Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2019 “Quel folle calcio del sud” di Antonino di Somma

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2019

La telefonata coi genitori, un po’ di televisione, la buonanotte. Calore non offriva altro e forse era meglio così. Il centravanti Franco Marini non poteva permettersi di andare in giro neanche per prendere un caffé: era in astinenza da gol e i tifosi gli avrebbero rinfacciato anche quella pausa distensiva. Il presidente, del resto, lo aveva ingaggiato per segnare, con la stessa mentalità con cui s’inserivano le monetine nel juke box: “Io pago, tu segni”.

Bisognava vincerla, quella maledettissima ultima di campionato, per riottenere la libertà. Gli avevano promesso che, in caso di salvezza, avrebbero risolto il contratto, consentendogli di tornare in Piemonte a giocare in un posto dove la domenica pomeriggio puoi perdere 4-0 e, in serata, ballare in discoteca senza che nessuno si sogni di ricordatelo.

Gli sembravano cose normali, prima di quell’esperienza al Sud. Altro che discoteca! Il lunedì, dopo le sconfitte, era costretto a passarlo in casa, con le tapparelle abbassate e senza rispondere al telefono. La gente del paese non aveva granché da fare: lavoretti occasionali, non sempre puliti. Tre gli argomenti di discussione: le “femmine”, le automobili e il pallone, con interminabili tavole rotonde ad ogni angolo di strada sulla stagione andata storta e il rischio di retrocedere.

“Una tragedia”, commentavano gli sportivi. Per il povero Franco Marini, l’unica tragedia era stata finire in quel posto. Quand’era a scuola, il maestro gli rimproverava di star poco sui libri e di impegnarsi “in uno sport dove ventidue imbecilli corrono dietro a un pallone”. Lo avrebbe voluto incontrare ora, il maestro Pieracci. Per dirgli che in quell’angolino d’Italia non ci sono ventidue imbecilli a correre dietro alla palla, ma duemila paesani disperati. Tutti insieme.

In pochi mesi si era dovuto adattare, apprendendo le furbizie dello spogliatoio, i trucchi e i colpi bassi, come quello che lo portò a Calore. La società era al verde e il presidente non voleva indebitarsi ma i tifosi premevano per l’acquisto di un attaccante e per persuaderlo gli avevano rotto le vetrine della prestigiosa boutique. “Sono rovinato, questi mi ammazzano”. “E io che ci sto a fare?”, obiettò Sebastianelli, il segretario tuttofare, geniale e spregiudicato. “Il bomber da venti gol a stagione lo prendiamo gratis. Voi, preside’, statene fuori, è meglio che non vi sporcate. Datemi solo un cappotto buono col collo di pelliccia e centomila lire”.

Afferrò il telefono e chiamò il presidente della società piemontese. “Quanto volete, cento milioni? Subito, sull’unghia. Ma domani dovete venire qui a concludere. Siete miei ospiti nel miglior ristorante di Calore”. E proprio nel migliore ristorante di Calore, Sebastianelli corse incontro ai settentrionali, confondendoli con la sua generosità posticcia (“Un caffè al dottore. Volete pesce, carne? Cameriere, altro vino. A questo tavolo non deve mai mancare”). “Il presidente sarà qui a momenti”. Entrò Gaetanino, un disoccupato storico di Calore vestito da signore, con un grosso sigaro in bocca e indosso il cappotto buono del presidente. Era a disagio, vistosamente. Balbettava e il suo viso sembrava una lampadina, tanto era rosso. Articolare un “buongiorno, signori” fu già un’impresa. Mentre firmava l’assegno, la penna seguiva traiettorie improbabili.

