Premio Racconti nella Rete 2019 “A God-awful small affair” di Paolo Ferro
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2019Da, Domine, virtutem manibus meis ad abstergendam omnem maculam; ut sine pollutione mentis et corporis valeam tibi servire.
Per prima cosa bisogna occuparsi delle mani, sciacquarle da ogni segno residuo di passaggio. Non importa fino a dove si sia spinto l’incontro con l’altro corpo; ogni forma di contatto è impura, conservarne traccia significherebbe invalidare il rito. Che si tratti della fronte calda di un neonato o delle membra gelide di una salma.
Sono passati solo dieci anni dalla laurea, eppure Antonio fatica a ricordarsi del perché si sia iscritto a giurisprudenza. La madre lo voleva prete per non dover competere tutta la vita con donne più giovani, il padre lo voleva dottore perché sentiva, per contrappasso, che avrebbe avuto una vecchiaia solitaria. In quanto a lui, per un breve periodo si era persuaso di voler diventare restauratore, ma la sua totale incapacità nel disegno l’aveva presto convinto a desistere dal progetto. Così, privo di altre inclinazioni, doveva aver optato per l’avvocatura, ritenendola un’adeguata sintesi alle aspirazioni dei genitori.
– Signorina Accorsi, l’ho fatta convocare per avere un resoconto più chiaro sulle dinamiche dell’incidente le quali, le parlo sinceramente, mi vedono alquanto perplesso.
– A quali dinamiche si riferisce?
– Vede, lei ha dichiarato che al momento dell’esecuzione del PAP test era illibata.
– Lo sono tuttora.
– Signorina, io non voglio mettere in dubbio le sue dichiarazioni ma capisce bene che quella di lesioni è un’accusa grave, prima di procedere bisogna essere sicuri.
– Io sono sicura della mia illibatezza.
– Lei mi vuole far credere che in quaranta anni.
– Trentanove a gennaio.
– Bene, in trentanove anni a Gennaio non ha mai avuto un rapporto sessuale?
– Non del tipo che pensa lei.
– Perché, mi scusi, quali altri tipi conosce?
– Esistono varie forme di intimità che non prevedono la violazione delle proprie virtù.
– D’accordo. Cercherò di essere più chiaro. Non ha mai avuto un rapporto penetrativo con un uomo?
– La cosa le sembra sbagliata?
– Solo un po’strana.
– Non è l’unico a pensarla così purtroppo.
– Immagino.
Antonio si ferma qualche istante a osservare la donna che si trova davanti.
Non pare soffrire di ritardi o altri tipi di deficienze. Possiede anzi una voce ferma, adulta e uno sguardo fiero che pare immune da ogni sorta di dubbio.
– È consapevole che queste domande le verranno poste anche in tribunale? E non con lo stesso tatto.
– Sì.
– Pensa di poterle affrontare?
– Io sì. Lei?
– Non lo so.
Per la prima volta da quando ha fatto accomodare la signorina Accorsi in ufficio Antonio abbandona il tono deciso con cui è solito rivolgersi ai suoi clienti, soprattutto ai primi incontri. Ha sempre ritenuto necessario stabilire da subito le distanze, affinché le reciproche aspettative rimangano confinate tra le pareti dell’ufficio e le aule del tribunale. Una forma di precauzione che la signorina Accorsi non dovrebbe far fatica a comprendere e che pure ha insistito a sfidare. Col risultato che l’imbarazzo che separa adesso il cliente dall’avvocato non è più dato dalla distanza ma dalla complicità.
Praecinge me, Domine, cingulo puritatis, et exstingue in lumbis meis humorem libidinis; ut maneat in me virtus continentiae et castitatis.
Indossato l’amitto ecco il turno del cingolo. Già, il cingolo. Come se bastasse un cordone di lana attorno alla vita per scacciare i pensieri libidinosi dalla testa di un uomo. La castità, come la continenza, partono da molto più in alto, ma il potere del simbolo è quello di riabbassare il tutto. Per questo la cinta va stretta forte. Perché si senta a ogni livello.
– Non ci credo.
– Te lo giuro.
– E vuole davvero far causa al dottore?
– Sì.
– Questa è fuori di testa e te che hai accettato di difenderla sei ancor più fuori di testa.
– Non è una causa difficile.
– La massacreranno. Vi massacreranno.
