Racconti nella Rete 2009 “La Charlotte de l’Isle” di Ester Misto’
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009
– Le dico che l’ho timbrato, il biglietto!
– E allora dov’è?
– Non capisco! In tasca non lo trovo! Lo so che devo tenerlo per uscire, ed è per questo che, timbrato, lo ripongo subito nella tasca del cappotto. Perché so che lo devo utilizzare ancora!
– Se dice di averlo, deve averlo! Lo cerchi meglio! Altrimenti sono 50 euro di multa.
– Ah! 50 euro…? …Senta! Comunque io non lo trovo, gliel’ho detto! Non capisco, ma non lo trovo. Nel paltò avrei dovuto avere quello timbrato. Nella borsa, altri due nuovi. Questi!
– E invece no.
– Non capisco …
– Senta, per questa volta passi, ma stia attenta. Ora utilizzeremo questo nuovo. Ci scrivo sopra e così sarà in regola.
– Grazie! La ringrazio veramente, ma le assicuro che lo avevo timbrato il biglietto. Altrimenti come avrei potuto entrare…? Solo, non capisco dove sia finito…
Finalmente fuori da quei cunicoli della metropolitana e non più sotto le sgrinfie di quella controllora. Il problema ora era raggiungere la pasticceria. Aveva scampato una multa, ma ora non avrebbe scampato quell’acquazzone.
Un’acqua così non la prendeva da anni. Non aveva l’ombrello e se anche lo avesse avuto non avrebbe comunque potuto utilizzarlo, tra la sacca a tracolla, la borsa del computer e il trolley da trascinare sul pavé. Un acquazzone primaverile che le stava congelando anche la punta delle dita dei piedi. Era bagnata fradicia.
Aveva tre ore libere prima di prendere l’aereo al Charles de Gaulle dopo la riunione e, da quando ci era entrata quattro giorni prima con il marito, aveva sognato il momento di rientrare nella pasticceria più bella che avesse mai visto, sedersi e gustare la loro specialità: la cioccolata calda. Ma non la solita. Una particolare, che non aveva mai provato prima. Era speziata: al peperoncino. Come piaceva a lei.
Tre ore in quella città, eppure, a vedere un museo o fotografare l’ennesimo palazzo di marmo e ferro battuto, non ci pensava minimamente.
Cioccolata. Cioccolata densa e tiepida che le scivolava in gola. Se chiudeva gli occhi la sentiva scendere lentamente, sporcandole l’angolo destro della bocca. Solo a quello riusciva a pensare.
Era nella via principale. Aveva riconosciuto il fiorista Les Fleures, il gallerista d’arte Les Treseaux de l’Isle, il ristorante, La Boutique du Fromage, Le Salon de la Crepe e, infine, la pasticceria. La Charlotte de l’Isle.
Una cornice di legno dipinta di rosa, le tendine trasparenti di voile viola e le stuoie in giunco per nascondere la vista degli ospiti all’interno, dagli occhi dei più curiosi per la strada. Sempre troppi, per la verità.
Due vetrine microscopiche: una con tanti piccoli dolci a far bella mostra di sé in una fila disordinata di piattini, e una con un tavolino e due seggioline di legno, scompagnate. E al centro una porticina. Piccola piccola. Come l’ingresso della casa di una strega.
La accolse una gentile signorina dall’età indefinibile. La pelle del volto e delle mani color nocciola, liscia liscia e senza rughe. Un sorriso timido. Due occhi svelti e scuri. Neri come la notte più nera nella steppa senza luna. Le prese il trolley e la fece accomodare nella saletta contigua, attraverso un arco, piccolo anch’esso. La aiutò a scostare il tavolino e a togliere il cappotto bagnato, mentre appoggiava la borsa e la ventiquattrore con dentro il computer. Le portò anche un asciugamano di lino e le mise vicino una piccola stufetta elettrica in metallo con le resistenze a vista, come quella che aveva sua nonna nella casa di campagna, da piccola, con cui scaldarsi e poter riprendere un po’ di colore in viso.
Sistemata nella poltroncina in vimini, la coprì con un vecchio plaid verde di lana, le riaggiustò il tavolino davanti, e la chiuse in un angolino caldo, sicuro e asciutto.
