Premio Racconti nella Rete 2019 “Bianco e rosso, senza sfumature” di Giorgio Sironi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2019Dalla fine dell’estate Riki Rizzardi si allenava due sere a settimana. Martedì e giovedì.
Si era messo a tirare pugni tanto per fare qualcosa. Riempire il tempo non è l’espressione esatta, non rende. Tornitore alla Mecmer, un’azienda metalmeccanica dell’Altomilanese, il lavoro non lo faceva impazzire, ma cosa vuoi – diceva – un mestiere ci vuole. Di questi tempi, poi! Una filosofia spiccia quella del Rizzardi, geloso delle sue piccole soddisfazioni: “Faccio andare tre macchine da solo, non so se mi spiego”.
Però non gli bastava. La sua vita era un assieme cui mancava sempre qualche quota, che non c’era verso di far saltare fuori. Per non parlare del Lombardini (il suo caporeparto), perennemente alle prese con le moine del suo unico collega Petelli, che per la maestria con cui teneva in scacco – a furia di leccate – il culo del suddetto Lombardini bisognava dargli un premio.
Avrebbe potuto contare sul titolare, ma i titolari, si sa, son sempre in giro, presi tra clienti e fornitori, con l’unica fissa di fare saltar fuori una manciata di occasioni buone dal cilindro. Almeno per non chiudere. E il titolare quando è fuori ha gli occhi del caporeparto, l’unico coi gradi che servono a non mandare all’aria la baracca.
Così una sera di inizio settembre si presenta al Boxing Club di Gallarate, vicino a dove abitava.
Era la palestra messa in piedi da Amilcare Colombi, promessa del pugilato locale ai tempi di Tommasi, messo all’angolo da un banale incidente sul lavoro (una vacada, liquidava) che gli aveva però compromesso irrimediabilmente il polso destro, dove vedevan l’alba i suoi temuti ganci. Allora s’era messo a disposizione degli altri, con la speranza che qualcuno prima o poi potesse andare avanti nell’impresa dove lui era stato fermato. Di gente ne era arrivata negli anni, anche roba mica male, ma niente ancora che gli facesse leccare i baffi.
Nella mischia, il Rizzardi, quasi a caso.
– Buona sera. Vorrei iscrivermi per tirare qualche pugno – disse Riki. Nell’aria presa a sorsate in sella al booster l’estate non era ancora completamente svanita. Si stava bene fuori, ma fu un odore di spogliatoio, di ascelle in brodo più che di palestra, a dargli il benvenuto.
Senza manco degnarlo di uno sguardo – se arrivava stoffa buona il Colombi lo fiutava dal tempo impiegato a raggiungere il tavolino all’ingresso, che faceva da segreteria vicino al vaso per gli ombrelli – gli chiese il certificato medico.
– In che senso? – fece Riki, indugiando un po’ troppo sulla zucca tirata a lucido del Colombi. Ma quello non l’alzava, curvo sulla cartelletta con le iscrizioni della nuova stagione.
– Nel senso che a convincermi che sei a posto deve dirmelo il dottore, nero su bianco e con il timbro. Altrimenti nèbia. E i pugni vai a darli dove voi, non qui da me.
– Per cui, … – tentennò Rizzardi.
– Per cui, senza dottore, ti siedi lì (indicando una panchina a bordo ring) e guardi. Sennò aria, dietro march e ci vediamo con il foglio. T’é capì? – tirò dritto il Colombi, puntandogli in faccia due occhi chiari, che un tempo avrebbero messo all’angolo chiunque ben prima di un montante.
– Già che son qui… rimango – esitò Riki.
– Ecco, lì da bravo. Ragazzi: pronti che cumincium!
Per quella sera non si incrociarono più – o così parve – e a fine allenamento annoiarsi non si era annoiato. Anzi, sarebbe tornato, passato dal medico.
