Premio Racconti nella Rete 2010 “Luljeta” (sezione racconti per bambini) di Massimo Cerina
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010Il suo primo ricordo di viaggio era quello di un lungo e faticoso tragitto compiuto con i più svariati mezzi di trasporto: dapprima con tutta la sua famiglia sopra un carretto trainato da un asino lungo disagevoli sentieri montagna, poi su di un camion male in arnese stipato di gente silenziosa e burbera che avrebbe successivamente rivisto su una nave arrugginita che a stento riusciva a dominare le onde e infine, dopo lo sbarco, ancora su un camion chiusa al buio per ore e con l’obbligo del più assoluto silenzio.
Quando le tornava alla mente questo ricordo, inevitabilmente il suo stomaco si stringeva ed un senso di nausea la faceva stare male. Aveva provato a dirlo a suo padre o a Vladi con il risultato però di farsi ridere in faccia da loro, canzonata perché era “proprio una femminuccia”. Lei dapprima si era arrabbiata, ma poi aveva dovuto rassegnarsi: “I maschi – l’aveva ammonita la mamma – sono i nostri signori e noi dobbiamo ubbidire loro”.
Ma questa era storia di tanto tempo fa. Ora lei aveva undici anni, abitava alla periferia di una grande città come Roma, in un campo di baracche dove tutti avevano un passato come il suo e dove, fin dal primo giorno, i grandi le avevano comandato di darsi da fare. E così si era rimessa in viaggio. Un viaggio diverso, più breve, ma sempre un viaggio.
Poco dopo l’alba si recava all’ingresso del campo ad aspettare che arrivasse Vladi con il suo sgangherato pulmino. Ogni volta Vladi era sempre arrabbiato, ma ormai lei ci si era abituata; non le andava neanche più di sapere il perché di quel suo atteggiamento scontroso. E poi là dentro erano tutti sempre arrabbiati. Suo padre più di ogni altro. Lo vedeva solo la sera, quando lei ritornava al campo, e ogni volta erano lamentele e rimproveri perché i soldi che portava non gli bastavano mai. Il ritornello era sempre lo stesso: che la colpa era la sua, che era una buona a niente, dopodiché il vecchio se ne andava. “Devo accompagnare la mamma al lavoro” si sentiva dire e per tutta la notte rimaneva sola con i suoi fratelli anche loro sempre pronti a prendersela con lei per qualsiasi cosa fosse potuta succedere non solo in casa, ma in tutto il campo.
Al mattino successivo si ricominciava. Il programma della giornata era sempre quello: arrivavano col pulmino alla fermata della metropolitana, salivano sul primo vagone e Vladi iniziava a suonare con la fisarmonica una melodia che inevitabilmente le faceva provare tanta nostalgia. Fin dalle prime note le tornavano in mente montagne impervie e inaccessibili ed una bambina – lei – che guardava estasiata il volteggiare nel cielo delle aquile. Vladi suonava e lei teneva il ritmo col tamburello poi, poco prima della fermata, passava tra i passeggeri a chiedere qualche soldo. Non riusciva mai a indovinare quale fosse il viaggiatore più generoso. Uomini o donne, giovani o anziani, vestiti bene o trasandati, ognuno di loro non aveva un comportamento prevedibile. I più affidabili erano forse quelli che viaggiavano con bambini come lei, quelli una mano in tasca se la mettevano quasi sempre, altri invece… a volte lei si arrabbiava davanti a certi sguardi, a certi gesti, allora interveniva Vladi: devi solo pensare a suonare e a raccogliere soldi, la sgridava.
Un giorno, però, accadde qualcosa di imprevisto. Vladi era all’altro capo del vagone, impossibilitato a sentire quello che le stava dicendo un passeggero: “Una bambina come te dovrebbe andare a scuola, non chiedere l’elemosina!”. La scuola… saper leggere e scrivere… lei non disse niente, ma quel pensiero le si ficcò in testa e non se ne volle proprio andare via. Per ore provò il fastidio di sentirsi legata, finché non scelse di liberarsi. Per farlo le bastò scendere dalla metropolitana un attimo prima che le porte si chiudessero. Non avrebbe mai più dimenticato la faccia di Vladi prigioniero dentro il vagone ormai in movimento…. si accorse di stare ridendo a crepapelle.
E ora cosa avrebbe fatto? Non le passò minimamente per la testa l’idea di recarsi in un posto preciso, scelse invece di andarsene a spasso per la città senza alcuna meta prestabilita. Uscì fuori alla luce del sole e per un attimo indugiò stordita dal traffico, dalla gente, dalle vetrine, dai rumori. Salì quindi sul primo autobus e si mise a sedere come una comune passeggera e questo fatto la riempì d’orgoglio. Per tutto il tragitto restò appiccicata al vetro del finestrino, a guardar fuori. Rimase impressionata da una piazza dove c’era una grande costruzione di marmo bianco con al centro la statua di un uomo a cavallo. Un cavallo… come le sarebbe piaciuto averne uno…
Quando l’autobus giunse nei pressi di San Pietro decise di scendere. La conosceva bene piazza San Pietro, Vladi ce l’accompagnava spesso la domenica nella speranza di aumentare i guadagni. Ora però era tutto diverso, ora tutto era bello. Cominciò a correre tra quelle immense colonne, fingendosi di star scappando tra le gambe di giganti grossi, ma tonti. Rideva come una matta finché non scorse dei ragazzi con una fascia al braccio che distribuivano bottigliette d’acqua ai tanti turisti che c’erano. Credette che fossero dei poliziotti e le parve che la stessero guardando con aria poco rassicurante, ebbe paura che volessero fermarla ed allora si allontanò in tutta fretta raggiungendo la metropolitana di via Ottaviano dove decise che avrebbe trascorso il resto della giornata fermandosi ad ogni stazione per visitare quella città che adesso le sembrava un grande libro. Un libro dove, oltre a leggere, poteva finalmente essere lei a scrivere la sua vita senza che nessuno la rimproverasse. Andò avanti così per tutto il giorno, imparando a conoscere monumenti e palazzi, fontane e piazze, uomini, donne, bambini apparentemente diversi da lei, ma in realtà tanto uguali a lei. E più leggeva e scriveva e più desiderava continuare…
Le ore passarono rapidamente, come sempre quando si sta bene. Si fece sera e lei si trovo a dover decidere sul da farsi. Avrebbe potuto tornarsene a casa, ormai suo padre aveva accompagnato la mamma al lavoro e c’era tutto il tempo di chiedere scusa a Vladi convincendolo a non dire niente al genitore. Scelse invece di continuare a leggere e scrivere. Prese l’autobus e ritornò a San Pietro. Quei ragazzi con la fascia al braccio adesso non le sembravano così cattivi, al contrario… Luljeta ora era certa che se avesse chiesto loro aiuto gliel’avrebbero offerto volentieri.
Denuncia di una realtà sociale attraverso un racconto per bambini: complimenti. descrizione di una realtà che è quotidianamente sotto i nostri occhi. Ho trovato disarmante il desiderio di una bambina che altro non chiede di imparare a leggere e a scrivere. Bambini che si ritrovano improvvisamente adulti senza sapere di esser stati bambini
Grazie
Carmina Trillino