Infine, le porse il menù: un cartoncino scritto a mano con un pennino fine e lucido. Un inchiostro nero che elencava tutti i tipi di tè da lei conosciuti, e non: il tè cinese, alla menta, all’arancia, ai pinoli, il tè bianco, al cardamomo, al gelsomino … E poi un altro lunghissimo elenco di cioccolate: bianca, alla nocciola, alla cannella, allo zenzero, e, infine, nomi e nomi di dolci mai uditi neanche dal più famoso chef parigino: soufflé, mousse, bavaresi al cioccolato, pan di spagna con crema pasticcera e fragole, sformati di fichi, frittelle all’ananas, crepes con tutti i tipi di marmellate, ciambelle alla glassa ricoperte con fragoline di bosco, tartellette ai frutti canditi, charlotte di mele, ciambelle al cocco, ai …
Fece la sua scelta: cioccolata al peperoncino e torta ribes rossi e more.
E con un gran sospiro di soddisfazione, sorrise al luogo e iniziò, stupita, a guardarsi intorno.
La saletta aveva solo tre piccoli tavolini. Ci si muoveva a fatica, o meglio, non ci si muoveva affatto, anche perché, raggiunta la propria seggiolina, lo sguardo era rapito di meraviglia dalla quantità di oggetti accatastati in quella microscopica stanzetta: alle pareti, sulle mensole, appesi al soffitto. Scatole di latta, ceste, fotografie di animali bambini vecchi e santini, libri, guide della città, un quadretto della Chiesa di Saint Jacques, lì vicino, e un grosso, vecchio forno smaltato, in ghisa, uguale a quello da cui erano sfuggiti Hansel e Gretel.
Dalla cucina, le si fece incontro una signora agée. Capelli bianchi raccolti sulla nuca come una soffice meringa, un caldo dolce sorriso alla vaniglia e un grembiule a quadretti rossi.
Tra le mani aveva un vassoietto tondo di metallo nero, decorato minuziosamente con fiori rosa e arancio, foglie verdi e bianchi ranuncoli. Una piccola cioccolatiera in metallo col manico in legno d’ebano, una ciotolina blu di terracotta con zollette di zucchero di canna, una brocca in vetro spesso smerigliato con acqua cristallina, un piattino con una gustosissima fetta di torta ribes rossi e more, un cucchiaino e una forchettina d’argento, storti e scompagnati, come quelli di piccoli elfi.
– Mi auguro che il suo desiderio sia soddisfatto!
E come può essere diversamente?, pensò, guardando quelle bontà.
Si sistemò meglio sulla sedia, dondolò i piedi come una bimba e congiunse le mani. Non sapeva da che parte iniziare: raddrizzare il vassoio, guardarlo da destra, spostarlo sulla sinistra. Era tutto così delizioso e perfetto che le sembrava quasi di profanare l’atmosfera, iniziando a servirsi la cioccolata.
– Su! Cosa aspetti?
– Cosa aspetto? E’ tutto troppo bello. Mi sembrerebbe di rovinare il…
– Non essere sciocca! Dài! Prendi la cioccolatiera e versa la cioccolata nella tazzina.
– Va bene! Ora inizio.
E sorrise alla teiera a forma di leprotto, pardon, al leprotto a forma di teiera, sulla mensola, proprio sopra alla sua testa.
– Ma tu sei una teiera!
– E tu sei una donna!
– Grazie, sì, lo so. Ma che io parli, è normale. Che parli tu, un po’ meno.
– Ecco ci risiamo! Uffa, Ragazzi, un’altra.
– Un’altra cosa?
– Un’altra che nutre delle perplessità sul fatto che un leprotto possa parlare.
– Bè, non tanto un leprotto…una teiera, per la verità…
– Allora se parlo io, va bene?
– Uno specchio?
– Qualcosa da dire sugli specchi?
– No, per carità. Oltretutto, sei bellissimo. Una cornice intagliata così bene, con arte e con gusto, non l’avevo mai vista…
– Per forza! Io vengo dalle Dolomiti! Dalla Val Gardena, ad essere precisi. Sono famosi, lì, per intagliare il legno.
– E tu, da dove vieni?
– Io arrivo direttamente dal Devon. Le più belle teiere, di leprotti si intende, vengono da lì.
