Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2019 “Transazione negata” di Viviana Paolucci

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2019

La frenesia del sabato pomeriggio evapora dalle pareti appiccicose, gli ultimi pendolari affollano scale e corridoi; corpi, sudore e afa sporcano l’aria. Si respira fretta, una fretta strana. Spontanea. Tiene insieme due sconosciuti che camminano spalla a spalla.

Mi piace la metro. Quando lo dico la gente non ci crede.

All’ingresso c’è il solito caos, un gruppo di casalinghe si spintona alla biglietteria, mani avvinghiate a buste della spesa piene fino all’orlo. Una di loro ha urtato contro il pilastro, un’arancia è rotolata sul pavimento: l’odore sgradevole della frutta che marcisce invade l’atrio principale. Chi passa la scansa come lebbra; solleva i colletti dei maglioni, invece di avvisare l’ufficio delle pulizie.

Lo faccio anch’io.

Oggi non vado di fretta, ho il tempo di fermarmi tra i passi degli altri; la osservo per un po’, questa gente che corre, trascina polvere. Schifa il marcio che respira. Se sangue e anima fossero in contatto, i nostri globuli rossi trasporterebbero più incoerenza che ossigeno.

Più avanti c’è una coda infinita, un uomo sulla quarantina scavalca l’obliteratrice in metallo, chi è in fila per il biglietto protesta alzando la voce; corre verso i binari, ora, la noncuranza dei suoi gesti gli scivola addosso insieme alla cravatta che ha al collo. Rossa. L’addetto alla sicurezza lo richiama, nell’istante in cui cerca di seguirlo è già fuori dal suo campo visivo; lo intravedo appena, quel giovane in divisa, prende un fazzoletto dal taschino, si asciuga la fronte perlata di sudore, mentre cerca di riportare ordine.

Non ha pagato!

Non ha fatto la fila!

Non, non, non: siamo tutti più giudici, quando il marcio viene allo scoperto. Torno per un attimo con lo sguardo sull’arancia, quella poltiglia sul pavimento è il livido della società, monito amaro del nostro essere civili quando capita, della nostra coerenza intermittente.

Nel suo rapido salto oltre la legalità il fuggitivo ha perso la cravatta; respiro la scia di scompostezza che si è lasciato dietro, mi avvicino alla seta vermiglia finita sul pavimento. La scanso, quella stoffa aggrovigliata, lascio che si impregni del sudore dei passi, della polvere della stazione. Per una frazione di secondo penso di chinarmi, raccogliere quel rosso impastato di sporco e mettermelo al collo, uno sputo di sangue sui miei vestiti firmati, una nota discordante, sicuramente, nella pseudo-armonia della mia vita costosa; è un attimo, forse anche meno, eppure in quel minuscolo spicchio di tempo decido che mi piacerebbe, indossare l’indifferenza di quest’uomo.

Oltrepassare il guardrail del lecito, del concesso.

Ha coraggio, quest’adulto che osa, che lascia a terra la rispettabilità, la cravatta griffata: non sappiamo più rischiare, noi grandi, la prudenza è una poltrona più comoda. Ci scivoliamo dentro fino al collo. E’ un attimo, solo un attimo, eppure vorrei che durasse di più; se questo tempo potesse dilatarsi, diventare elastico, mi piacerebbe isolare l’accortezza delle mie scelte, la cautela dei miei gesti, la mia intolleranza agli errori; ne riempirei un pacco, uno scatolone chiuso con lo scotch. Lo lascerei lì, per terra, tra l’arancia ammuffita e la cravatta impolverata.

Tra quello che siamo e quello che ci imponiamo di essere.

Un leggero formicolio mi pizzica gli zigomi, sorrido senza accorgermene; non lo faccio quasi mai, sono muscoli che non alleno, in genere.

Mentre immagino di dissezionare il mio passato, ringrazio questo sconosciuto così simile a me, mi riscopro fuggitiva anch’io; forse scappa dal contegno, lui, dal decoro delle sue giornate, dall’eleganza del suo lavoro.

Evade dalla correttezza della sua realtà.

Io dall’incongruenza della mia.

Sono seduta per miracolo, intorno a me la gente boccheggia per uno spicchio d’aria: è l’ora di punta, la metro avvolge i passeggeri come una cinghia. A Cinecittà le ante scorrevoli rigettano la maggior parte dei pendolari, il vagone si svuota, una folata di fresco spazza via il tanfo di sudore e polvere. L’anziana che mi sedeva accanto si alza, sguscia via tra la folla. Il posto affianco al mio resta vuoto. Sollevo da terra la borsa Armani, le buste paillettate di Victoria’s Secret lasciano una scia di brillantini sul pavimento scuro; nel giro di qualche secondo il mio shopping mattutino finisce sul seggiolino accanto, un gruzzolo di zeri e capi firmati spiaccicato sulla plastica sudicia della metropolitana.

Mi appoggio sprezzante allo schienale, mi accorgo appena dei due occhi cobalto che mi fissano dal lato opposto del vagone. Sollevo la testa, ci guardiamo a vicenda, nocciola e azzurro si mescolano come acqua.

Ha la fronte corrugata, questa piccola che mi osserva, le manine sudate strette in due pugni. Per un attimo interrompo il nostro contatto visivo, mi chiedo cosa animi l’interesse di questa bambina sconosciuta. Scivola sul mio trench firmato, sulle Hogan lucide, sul Pandora tintinnante di ciondoli; mi studia con l’accortezza di chi sa osservare in silenzio, rilevare le differenze senza destare attenzione: non sa che sto facendo lo stesso. Sento i suoi respiri, vedo la sua mente volare lontana mentre immagina i comforts che ha sempre desiderato nella sua vita.