Marini fu sballottato nel Napoletano da un giorno all’altro grazie ad un assegno a vuoto, su un conto corrente aperto il giorno prima da Gaetanino con un versamento in contanti di appena centomila lire. Dopo qualche giorno l’esordio e il battesimo del fuoco. “Qua non stiamo in Piemonte”, lo avvertì l’allenatore. Appena sceso dalla scaletta dell’autobus beccò un ceffone da un tifoso della squadra di casa. Oltrepassata la porta degli spogliatoi, corse verso un responsabile del servizio d’ordine, che sul petto, come una medaglia, portava il tesserino di riconoscimento. “Sono stato malmenato, signore”. Lui aprì con calma il soprabito e gli mostrò, legata alla cintola, una pistola. “Signore un cavolo, segna un gol e mangerai questi confetti”. Marini stramazzò al suolo. Una volta ripreso, si sentì male di nuovo negli spogliatoi; non respirava, tossiva e aveva gli occhi irritati. Le pareti e i pavimenti erano intrisi di varechina, fatta spargere dai dirigenti avversari.

Ed ora c’era l’ultima partita da giocare. Bastava vincere col Real Antignano ed era fatta. Negli inferi sarebbero retrocessi quelli del Sant’Eustachio, il cui presidente, ben conoscendo le scarse motivazioni del Real, aveva preparato undici assegni da un milione per ognuno dei suoi giocatori. “Questi sono vostri se non perdete col Calore”. Il che voleva dire undici diavoli contro, pronti a picchiare duro col miraggio del premio partita.

Arrivò la tanto attesa domenica dell’ultima di campionato. A metà strada, un sasso lanciato dal ciglio della strada frantumò un vetro e diede il benvenuto agli ospiti che negli spogliatoi subirono la consueta doccia di sputi e insulti, oltre a qualche ceffone ben assestato dai responsabili del servizio d’ordine. Ormai il tanfo della varechina era divenuto sopportabile. “Chanel numero 5”, disse l’allenatore, per sdrammatizzare l’assuefazione ai miasmi.

Fidava, l’allenatore, sull’arbitro. Il signor Ceccuti l’avevano mandato apposta da Roma, non era uno del posto e non si sarebbe lasciato influenzare né spaventare. Infatti non ebbe neanche il tempo di spaventarsi quando un omone lo sollevò, di peso, portandolo nel suo spogliatoio. “Stà chiuso qua e non uscire”, gli intimò, piazzandogli la canna della pistola sotto il mento.

Durante la gara, Ceccuti dimenticò le sue origini capitoline e le ragioni che avevano spinto il designatore a mandarlo su quel campo. Avrebbe voluto ammazzarli, quelli del Calore, che nei primi minuti di gioco si permisero di andare in vantaggio: 0-1. Ai padroni di casa fischiò di tutto, anche due rigori inesistenti: uno per tempo. Il primo fu parato dal portiere, così con gentilezza l’energumeno che l’aveva chiuso negli spogliatoi gli chiese di concedere un’altra opportunità al rigorista, che lui concesse. 1-1 e pochi minuti al termine. Il pubblico di casa era quasi a bordo campo: troppo debole la rete di recinzione, che ad arte i tifosi scuotevano ogni qual volta l’arbitro si avvicinava ai bordi del campo, facendo intuire che in un amen potevano essergli addosso. Franco Marini cercava di dare manforte ai compagni, correndo a dare una mano finanche in difesa, nei momenti di maggiore pressione dell’avversario, scorgendo un losco figuro tranquillamente appoggiato al palo, coi piedi sulla linea di fondo, che parlottava proprio col suo portiere. “E fattelo passare un gol, così torni a casa tutto intero”, gli sussurrava. “Io sono uno tranquillo, ti voglio bene. Ma li vedi questi pazzi? Questi qua se non vincono sfasciano tutto e la prima testa che rompono è la tua, che ti sei permesso di parare l’impossibile. Io lo dico per te, non ce la faccio a fermarla, questa gente. Come devo fare? Aiutami tu e fattelo passare questo gol. Tanto sei così bravo, una squadra la trovi lo stesso l’anno prossimo”.

