Premio Racconti nella Rete 2019 “Tutti i gusti più uno” di Roberta Barbi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2019Quando tornava da scuola, alle 14 in punto, Jamie si fermava davanti al cancello del giardino di casa sua e fissava il portico, sempre perfettamente spazzato. Con una mano reggeva lo zaino, appeso a una spalla sola, con l’altra, con un gesto meccanico e ormai familiare, frugava nelle tasche del giubbino e tirava fuori una caramella ovale verde brillante, di quelle che a toccarle ti lasciano una polverina biancastra sulle dita una volta spogliate dell’involucro di plastica trasparente. Ci voleva la menta, per avere il coraggio di entrare: un gusto fresco che dal palato precipita in basso, fino a gonfiare i polmoni, e in alto schizza oltre il naso per rinfrescare idee e pensieri. Un balsamo per le mucose e per l’anima in gocce solide incartate singolarmente. Ogni pomeriggio la gustava così: senza zucchero, con gli occhi chiusi ed espirando profondamente. Quando si era completamente liquefatta sulla lingua, era pronta a entrare.
La mamma era in cucina come al solito. Singhiozzava. Trasalì: “Ah, sei tu”. Un sospiro di sollievo. “Stavo affettando le cipolle. A proposito, sai dov’è finito il coltello liscio? L’ho cercato dappertutto, sono costretta a tagliarle con quello seghettato, ma non è la stessa cosa – si rabbuiò – sai tuo padre quanto ci tiene che la zuppa sia perfetta, è il suo piatto preferito…”.
Jamie non rispose. Mentre sistemava sul tavolo i libri per i compiti, pensava a come poteva essere una caramella alla cipolla: certamente della classica forma a goccia e con un involucro biologico, simile a una buccia sottile. Dolce al palato, naturalmente, ma con una correzione aromatica, di anice, magari.
Quando la pendola suonava le 18 lui rientrava, ovviamente non prima di aver trascorso una buona mezz’ora al bar in fondo alla strada a bere whiskey.
Una volta aveva assaggiato le caramelle al whiskey: somigliavano a zollette di zucchero di canna a vederle, ma a mangiarle erano ruvide; avevano un sapore a metà tra il malto e l’orzo e una goccia di liquore al centro. Non erano il suo genere.
Iniziava con il rumore metallico del cancello sbattuto contro il muro, seguiva uno scalpiccio malfermo sulla ghiaia del vialetto e qualche tentativo a vuoto di infilare la chiave nella serratura, poi lo scatto e suo padre era a casa.
Se l’incespicare era stato più lungo e incerto del solito, allora ci voleva una mou al caramello: morbida, suadente, di quelle che ti abbracciano fino a non staccarsi più dai denti e sembrano cancellare tutte le amarezze con la loro dolcezza assoluta, disarmante, perfetta. “Ma come fai a mangiare tutte quelle schifezze? Prima o poi ti si riempirà la bocca di carie”, le diceva sua madre a vederla scartare freneticamente quel piccolo cilindro di paradiso dalla sua carta color oro, mentre si affrettava a togliere di mezzo i libri e a sparire in camera sua.
Curiosa premura per una che stava per essere pestata a sangue.
Chissà a quale gusto di caramella poteva somigliare di più il sapore del sangue. Jamie se lo stava chiedendo al sicuro al di qua della porta della sua stanza chiusa a chiave, mentre di là stava iniziando la solita corrida pomeridiana. Si metteva le cuffie con la musica a tutto volume per non sentire le urla, anche se la mamma non gridava quasi più. Ci si abitua a tutto, anche alle botte. Durava circa mezz’ora, perché poi aveva bisogno di ripulirsi in tempo per servire la cena alle 19 in punto. Nulla sapeva rendere quella mezz’ora sopportabile oltre alle caramelle mou. Non riusciva a descrivere quel gusto come avrebbe voluto. Una volta, facendo zapping alla tv, su un canale di cucina avevano spiegato che i gusti percepibili dall’uomo sono quattro più uno. Ci sono i tradizionali: dolce, amaro, salato e aspro, e poi c’era l’umami. Neanche il conduttore lo aveva saputo spiegare bene, eppure era uno chef. Il mou doveva essere quell’umami, aveva pensato Jamie. E aveva sorriso.