– E tu, invece, che ci fai qui?
– Sono venuta a prendermi una cioccolata e una meravigliosa fetta di torta! E voi?
– Noi, qui, ci abitiamo.
– Sì, ma che fate tutto il giorno?
– Parliamo con quelli che come te, vengono a prendere la cioccolata e una fetta di torta.
– Non dire sciocchezze. Anche se prendono il tè e un pasticcio di limone allo sciroppo, noi parliamo con loro lo stesso.
– E allora perché non ci avete parlato l’altro giorno? Sono venuta qui con mio marito, ma non ci avete degnato di uno sguardo!
– Io non me lo ricordo…
– Per forza che non te lo ricordi! Pensi solo a te stesso, non fai altro che rimirarti all’infinito nell’altro specchio, tuo compare, là di fronte! Io invece me li ricordo. Erano seduti su quel tavolino lì e, dimmi un po’ se non è vero…
– Sì, dimmi dimmi…
– Tuo marito ha una piazzetta sulla testa…e comincia a perdere i capelli!
– Senti, tu è inutile che prendi in giro la piazza di mio marito e pensa a te stesso! Sei tutto sbreccato!
– Va bè, va bè, touchée…Comunque aveva una maglietta blu con il colletto bianco e aveva ordinato una torta di mandorle e farina di mais con il tè allo zenzero!
– Hai ragione! Che memoria. E comunque non mi avete risposto. Perché non ci avete parlato, l’altro giorno?
– Ma se vi guardavate come due piccioncini! Bleah! Due occhi – quattro per la verità – da triglie lesse. Disgustose! Non avevate occhi e orecchie per nessun altro. Anzi, per la verità io vi ho chiamato – e ho pure tirato un po’ del mio tè sulla pelata di tuo marito. Ma non vi siete accorti di nulla!
– Ma sai che me lo ricordo! Ha detto di aver sentito la testa bagnata e, toccandosela, ha guardato verso di te…Screanzato che non sei altro! E’ la maniera di comportarsi con gli ospiti che vengono qui?
– Veramente fa anche di peggio…
– Tu sta’ zitto e continua a rimirarti nel tuo compare!
– Cos’è sto chiasso…?
– Ecco, la cesta s’è destata! Passa tutto il tempo appollaiata là sopra, a scaldarsi col suo plaid.
– E cosa dovrei fare, scusa?
– Interagire un po’ di più con noi altri!
– Con una teiera burlona e uno specchio altezzoso?
– Ah, e non saresti altezzosa tu, allora, che te ne stai sempre sulle tue?
– Io non sono altezzosa, semplicemente ho freddo e ho voglia di stare accoccolata nel mio plaid.
– Allora si gioca? Urlò Tin Tin dondolandosi sul braccio del lampadario in ottone al centro della saletta.
– Il gioco! Il gioco! Si fa il gioco! Cominciarono a urlare tutti insieme, compresi i tre ombrelli di pizzo e legno, le mensole, il pupazzo a forma di gatto, pardon – il gatto, la mucca e la gallina, (rispettivamente: una teiera e una caffettiera), le tazzine, le brocche, le posate, i tavolini, le sedie, il pomolo della porta, le zollette di zucchero, le tovaglie, i pizzi, le torte e i pasticcini, insieme a una serie di bambole antiche sull’ultima mensolina più in alto, in vetro, e al bastone nodoso di betulla che saltò fuori dal portaombrelli in ferro battuto. E tutti, tutti, tutti, in una girandola di voci, urla e stridolii a cantare:
– Il gioco! Si fa il gioco!!!
– Di che gioco si tratta?
– Non lo sai? Non lo sai?!? Ehi, Ragazzi, non lo sa? E’ la prima volta che fai questo gioco? le chiesero in coro gli omini di marzapane nel calice di latta sul bancone dell’ingresso.
– Sì…veramente sì…A dire il vero, è la prima volta che mi trovo qui con voi, e, per giunta, all’ora del gioco…Posso farlo anche io, con voi?
– Ma certo. Altrimenti, non sarebbe valido. Anzi. Tu devi giocare con noi.
– Signori! Si comincia. Che il gioco abbia inizio! Sentenziò, solennemente, un antico samovar d’argento.
– Comincio io – comincio io!!!
