Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2010 “L’estate, a Torino, è una donna che canta il blues” di Stefano Mola

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010

L’estate, a Torino, è una donna che canta il blues. Potrebbe avere giusto appena un po’ più che quarantanni. Te lo dicono i suoi occhi, quella sfumatura disillusa che ti tira dentro il pozzo scuro della pupilla. E anche un certo modo di ridere, leggermente rauco, come se il suono dovesse passare prima su una mappa di carta vetro dove sono incise cose della memoria. Né lo sguardo, né la risata, sono sgradevoli, sia chiaro. Anzi.

È una donna che avresti da subito una gran voglia di invitare a cena, e nello stesso tempo timore. Sai benissimo di non poter usare nessun trucchetto facile, e non sei sicuro di essere all’altezza della sua ironia. Potrebbe arrivare un gesto della mano come scacciare il fumo, e dentro quell’aria mossa ti vedresti chiaramente: una mosca, o una zanzara. Arriverebbe presto il momento di chiedere il conto, e un sorriso di circostanza. Senza cattiveria: il fatto è che il tempo, da un certo punto, si fa sempre più importante.

Lei va una settimana al mare a fine luglio, da sola. Le piace arrivare la mattina presto quando la sabbia è ancora intatta. Si toglie il pareo e il reggiseno, e va a nuotare. Nuota piano, con metodo, per quasi mezz’ora. Dopo fa principalmente una cosa: si abbronza, ma sta topless soltanto nell’acqua e soltanto al mattino. Compra un po’ di frutta e verdura, torna nel monolocale, mangia, mette un disco, poi si concede il lusso di dormire un po’. Torna in spiaggia tardi, e si rimette al sole. Quando arriva l’ombra, legge.

Dopo impiega molto tempo per prepararsi. Si spalma a lungo e con molta attenzione il doposole. Si mette dei vestiti che usa soltanto in quella settimana. Ogni anno ne compra almeno un paio nuovi, e sta attenta alle rotazioni: non si porta dietro quelli che ha messo l’anno prima, per esempio. Si fa sempre aspettare dieci minuti, massimo un quarto d’ora.

Conosce lui da molto tempo. È uno di quegli uomini che da giovani passavano quasi inosservati, ma che col tempo acquistano. Si vede che c’è almeno qualcosa che hanno capito. Anni prima l’ha corteggiata, senza successo. Era troppo sbilanciato, anche se è sempre riuscito a farla ridere. Ogni sera vanno a cena in un ristorante diverso. Non mangiano molto, sempre pesce comunque. Chiacchierano amabilmente, come fontane in un chiostro. Ogni tanto lui riesce a farle uscire una certa risata più limpida delle altre.

Lui ci tiene ad aprirle la portiera della macchina e porgerle la mano per farla scendere, quando la riaccompagna al monolocale. Una specie di gioco, eppure, nonostante la ripetizione, quasi ogni volta le viene su una specie di rossore, sarà il vino. Gli dice: domani sera dove mi porti? Lui sorride facendo finta di essere uno che sa, e alza le spalle, cercando uno sguardo al di sopra delle sue possibilità. Allora lei ride un’ultima volta piegando la testa all’indietro, gli dà un bacio sulla guancia, uno solo, ed entra nel portone, senza voltarsi. Lui aspetta che la porta si chiuda, e se ne va.

Non c’è niente che impedisca loro di fare l’amore. Quasi tutte le estati viene un momento in cui sanno con precisione assoluta che basterebbe pochissimo, basterebbe che uno dei due facesse un gesto oltre la riga invisibile, e succederebbe. Eppure non è ancora mai successo, ed è quasi sicuro che non succederà mai. Non perché abbiano rinunciato al sesso, o a una storia. Può capitare che uno dei due sia solo, o che lo siano tutti e due, o che stiano tutti e due con qualcuno, non importa. Sanno benissimo che non dipende da quello.

Quando torna a Torino, le piace che faccia caldo. Le piace sentire l’indolenza, e sentire la città che la città si è svuotata. Le piace pensare che tutti vadano a rincorrere non si sa bene cosa, mentre lei ha già fatto il suo. Sotto la pelle sa di non aver ragione, ma non importa. È uno di quei vezzi che ci concediamo tutti, in fondo.

Così arriva una sera, di solito tre o quattro giorni dopo il rientro, che lei si mette un vestito anni cinquanta, stretto in vita, bianco. Sa che il contrasto con l’abbronzatura è perfetto. Sa di piacere. Prima di uscire di casa beve un whiskey on the rocks, notando che la notte già arriva un po’ prima. Arriva al locale che sono circa le ventidue, saluta il pianista, si fa offrire un altro whiskey, perché comunque c’è un certo formicolio lungo le gambe che l’alcool sa ammorbidire

Il momento più bello è quando si accende l’occhio di bue e lei davanti non vede più niente. Parte il piano, lei accende la voce un po’ roca, e si gusta il sapore d’ogni parola di quei testi a volte così tristi, che ogni volta per quanto usurati le regalano qualcosa di nuovo.

Dopo il concerto, si ferma nel locale fino a tardi. Se c’è qualcuno che sa davvero come usare gli occhi, senza troppe parole, che fa capire di saper far l’amore e che nel farlo intuire riesce a non essere sbruffone, si concede. Non c’è bisogno di dire che lei non va lì per quello. Sa che potrebbe succedere, ecco tutto. Non si è mai accontentata di farlo come una specie di rito.

Non resta mai fino al mutuo risveglio, magari si concede un piccolo sonno, che è però sempre leggero, interrotto da un qualcosa che non sta nel suo ordine abituale, ormai calcificato. Allora si limita a rimettersi l’abito e a raccogliere il resto, facendo il minimo rumore.

La cosa che le piace di più, di queste notti, è il momento in cui rientra nel suo appartamento all’ultimo piano, in Lungo Po Cadorna. Da una finestra si vede la Gran Madre. Di solito sta appena spuntando il sole. Apre la porta, è fresco, o perlomeno non troppo caldo. Prende un vinile di Bessie Smith che ha comprato a New York anni prima spendendo una follia, e che un vero collezionista terrebbe in una teca. Lo mette sul vecchio stereo professionale che le ha lasciato suo fratello. Non si cura del volume, tanto sono tutti in ferie. Le piace sentirlo gracchiare e frusciare, e poi quella voce.

Si mette in bagno davanti allo specchio, tira giù la cerniera dell’abito, lo lascia scivolare a terra, resta a guardarsi per un po’. I segni sotto gli occhi dallo sguardo pieno e profondo. Poi si fa una doccia lunghissima e un caffè, con una caffettiera napoletana, lasciando uscire fuori dalla finestra la voce di Bessie Smith. Immagina le parole trovare la loro strada attraverso qualche finestra aperta, fino a qualcuno che le sappia ascoltare veramente. Ci deve essere, da qualche parte.

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1 commento »

  1. “Ora/ se non eternamente/ è a volte/ meglio che niente” (R.D. Laing)

    Grazie 🙂

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