Beatrice pronuncia l’ultima frase sorridendo, mentre con la mano destra carezza via il ciuffo ribelle che si ostina a ricadere sugli occhi del collega. Nonostante tra una pausa e l’altra scopino da due anni non è mai riuscita a immaginarlo come qualcos’altro. Antonio si lascia cullare da quel gesto delicato, che lo rianima quanto quello voluttuoso portato avanti dalla sinistra sotto le lenzuola.
– Senti – le dice più tardi mentre cerca di recuperare i calzini da dentro i pantaloni. – Perché non partiamo?
– Quando?
– Ora. Appena ritrovo le mutande.
– Fra mezz’ora ho un appuntamento a studio.
– Hai ragione, non c’è fretta, possiamo anche aspettare un paio di giorni.
– Tra due giorni è Natale.
– Appunto. Ci facciamo un bel viaggio oltreoceano, anzi ci trasferiamo proprio. Una metropoli nordamericana: Toronto, Seattle?
– New York ti fa schifo?
– Un po’ banale, ma mi accontento. Tu eserciti mentre io faccio il casalingo mantenuto dell’upper class.
– Ambizioso.
– Vero? Oppure qualche paese caraibico, compriamo una casa sul mare, facciamo quattro bambini e li cresciamo sulla spiaggia.
– Li partorisci tu, immagino.
– No. Ma posso informarmi su come rivenderli se non troviamo un’altra fonte di guadagno.
Beatrice sorride, ma senza esagerare. Riesce sempre a rimanere composta, anche quando fanno l’amore.
– Antonio, ma che ti prende?
– Niente. Resisto male al Natale.
– Come vuoi.
Beatrice si alza dal letto, raccoglie i vestiti sparsi per la camera e si trasferisce in bagno. Antonio aspetta di sentire lo scroscio dell’acqua della doccia, segno inequivocabile che il dialogo è stato interrotto. Meglio così. Non ha alcuna intenzione di fornire una spiegazione più adeguata di quella che le ha appena dato. Anche perché, per quanto strano possa sembrarle, non gliene vengono davvero in mente altre.
Redde mihi, Domine, stolam immortalitatis, quam perdidi in praevaricatione primi parentis; et, quamvis indignus accedo ad tuum sacrum mysterium, merear tamen gaudium sempiternum.
Finalmente è il turno della stola. Sin dai tempi da chierichetto aveva subito il fascino di quella stoffa così ben ricamata, al cui solo contatto si sentiva partecipe di qualcosa di imponente, maestoso, trascendentale. Sopra la sedia ecco pronta quella bianca, quella della festa, della nascita, quella che indosserà alla messa di stasera. Ma adesso deve aprire il primo cassetto. Serve quella viola.
Le chiese lo hanno da sempre affascinato. In particolare la continuità con cui si presentano nella geografia di un luogo, radicate nel tessuto urbano più di quanto sia riuscito alla natura nel corso dei secoli. Antonio non ha mai condiviso il disprezzo populistico per l’abuso di denaro da cui sono scaturite, pur comprendendo la difficoltà di chi non riesce a isolare il concetto artistico dal valore simbolico di faro nella desolazione. Ci vuole molta fede per accettare che qualcuno si erga tanto in alto.
La Basilica della Santissima Annunziata. L’ultimo anno di liceo Antonio aveva trascorso interi pomeriggi nel cortile antistante l’ingresso a studiare gli affreschi di Andrea del Sarto. Se non aveva la mano per fare il restauratore, si era infatti fatto coraggio, avrebbe potuto formarsi come critico d’arte. Gli sarebbe piaciuto trascorrere la vita cercando di capire i sentimenti degli uomini di un tempo, ritrovare dietro al gioco dei colori quegli attimi di estasi che tra una miseria e l’altra dovevano avere certamente vissuto. Per l’intero anno scolastico aveva tenuto viva l’idea, respingendo di volta in volta ogni spinta contraria. Alla fine però era prevalsa la paura, trasformatasi più tardi in angoscia, che nessuno avesse diritto di comprendere ciò di cui non era capace.
Padre Adriano è seduto in prima fila, le gambe accavallate sotto la tonaca, il vangelo aperto tra le mani. Pare tutto concentrato nella preghiera, eppure non rimane particolarmente sorpreso dal tocco che gli arriva alle spalle.
– Sei venuto per confessarti?