– Sei sempre il solito, Monsieur Leprotto. Vuoi sempre essere il primo!
– Qualcuno deve pur farlo. E’ solo per non perdere tempo. Lo faccio per gli altri…
– Guarda che se dici le bugie non ti cresce il beccuccio. Piccolino è, e piccolino rimane! Come quello di un leprotto!!! Gli disse la bambolina con l’abitino in tulle rosa, i capelli oro e un occhio mezzo rotto, seduta sull’ultima mensolina in alto, in vetro.
E giù tutti a ridere sguaiatamente.
– Qualcuno mi può spiegare le regole del gioco, per favore?
– Certo. E’ abbastanza complesso. Ma se stai attenta e ti concentri a fondo, puoi farcela anche tu. Le disse il vassoio, con molta serietà.
– Oh. Va bene. Allora: cercherò di concentrarmi.
E, alzando la testa, vide tutti quanti ridere sempre più forte e sgangheratamente.
– Allora, chi inizia?
– Io, iooo! Inizio io!!!
– Va bene! Come sempre, inizia Monsieur Leprotto.
– Allora, che il gioco abbia inizio: Devi chiudere gli occhi – pensare a un desiderio – riaprire gli occhi e vedere se il desiderio si è realizzato!
– Sei pronto?
– Pronto! Pronto! Prontissimissimo! Viaaaaa!
Via? Via! Doveva andare via! Doveva essersi addormentata, finita la torta e la cioccolata. Quel profumo, quelle delizie e quel tepore. Strizzò gli occhi, se li sfregò e si stiracchiò un po’ sulla sedia, guardando la teiera a forma di leprotto, lo specchio dentro cui si specchiava un’altra cornice di legno e le bamboline sedute composte, sull’ultima mensola in alto, in vetro. Erano immobili. Insieme alla cesta, la scatola di latta e a tutto il resto.
Guardò l’orologio, acciuffò la giacca, prese il portafogli e pagò in fretta il conto, facendosi chiamare un taxi. Se non si sbrigava, rischiava seriamente di perdere l’aereo. E un’altra notte in quella città, per quanto bella fosse, non aveva nessunissima intenzione di passarla.
Salutò la signorina, brancò la sua roba e aprì la porta. Fece appena in tempo a intravedere, con la coda dell’occhio, un impercettibile movimento sulla mensolina sopra alla sua testa. Se non fosse stata così pragmatica, avrebbe giurato che una teiera, a forma di leprotto, le avesse fatto un occhiolino, un tantinino sbreccato.
Arrivò appena in tempo, prima che il check-in chiudesse. Davanti a lei una bambina piangeva disperatamente, mentre sua mamma cercava di completare le pratiche per l’imbarco.
– Piangi? Perché piangi? Non sei contenta di andare in Italia con la tua mamma?
La bambina la guardava con curiosità, sbattendo due grandi occhi, color nocciola, e ascoltando quella voce strana, incomprensibile e melodiosa. E si sorrisero.
Era riuscita nel suo intento: la bimba aveva smesso di piangere.
Completò anche lei le pratiche di imbarco e si diresse al controllo passaporti. Si rincontrarono anche lì. La bimba, ogni tanto, faceva cadere un animaletto di peluche che, a turno, lei o la mamma, raccoglievano e le porgevano, con mille smorfie, aspettando pazientemente in fila.
Terminate le procedure di sicurezza, si diressero insieme verso l’uscita 14, dove era previsto l’imbarco. Passata un’ora, capirono che la partenza si sarebbe fatta attendere per parecchio tempo. Ogni tanto, qualche messaggio di circostanza delle hostess cercava di rincuorare i passeggeri, che iniziavano a chiedersi, sempre più nervosi, il motivo di quel ritardo.
Le due donne, sedute in disparte per far addormentare la piccola, avevano iniziato a scambiare qualche parola e poi avevano continuato a farlo per tutto il tempo necessario a conoscersi nel profondo. Avevano entrambe uno sguardo malinconico. Ed erano stanche, come al termine, o all’inizio, di un lungo e difficile, impegnativo viaggio.
– Hai figli?
– No. Disse l’italiana, piegando leggermente di lato la testa. No. Disse di nuovo, scuotendo i riccioli della fronte, guardando la piccola nel passeggino. Non sono arrivati. Disse, sollevando impercettibilmente il sopracciglio sinistro.