Forse mi odia, forse odia il fatto che la realtà, a volte, sia poco coerente, poco equa.

Mi guarda, e forse non lo sa, che sono al verde di emozioni; che spendo per riscattarmi, per dimostrare alla vita che il suo pizzo non l’accetto, non mi sta bene.

La donna seduta alla sua destra le rivolge un’occhiata bonaria, riconosco lo stesso taglio degli occhi della figlia: «Samira, tesoro, dammi la mano: la prossima fermata è la nostra». Seguo la traiettoria di quello sguardo non mio, rubo un po’ di quell’amore materno che non conosco, non ho mai conosciuto.

E rido, Samira, rido di me, di te, di quanto siamo stupide entrambe, in questo momento. Guardo la mano di questa donna intrecciarsi alla tua, la vedo sciogliere la tensione del tuo pugno.

E vorrei dirtelo, che hai vanificato le mie compere giornaliere, potrei lasciare in metro le buste e andare via: desideriamo entrambe ciò che non possiamo avere.

Ripenso per un attimo all’uomo in cravatta, all’evasore della realtà.

Penso che avevo ragione, siamo così dannatamente uguali, noi che paghiamo in contanti, ma elemosiniamo emozioni; vestiamo firmati, ma siamo anonimi dentro.

La verità è che viviamo nel lusso, ma vorremmo solo qualcuno con cui condividerlo.

Osservo la mano premurosa di tua madre, vedo le sue dita rugose stringere la tua pelle ingenua, e lo so, ne sono convinta, che certe cose non hanno prezzo, non sono in vendita. Questo filo rosso che sigilla il vostro legame vale più della mia borsa, più della cravatta del fuggitivo.

‘Omnia vincit amor’.

L’amore vince tutto, Samira. Anche il mio conto in banca.

Tieni le carte, paga per me.

Quello che voglio non è in vendita.

Trascino a fatica le gambe tra i gradini, mi appoggio al corrimano anche se è sudicio. Mentre percorro a ritroso il tragitto delle ultime ore, fisso un punto qualunque sul pavimento, gli strass delle Hogan cambiano colore sotto le luci degli schermi pubblicitari; capisco di essere arrivata anche se non guardo, l’aria si è fatta più pesante, ogni respiro è un pugno nel petto. Qualcuno mi passa di lato correndo, sposta l’aria così velocemente da farmi barcollare leggermente sul posto.

Sollevo lo sguardo per caso, a protestare non ci penso nemmeno; le parole non sono mai state il mio forte, non sono immune all’incoerenza. Osservo rimpicciolirsi la figura composta che mi sfila davanti, sposta con cura la giaccia sull’altro braccio, mentre si avvicina al giovane in divisa. La metro è più tranquilla, a quest’ora la gente rincasa con calma, senza aspettarsi nulla. Senza qualcuno che l’aspetti. È l’ora di chi non ha saputo scegliere, questa.

L’ora di chi, se l’ha fatto, ha scelto male. Il comodo.

Leggo sul volto dell’agente la stessa incredulità che credo di avere anch’io stampata sulla faccia; non mi avvicino, assisto da lontano a questo bizzarro regolamento di conti. Tira fuori una banconota e degli spiccioli dalla tasca, le monete finiscono senza delicatezza sul ripiano dell’obliteratrice, quella stessa scatoletta di metallo bypassata qualche ora prima.

«Mi dispiace – dice, gli occhi fissi in quelli del giovane -, mia figlia sale sempre su questa metro; vengo qui a guardarla ogni giorno. Dovevo far presto»

Un silenzio surreale è calato nell’atrio, da lontano riesco a sentire il respiro affannoso di entrambi, percepisco la confusione della donna in tuta che sta timbrando il biglietto. Non capisce, non potrebbe neanche se volesse. È arrivata tardi anche lei.

Non saprei dire quanti secondi trascorrano con esattezza tra la confessione del fuggitivo e la risposta dell’agente. So per certo che furono i più lunghi della mia vita.

«Ha fatto in tempo?»

«No»

«Non è riuscito a vedere sua figlia?»

«Si, ma ormai è troppo tardi. Quindi no, non sono arrivato in tempo»

Mentre il giovane cerca le parole giuste da dire ad un uomo che non ha certo bisogno di compassione, il fuggitivo fruga nelle tasche della giacca, tira fuori una busta di plastica e muove qualche passo verso di me; si china con eleganza, un fazzoletto in una mano, la busta nell’altra, raccoglie l’arancia spiccicata sul pavimento. Per poco meno di un attimo i nostri sguardi si incrociano, mi rivolge un sorriso ironico, più che di cortesia.

«Lo avrei fatto prima, se avessi potuto. Qui dentro non si respira»

Si volta prima che possa rispondergli, un rapido gesto e la cravatta impolverata finisce nella sua tasca; scavalca l’obliteratrice, mi sembra che stia ridendo, alle sue spalle l’agente fa lo stesso. Lo osservo mentre si allontana, guardo quel corpo segnato dalla vita eppure così composto, discreto, mi domando dove trovi la forza di non crollare insieme ai suoi problemi.

È un attimo, un pensiero che diventa liquido. E poi reale.

«Come si chiama?»

Si volta di scatto, il fuggitivo, aggrotta le sopracciglia di fronte alla domanda di un agente troppo curioso. Grida un Chi? a voce alta – forse un po’ troppo – per coprire la distanza che lo separa dal giovane in divisa.

«Sua figlia, intendo»

Sorride, una curva un po’ asimmetrica tra gli zigomi. Ma sincera. Credo che anche lui non alleni spesso i muscoli della felicità.

«Samira. Mia figlia si chiama Samira»

Mentre oltrepassa le ante scorrevoli dell’uscita, penso che la puzza di marcio non si sente più.

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