C’era stato un tempo in cui le cose erano diverse. Un tempo in cui nel vialetto si sentiva fischiettare, la chiave girava sicura nella toppa e suo padre rincasava canticchiando qualche vecchia canzone country. Allora lei mangiava solo rotelle di liquirizia nera. Si divertiva a morderne un capo e poi a srotolarle lentamente, fino a ottenere un serpentone appiccicoso che le inzaccherava le dita. A questo punto lo riarrotolava intorno alla lingua e faceva le boccacce verso i suoi genitori che non smettevano di ridere.
La prima volta che aveva mangiato una caramella era stato dopo aver letto Harry Potter. Anche lei aveva voluto provare tutti i gusti più uno, ma non aveva ancora trovato il suo preferito. Solo molto più tardi aveva iniziato a ingozzarsi.
Alle 19, prima di raggiungere i suoi genitori per cena, s’infilava in bocca tre o quattro gommose alla fragola. Ne aveva di tutte le forme: a cuoricino, a orsetto, a fiore, tutte traboccanti zuccherini colorati di rosso e spesso tutte appiccicate al sacchetto lezioso in cui venivano vendute. Erano stucchevoli, specie se prese più di una alla volta, masticate e mandate giù velocemente, ma era l’unico modo per sopportare quella vicinanza. Si sarebbe seduta, scusata per il poco appetito, e in pochi minuti sarebbe tornata in camera sua.
Prima di andare a letto, però, prendeva un paio di pasticche alla melissa, quelle piccole, rotonde, dentro il dispenser bianco che teneva nel cassetto. Come un benefico sciroppo, l’erba buona dal sapore di limone le scendeva giù nella gola e come il principe azzurro delle favole la proteggeva dall’ansia e difendeva il suo sonno dalla paura e dai brutti sogni. Solo così riusciva a dormire, anche se i brutti sogni non potevano superare la realtà.
Quella notte lui si materializzò alle tre, annunciato dalla solita puzza d’alcol. Stavolta non l’aveva sorpresa. Stavolta era pronta. Solo il tempo di cogliere, proprio come si farebbe con un fiore, un rettangolino amaranto, schiacciato al centro, dall’elegante scatola cromata che aveva sistemato sul suo comodino. Praline al rabarbaro. Non le aveva mai assaggiate prima, anche se il nonno quando era bambina gliele aveva offerte spesso: le chiamava le sue caramelle da meditazione. Valutò che mantenevano un perfetto equilibrio tra dolce e amaro, un gusto leggermente metallico, una rotondità liquorosa sul palato e una consistenza ferma, anche se lievemente gelée: una pura esplosione di sapore. Aveva trovato il suo gusto preferito, ideale per un’occasione speciale.
Ne bastò una per avere la forza di conficcargli dritto nel cuore il coltello a lama liscia delle cipolle. Lui non emise neanche un fiato, si accasciò sul fianco e subito una macchia scura e densa iniziò ad allargarsi sulla coperta. Per un attimo Jamie esitò. Si era chiesta tante volte quale caramella potesse avvicinarsi di più al sapore del sangue. All’improvviso non aveva più dubbi: il rabarbaro.
Da una caramella all’altra mi sono lasciato spostare anch’io come la protagonista su di un altro livello di realtà, dove il dolore è esorcizzato e i gesti forti messi in atto per arginarlo sono ridimensionati di fronte alla logica: i sensi leniti, anestetizzati da piccoli stimoli che soli possiamo controllare davvero. Profondo. Doloroso. Intenso.
Racconto amarissimo, proprio come il rabarbaro. (Me l’ero perso, rimedio ora)
Dispiaciuta di non aver letto prima i tuoi racconti, sono venuta a rimediare! Complimenti Roberta, un viaggio nel dolore al gusto di caramelle, che culmina nell’acro disperato sapore della liberazione.
E’ quasi un racconto alla Carver. E’ puro, senza fronzoli, non c’è nulla da aggiungere o da togliere.
Mi piace molto che siano le caramelle il filo conduttore di questo tragico racconto. La dolcezza che si fonde con la crudeltà.