Tornarono a scrutarsi il giovedì successivo, quando Riki si presentò in palestra con un quarto d’ora di anticipo. Notò che anche quella sera il Colombi indossava la stessa tuta blu, con due bande bianche sulle maniche e le gambe.
– Così sei tornato? – gli fece.
– Parrebbe di sì – raffazzonò Riki.
– Guarda che qui di campioni ne vien su uno ogni cent’anni, per cui sbassare la testa, intesi?
– Per quello può stare tranquillo – assestò sicuro il ragazzo.
– Allora, per me ci siamo. Com’è che fai di nome?
– Riki Rizzardi.
– Per ma basta il nome: Riki, giusto?
– Sì.
– E io sono il Colombi. Amilcare Colombi.
– Piacere – fece, allungando la mano.
– Tienila buona per dopo, che ti serve.
[Un paio di mesi a seguire]
– Mister, non è che mi può dare qualche consiglio? Sennò qui la massa la vedo venir su che son vecchio.
– Rizzardi, son mica la Madonna di Lourdes… Lì ci vuole un miracul: va’ come sei cunscià.
– Pensavo…, qualcosa da buttar giù.
– Uè, fighetta, sarai mica di quelli delle pastiglie? Mì, a quei delle pastiglie, … – quando il Colombi lasciava una frase sospesa a mezz’aria, dovevi aspettarti un destro di quelli che ti lasciano tra il lusco e il brusco; e infatti arrivò secco – Pescià in del cü a due a due, fin quando viene dispari!
– Ma no, Mister, per chi mi ha preso? Intendevo qualcosa di naturale.
– Di natural, Rizzardi, c’è soltanto la fadiga! Sudore e fatica, fadiga e sudore! Buonanotte Rizzardi. E ciapa mica frécc, sennò t’ammali.
– Buonanotte, Mister. A giovedì.
Ne passarono a secchiate di finali così, finché – sfinito – una sera il Colombi lo agguanta che se ne stava già andando muto e gli sgancia un “Due bianchi e un rosso la mattina: vieni su che è un piacere. Garantito, Riki!”.
Due bianchi e un rosso. Ma i vini io sapevo che non vanno mai mischiati… Sarà, se l’ha detto il Colombi funziona! – farfugliava tra sé il ragazzo.
Si mise all’opera da subito, tenace e meticoloso da non dire. Però, così? La mattina? A stomaco vuoto (perché non vorrai ingollarti quel carico dopo il latte coi biscotti, …)? Basta, ho deciso! O non vuoi più vederla venir su sta massa? – si diceva dandosi un tono.
Restava il fatto che dopo un inizio di tal natura, macinare la giornata diventava impegnativo con tutto quei gradi in circolo. L’acidità di stomaco non tardò a palesarsi di lì a pochi giorni, invocando il cambio della guardia di consolidate abitudini alimentari. Provò con gli affettati, lo zola, la ricotta. Niente. Soltanto il grana riusciva a procurargli un po’ di tregua, a patto di scofanarsene però una bella somma.
Meglio, andava meglio, ma anche a cambiar gli addendi, il risultato variava di poco: di massa manco l’ombra e in cambio un pieno che non bastava una giornata intera a smaltirlo.
Così provato, il già-ma-non ancora epatico Rizzardi, dopo un etilico calvario mattutino, un martedì, rimasti in pochi, abborda furtivo il Colombi.
– Mister, se continuo così finisco licenziato in tronco: arrivo al lavoro così brillo che non mi reggo in piedi!
– Cos’è che mi combini adesso, Rizzardi, ti dai all’alcool?
– Ma, …, me l’ha detto lei: due bianchi e un rosso…
– Rizzardi, vai bene a portar l’acqua, tu! Parlavo di uova io, altro che cicchetti!
Finì così, liberato da risvegli ad altra gradazione alcoolica. E a ripensarci, anche a distanza di anni, gli viene ancora da sorridere. Un sorriso ebete. A volte fermo. A volte un poco mosso.