C’erano anche i tifosi ospiti, i suoi tifosi. Urlavano, applaudivano. Se le sentiva addosso quelle mani, lo avrebbero stretto in un abbraccio se solo fosse stato capace di metterla dentro; in caso contrario, non osava immaginare come avrebbero potuto usarle, quelle mani. Chissà, forse fu proprio la paura a farlo saltare più in alto dello stopper e del portiere sul cross di Angelucci. La sua fronte colpì il pallone con una violenza inaudita. Non fu necessario girarsi per vedere dove fosse finito il pallone, perché il boato del pubblico fu eloquente.

Grida di gioia ma non solo. Si volse verso la curva dov’erano gli ultras: a loro andava tributato almeno un segno di deferenza, altrimenti si sarebbero offesi a morte. Urlavano, strepitavano ma non si limitavano a festeggiare. In mezzo a quelle facce torve ce n’erano altre, mai viste prima. Si agitavano e urlavano “gol”, sembravano degli ossessi e si aggrappavano alle recinzioni. La pressione di dieci, cinquanta, cento corpi, poi i calci e l’aiuto di una tronchese. La rete cadde giù e in un minuto furono tutti in campo, nonostante Franco e i suoi compagni tentassero di dissuaderli. “No, no, restate sugli spalti, altrimenti ci squalificano”. Niente da fare, l’orda aveva obbedito al richiamo tribale dei capi. La recinzione si abbatté sul manto erboso, le bandierine del calcio d’angolo furono brandite come mazze e le reti delle porte furono lacerate.

I ventidue in campo si girarono verso l’arbitro ma non lo videro, perché il direttore di gara era stato il più lesto a scappare verso il sottopassaggio e s’era chiuso a chiave negli spogliatoi.

Lui si disperava, come il suo allenatore, come i compagni, come i tifosi. Pochi balordi avrebbero determinato la sconfitta a tavolino, la retrocessione, l’ignominia. Perché?

Lo capì solo il giorno dopo, quando notò che la mestizia del paese era squarciata dal sorriso di Don Antonio, un pericoloso capozona della malavita organizzata che gestiva, per meriti acquisiti sul campo, le scommesse clandestine in regime di monopolio. Sorridevano soddisfatti anche i suoi sgherri, tra cui riconobbe molti dei tifosi che avevano invaso il campo. L’amore verso la squadra e la fiducia nei suoi calciatori avevano portato troppi paesani a puntare sulla vittoria del Calore e Don Antonio non voleva rimetterci. Aveva calcolato ogni pericolo e i suoi scagnozzi a un cenno d’intesa avevano provocato la sconfitta a tavolino.

Passò qualche mese e Marini si affrancò dalla schiavitù. Creditore di sei stipendi, aveva firmato senza battere ciglio una liberatoria falsa, necessaria per garantire al Calore l’iscrizione al campionato successivo, poiché la Federazione non avrebbe ammesso le società inadempienti con gli atleti. Gli era andata bene, con altri compagni che avevano fatto storie, avevano usato metodi persuasivi, mandando gli sgherri sotto casa.

     Il candore del calcio piemontese gli aveva fatto dimenticare i picchi di tensione di quella stagione nel profondo sud. Era immerso nei pensieri quando, sceso dal pullman per giocare in trasferta, si accorse di non aver preso contromisure. Diede uno spintone a un dirigente della squadra avversaria e corse verso lo spogliatoio, sbattendo la porta. Tutti lo guardarono inebetiti, indecisi se chiamare un’ambulanza o denunciarlo.

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2 commenti »

  1. Un vero gioiello questo racconto. Avevo fatto una papera e mi era sfuggito ma lo raccolgo volentieri e lo rimetto al centro. Da cronico calpestatore di campi di pallone e frequentatore di spogliatoi igienicamente impresentabili ho apprezzato tanti particolari che mi hanno fatto annuire e sorridere. La scrittura è bella, attenta e leggera anche nel presentare un mondo poco tranquillizzante ma molto verosimile. Bravissimo. Un grande in bocca al lupo.

  2. Non sono un’esperta, ma si legge bene, mi piace

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