
Uno shock devastante. Suor Veneranda me lo comunicò col solito garbo: “Ho fatto tutto il possibile Guglielmetti, Dio m’è testimone, ma non c’è stato niente da fare. Con te ci vorrebbe solo un miracolo!”. Mentre cercava di persuadermi sulla ineluttabilità di quella decisione, cominciai a progettare la vendetta. E pensa e ripensa, ad un tratto la mia mente partorì un’idea diabolica.
La nostra classe possedeva un record in fatto di archeologia: oltre suor Veneranda (un primate dall’età incalcolabile), ospitava il reperto più vetusto dell’istituto: una di quelle lavagne monumentali rette da bulloni grandi come tappi, tanto ingombrante da essere rifiutata da tutti. Suor Veneranda ne fece richiesta e naturalmente la ottenne. Ma non per scrivere, per scaraventarci sopra i suoi pugni virulenti quando la disciplina iniziava a scemare. Il rumore di quel mastodonte ci coglieva alla sprovvista lasciandoci imbambolati come conigli dinnanzi a un fascio di luce. E guai a tapparci le orecchie: quando suor Veneranda aveva scoccato il suo colpo letale era segno che qualcosa non andava e dovevamo subirlo mettendo a dura prova i timpani, altrimenti scattavano le punizioni supplementari. Ma poi divenne un’abitudine, infine un vezzo. Quando entrava in classe un robusto pugno sulla lavagna preannunciava l’inizio delle sue lezione. Nell’istituto i rintocchi di suor Veneranda divennero proverbiali e, dopo qualche tempo, anche le altre insegnanti cominciarono ad aspettare quel segnale per dare il via alle lezioni.
Il giorno in cui mi comunicò il responso degli scrutini era previsto un incontro con le famiglie nel pomeriggio. A chiusura dell’anno scolastico gli alunni si sarebbero riuniti per i saluti prima delle vacanze. Tornato a casa non dissi nulla ai miei e dovetti inventarmi una scusa per il rientro pomeridiano. Non sospettarono nulla e io potei agire indisturbato. Infilato nella cartella un set di pinze uscii di casa senza farmi notare. Fui il primo ad arrivare a scuola, come speravo.
Occhieggiando nei corridoi notai che non c’era ancora nessuno. A quel punto diedi il via alle operazioni di sabotaggio. Svitare i bulloni di quel monumento richiese sforzi superiori alle mie possibilità. Ma ci riuscii ugualmente. Alle quattro in punto entrarono i miei compagni di classe.
I genitori furono trattenuti nella sala riunioni da suor Veneranda. Noi eravamo liberi di fare ciò che volevamo, era vacanza ormai. Io diedi il via al mio piano. Prima mossa: spargere la zizzania Mossa numero due: scatenare in classe il finimondo. Mossa finale: annientare Suor Veneranda.
Appena sentii i suoi passi solcare il corridoio e avvicinarsi alla classe, scatenai il putiferio: insulti, sputi, pernacchie spintoni, nel giro di un attimo divampò la rissa.
Richiamata da quel frastuono assordante, Suor Veneranda affrettò il passo seguita dai genitori.Quando entrò in aula i suoi piccoli occhi da nutria videro la grandezza di quello scempio: una sollevazione anarchica era in pieno svolgimento.
Rabbia e vergogna, soprattutto per la presenza dei genitori, le incorniciarono il volto imprimendole un livore funesto.
Fu allora che con tutta la forza dei nervi, raccolta in quel pugno implacabile, scoccò il leggendario colpo.
Fu questione di attimi: mentre un ghigno trionfante si disegnava sulle sue labbra per l’improvviso ritorno all’ordine, vide quel monumento precipitarle addosso a gran velocità. I suoi piccoli occhi si spalancarono terrorizzati lasciando trapelare sgomento e rassegnazione. Fece a malapena in tempo ad emettere un gridolino stridulo, un segno di croce, e cadde in terra tramortita dalla valanga.
Rimanemmo tutti impietriti da quel colpo epico. Io più degli altri, dato che temevo d’averla uccisa. Suor Veneranda giaceva in terra, immobile e senza cuffia. Ritrovata in seguito fra i banchi. Sulla sua testa cominciò ad espandersi un ematoma di proporzioni mai viste. Mentre alcuni genitori erano corsi in infermeria in cerca di un medico, i miei compagni le ronzavano attorno come mosconi irrequieti, scrutando con morbosa curiosità la pelata di suor Veneranda, inviolata da occhio umano in quarantacinque anni d’attività scolastica.
“L’avevo detto che era senza capelli!”, diceva uno soddisfatto.
“Ha la testa che pare il culo di una gallina!”, commentava qualcun altro.
Poi, ad un tratto, il cadavere aprì un occhio. I bambini schizzarono all’indietro dalla paura. Suor Veneranda cominciò a muovere le labbra, lentamente.
Mi avvicinai per sentire cosa dicesse: “Kyrie eleison, Christe eleison, Christe exaudi nos…” mormorava.
In risposta a quel delirio post-traumatico aveva cominciato ad intonare le litanie. Forse credeva di essere già arrivata in Paradiso. Chissà che delusione quando scoprì di essere finita solo in ospedale e, soprattutto, che la nostra classe aveva visto la sua orrida pelata.
Non ancora soddisfatto da quella rappresaglia, rincarai la dose.
Sui muri dei bagni del venerato istituto Santa Maria Ausiliatrice, qualche giorno dopo cominciarono a comparire graffiti irriverenti: iperbolici falli con qualche pelo sparso sul gambo e sotto una scritta inequivocabile “Abbiamo scoperto la testa di suor Veneranda, eccola!”.
Un giorno, mentre componevo uno di quei capolavori d’arte moderna, fui colto in flagrante dalla bidella. Qualche minuto dopo piombò in classe la Santa inquisizione al completo, capeggiata dalla preside e da suor Veneranda. Mi imposero di restare in piedi e si schierarono di fronte a me come un plotone d’esecuzione, crivellandomi di domande sui motivi di quel gesto inammissibile.
Io non dissi nulla, mi consideravo prigioniero politico. Non sapevo cosa volesse dire. Quella strana parola l’avevo sentita in TV a proposito di un processo ai terroristi e, in quella circostanza, mi sembrò appropriata.
Il loro verdetto fu: espulsione dalla scuola.
Preso atto della sentenza, mi limitai a guardarle con un risolino sprezzante. Poi, con un coraggio sopraggiunto da non so dove, glielo dissi tutto d’un fiato: “Ho fatto quel che ho fatto perché da quando sono qui mi si sono ammosciate le palle. E la colpa è tutta vostra, ecco!”.
A quelle parole irriverenti le suore rimasero immobili in una scultorea stupefazione. Quando si ripresero, dispensarono benedizioni e segni di croce. Io fui allontanato dalla classe come fossi un seguace di Satana.
I miei compagni non credevano ai loro occhi. Avevo fatto ciò che tutti desideravano ma che nessuna avrebbe mai osato nemmeno tentare.
Quel giorno mi guadagnai il rispetto e l’ammirazione della classe. E la mia autostima salì di parecchie spanne.
Da allora, più nessuno mi chiamò Pallemosce. Ormai mi ero fatto un nome e dovetti cambiare scuola. I bulli del quartiere mi consideravano un duro e mi vollero nella loro ghenga. E con mio sommo gaudio fui ribattezzato Serafino Ciàlepalle.