Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2019 “Come una farfalla” di Daria Maura Esposito

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2019

Entrammo, faceva freddo. Il palazzetto era stato inaugurato da poco, sugli spalti arrivavano i primi spettatori, per lo più genitori che avevano viaggiato per accompagnare le figlie, e diverse società sportive. Gli allenatori e i giudici erano giù in fondo, vicini alla pedana. Ovunque guardassi, nessuno sorrideva: la tensione regnava sovrana sul viso di tutti. Doveva esserci mia madre, da qualche parte, solo che ora non la trovavo più; mi girai da un lato e poi dall’altro, ma niente. Me la immaginai che si mangiava le unghie, come sempre quando era tesa, e forse quel pomeriggio lo era di più, perché a causa della mia gara non avrebbe potuto lavorare.

 Io e le mie compagne ci dirigemmo in gruppo verso la zona adibita agli allenamenti, ci voleva ancora un po’ di tempo prima dell’inizio della gara, ci saremmo riscaldate e avremmo provato ancora gli esercizi. Martina era davanti a me, il bodyrosso col fulmine disegnato e luccicante che dalla spalla destra arrivava al fianco sinistro, il suo vitino stretto, le gambe nude – avevamo la pelle d’oca – erano così lunghe e sottili da suscitare in me una costante invidia, soprattutto quando saltava e le facevano guadagnare un’elevazione che io non avevo avuto mai. Manana, la nostra insegnante bulgara, lo faceva notare sempre a tutte che lei sapeva farlo meglio di tutte noi.

La pedana era lì, alla fine delle scale grigie, lo scotch rosso attaccato a terra che delimitava lo spazio lecito da percorrere durante gli esercizi, un sottile strato di moquette sopra il pavimento freddo. Il grande tavolo dei giudici, tutto a destra, e poi uno più piccolo ad ogni angolo, per consentire di scorgere ogni fallo e valutare i nostri esercizi. Di lì a poco il microfono avrebbe pronunciato i nostri nomi uno per volta e la gara avrebbe avuto ufficialmente inizio. Percepii quella morsa che comprimeva il respiro fino al petto, all’altezza dello stomaco.

Mi ero allenata a lungo, prima di quella competizione, ma quel lancio non riusciva mai. Solitamente, sotto gara, gli allenamenti si facevano più assidui, anche se eravamo solo delle bambine. I miei ultimi pomeriggi li avevo trascorsi a provare e riprovare quel lancio della palla, ma alla fine delle due capovolte quella rimbalzava via, lontana dalle mie mani. L’ansia e la paura di quel giorno di gara erano motivate: presagivo il sapore amaro della sconfitta e della delusione di mia madre, che aveva perso un pomeriggio di lavoro per accompagnarmi e vedermi agli ultimi posti di una classifica lunghissima.

La mia Sasaki era gialla e nera a righe, dello stesso colore del mio body col fulmine, era una palla costosa, ma me ne sentivo indegna, un attrezzo che non padroneggiavo ancora bene alla soglia dei miei dieci anni. Non erano bastate infinite ore di allenamento e ripetizioni e la mia incrollabile determinazione: quella palla non si attaccava alle mie mani e si dimostrava un alleato ingovernabile e traditore.

 Quando chiamarono il mio nome il cuore cominciò a pulsare nel petto come un tamburo dannato, vidi le mie compagne sorridere e salutarmi, erano leggere come farfalle, eleganti e bellissime, mentre mi facevo piccola e distante camminando da sola verso la linea rossa.

Sentii il fischio d’inizio, mi sforzai di sorridere elevandomi sulle mezze punte, le gambe tese, i muscoli rigidi, la schiena dritta ed il petto in fuori, la testa alta ed un sorriso finto sulle labbra. Attaccò la musica. Il pubblico era silenzioso e pensai che aspettasse solo la mia caduta, i visi arcigni dei giudici, la donna al primo banco tamburellava con la sua bic blu sul tavolo di legno, al ritmo della mia canzone. E poi arrivò il lancio. Guardai il soffitto cercando di mirare in alto, più avanti della mia testa: dovevo calcolare lo spazio delle due capovolte, affinché la palla ricadesse proprio sulla mia mano. Trattenni il fiato e per un solo istante, mentre ero a testa in giù e giravo, chiusi forte gli occhi immaginando un lieto fine. Arrivata seduta – trattenevo ancora il respiro – cercai la palla con lo sguardo e distesi il gomito destro in avanti, aprii il palmo, lentamente, le dita una alla volta, a ventaglio, e fu lì, sulla mano protesa, che la vidi arrivare, tonda e perfetta, le righe rosse e nere che giravano vorticosamente. La sentii finalmente mia, accompagnandola nella discesa, strinsi i polpastrelli per trattenerla e non lasciarla scappare. Una manciata di secondi di perfezione.

Continuai gli ultimi esercizi, due rotazioni in relevé sul piede sinistro, i salti precisi sulle punte, e poi il finale, distesa a terra: la palla dietro la schiena, le gambe piegate fino a toccare le spalle, le mezzepunte vicine allo chignon dei capelli come in uno spettacolo circense, sulle ultime note di pianoforte. Fu in quell’istante di silenzio che incrociai il suo sguardo, la sua chioma bionda tra il pubblico, l’unghia del dito indice tra i denti, la sua attesa, il respiro sospeso. Sorrisi: era andato tutto bene. Il suo volto si addolcì, gli angoli delle labbra se ne andarono all’insù, in un guizzo di felicità. Era finita, di lì a poco saremmo tornate a casa. Ero leggera anch’io, adesso, come una farfalla.

                                                                                                                                                                 

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