– Mi dispiace.
Non si erano mai viste né conosciute, eppure un calore particolare sembrava passare nei loro sguardi. Avevano vissuto poche ore insieme, eppure si erano raccontate tutto, come solo si poteva fare tra due sconosciute, che di lì a poco non si sarebbero mai più riviste.
– Ma la cosa più bella è che mio marito ed io, abbiamo appena ricevuto il nulla osta dal tribunale dei minori per l’adozione. Ora bisognerà vedere con le associazioni. Magari entro un paio d’anni ci troviamo per casa una piccola squadra di pesti urlanti! Disse con un tono squillante e felice, carico di speranza.
– Te lo auguro.
– E anche a te. Di ricominciare una nuova vita in Italia, con lei.
Poi finalmente, con cinque ore di ritardo, presero le borse, i paltò e il passeggino con la bimba addormentata e si imbarcarono sul velivolo.
Il motore. C’era stato un problema al motore. La compagnia aveva deciso di ripararlo. Purtroppo, la stanchezza aveva confuso il meccanico di turno nel montare quel pezzo di ricambio: non per un Embraer 145, ma per un Embraer 195.
Non c’era stato nessun problema nella fase di decollo.
Tuttavia. Tuttavia, nella fase di atterraggio, il pezzo di ricambio dell’Embraer 195 non poteva assolutamente andare bene a un Embraer 145. Il montaggio errato aveva causato una errata impostazione del QNH, che aveva a sua volta causato un’errata regolazione dell’altimetro.
Le due donne, sedute vicine anche per tutta la durata del viaggio, si guardarono, cercando di rincuorarsi a vicenda. La mamma prese la piccola, se la legò nuovamente con la prolunga alla cintura di sicurezza e la strinse più forte che potè. La mamma, la piccola e l’animaletto di peluche.
Percepirono la caduta libera nel vuoto. Nelle orecchie il messaggio dell’altoparlante e sopra le loro teste le mascherine d’ossigeno. Poi lo schianto. E più nulla. Solo lamiere, fumo e urla strazianti.
– Come stai?
– Sì, respiro. Mia figlia piange. Prendila tu! Proteggila!
Sciogliendole la vita dalla doppia cintura di sicurezza, prese la bimba singhiozzante e spaventata, che stringeva disperatamente il suo peluche, e iniziò a cullarla.
– Sssh…! Piano. Piano. Non devi avere paura… Passerà tutto. Tra poco passerà tutto, piccolina, stai tranquilla … Va tutto bene, sai? E’ solo un po’ di rumore, un po’ di fumo, ma adesso passa. Passa tutto … Ora dormi. Vedrai. Passerà tutto…
Il fumo e le urla si placarono. I soccorsi erano stati tempestivi. I feriti erano stati ricoverati in vari ospedali.
La mamma della bimba era stata visitata immediatamente – codice rosso. Trauma cranico con frattura della quarta vertebra cervicale con paralisi completa degli arti. Scala di coma Glasgow – 2. Sentenza senza appello: non avrebbe superato la notte.
La bimba, grazie a Dio, invece stava bene. Solo un grande spavento e qualche graffio. Ora dormiva nel reparto pediatrico dell’ospedale.
Le due donne si salutarono. Con loro un prete e un’infermiera.
– Non ha nessuno…Prendila tu… Sarà felice… Tu saprai essere la sua mamma. Io lo so. Ne sono sicura….
Dopo qualche giorno, finalmente a casa, a tarda sera, andò ad aprire la porta. Era un addetto dell’aeroporto. Aveva appoggiato davanti a lei, sulla soglia di casa, la sua borsa a tracolla, la ventiquattrore, il trolley e il paltò. Lei gli sorrise debolmente, coprendo la bocca con una mano, mentre una lacrima le scendeva lungo la guancia. Prese quegli oggetti, lo ringraziò e si richiuse la porta alle spalle.
Rimase immobile, fino a che si sentì scivolare a terra, dove iniziò a piangere, tra la borsa, il cappotto, la ventiquattrore e il trolley.
Tremando, quando anche l’ultima lacrima ormai si era asciugata da un pezzo, si rialzò e, barcollando, si diresse verso l’attaccapanni, per appendere il paltò. Frugò distrattamente nelle tasche per svuotarle, come faceva ogni volta, prima di appendere una giacca.
Si fermò. Non riusciva a capacitarsene. Dalla tasca destra estrasse un bigliettino della metropolitana, regolarmente timbrato, e un piccolo microscopico delicato fiocchetto rosa di tulle.
Due piccole gioie. Due immensi tesori.
Si diresse verso la cameretta. Aprì la porta e li appoggiò sulla fotografia di una donna e del suo uomo, dietro al nuovo lettino, dove tranquillamente dormiva la piccola Magalie. La bimba respirava piano, con il nasino ancora un po’ chiuso, stringendo, tra le braccine paffute, il suo piccolo compagno di giochi, il suo animaletto di peluche.
Un piccolo leprotto con la vestina rovinata, come il bordo sbreccato di una vecchia teiera.
Complimenti, è un racconto molto particolare. Il tono dei primi paragrafi cela sofisticatamente il finale, l’atmosfera onirica de “La Charlotte de l’Isle” si oppone alla realtà assordante dell’aereo. Vedo quasi un mondo al di là dello specchio. Penso che il timbro quasi infantile del “gioco” nasconda un fatale ammonimento, quasi crudele: a quale prezzo verrà realizzato il desiderio? Non sono altro che impressioni personali, spero di aver inteso il tuo messaggio. Ti faccio ancora i miei complimenti.
Lorenzo
Grazie Lorenzo! E’ giustissimo, quello che dici: molto spesso non pensiamo che la nostra felicità, spesso cozza con il dolore di un’altra persona. Ma, a dir la verità, volevo dire questo ? Non lo so. Questo racconto ha una lunga storia alle spalle – tra le righe, dentro un cassetto, o dove preferisci tu – e chissà se nella mia mente c’era anche questa morale, fin dall’inizio.
Mah!
Ancora grazie
Ester
p.s. Ma sai un cosa ? Come al solito, ci sono degli opposti…
caiao ester il racconto mi è piaciuto,soprattutto la parte dei dialoghi così surreali,portare avanti un dialogo per tanto tempo non è facile e lo hai fatto bene, con brio e delicatezza giocosa.La seconda parte per così dire è buona ma mi dà l’impressione di non legare bene con il precedente,mi spiego:è come se tu avessi cambiato registro di linguaggio e stile,mi ha dato l’impressione di leggere due racconti, perciò io rivedrei meglio le motivazioni che legano le due parti della storia,considerando che la seconda è anche la più intensa perchè consuma una tragedia. E’ il mio personale parere perciò prendilo con le pinze,naturalmente se non mi fosse piaciuto non mi sarei proprio applicata!
:-))) se vuoi puoi leggermi e commentarmi.
saluti affettuosi
Sai Francesca, un altro paio di persone mi ha fatto lo stesso appunto: apparentemente 2 storie separate, 2 mondi diversi, 2 registri di linguaggio e stili diversi. L’atmosfera onirica, come dice Loreman, e il dramma. Il giorno e la notte. La luce e il buio. Gli opposti. Che si tovano, spesso, nei miei scritti. La veglia e il sogno. Ed è proprio questo il punto. Volevo dipingere un pezzo della vita di una donna: il giorno, il lavoro, poi il privato, il sogno, la magia, poi di nuovo la realtà, la tragedia, la vita di tutti i giorni. Se pensiamo alla nostra vita, noi come siamo ? Credo che la rsposta sia: diversi, a seconda della situazione in cui ci troviamo. Un conto, la vita ufficiale, un conto il nostro privato. Ecco perchè 2 registri diversi: di giorno, siamo razionali al lavoro, poi, di notte, si apre un mondo. Entrambi veri, reali, tangibili. Ognuno, una parte di noi.
Dovresti leggere il mio libro, “Un Pugno di Fiori Blu”, pubblicato in ottobre: amo confondere i piani. E’ piu’ forte di me !
Ho stampato il tuo racconto. Domani – prometto – lo leggo. E ti lascero’ un commento (con calma !)
ciao
Ester
ciao. ho letto racconto è l ho trovato molto delicato. A tratti mi ricorda la suspance nattativa di Jostein Gaarder. complimenti