– A dire il vero per invitarti a una birra.
– Sono le sei meno un quarto.
– Perfetto orario aperitivo.
– Tra un quarto d’ora ho la Messa.
– Siete in venti qua dentro, possibile le debba fare tutte tu. E dai, ci prendiamo un sidro alle bancarelle qua fuori.
– La messa delle diciotto la celebra padre Marco. Va bene dai, dammi un quarto d’ora che mi cambio.
Domine, qui dixisti: Iugum meum suave est, et onus meum leve: fac, ut istud portare sic valeam, quod consequar tuam gratiam.
Infine la casula. La veste ufficiale, l’abito sacro che da mero peccatore lo eleva a rappresentante di Dio sulla terra. Il Signore ha detto: il gioco mio è soave e il mio carico è leggero. Padre Adriano continua a ripeterselo tra le labbra, cercando di trovare la convinzione che gli manca nella preghiera. Ma di soave, questa mattina, non riesce a pensare a niente; e in quanto al carico è tutto fuorché leggero.
I confratelli non hanno permesso una cerimonia pubblica. Se fosse rimasto stroncato da un mix di farmaci o affogato nell’Arno come il sig. Nistri avrebbero potuto pure chiudere un occhio, ma con una cintura a mo’ di capestro non c’erano margini per aggirare la regola. A padre Adriano era stata comunque concessa la sagrestia libera per un’ora e l’accompagnamento di padre Gabriele con una vecchia chitarra scordata. Due elementi più che sufficienti per portare a termine il rito, alla cui conclusione manca solo il canto finale. Padre Adriano fatica a trovare l’intonazione, ma si sforza lo stesso di pronunciare tremante:
– It’s a God-awful small affair…
– Ti ricordi il funerale del padre di Giulia?
– Vagamente. Saranno passati vent’anni.
– Io invece lo ricordo benissimo. La chiesa era piena di ragazzini nonostante la preside avesse fatto di tutto perché a scuola non si spargesse la notizia.
– Non aveva fatto i conti con la mamma.
– Già, passò la notte al telefono con le altre rappresentanti di classe per convincere i genitori a portare i figli al funerale anziché a scuola.
– E li convinse. In effetti ora che ci penso era un bello spettacolo, relativamente alle circostanze. Non sai quanto è avvilente celebrare funerali quando la chiesa è semi vuota. Ma aspetta, fu lì che a fine funzione suonarono un brano d’opera?
– Le nozze di Figaro.
– Le nozze di Figaro.
Per più di un minuto Antonio e Adriano rimangono in silenzio, entrambi assorti nel tentativo di recuperare le note di quel giorno, che a poco a poco iniziano a diffondersi immaginariamente tra le bancarelle del mercatino natalizio di piazza Santissima Annunziata. Il silenzio, a dire il vero, dura qualche secondo in più della sinfonia di Mozart, che pare aver spazzato via la confidenza con cui i due fratelli avevano finora interagito. Sta ad Antonio, in quanto maggiore, prendere l’iniziativa.
– Sono stato a trovare papà.
– Lo so. Ho parlato ieri sera con Suor Costanza.
– Era seduto al tavolo con degli altri signori che giocavano a carte.
-Lui giocava?
– Non mi ha riconosciuto.
Adriano distoglie lo sguardo dal fratello dirottandolo verso il sidro, il cui fumo sta via via scemando dal bicchiere, sconfitto dal tempo e dal clima dicembrino. Pochi secondi, un intervallo sufficiente a scegliere tra parole di predica o di conforto. Sta optando per una via di mezzo, quando è ancora una volta anticipato da Antonio.
– Te che musica vorresti?
– In che senso?
– Per il tuo funerale.
– Beh, credo padre Marco opterebbe per Io Credo risorgerò.
– Ma dai, ipoteticamente, se potessi scegliere.
– Non lo so. Fammi pensare. Wish you were here?
– Ora si ragiona.
– Tu?
Un sorriso si apre sul volto di Antonio, lo stesso di quando da ragazzo andava a trovare il padre in ambulatorio fingendo di aver bisogno di aiuto per le versioni di latino. Il padre lo accoglieva infastidito, facendogli notare la fila di gente che lo attendeva per un consulto. Ma quando a fine turno lo trovava ancora seduto in sala di attesa non poteva fare altro che annullare il bridge e tornare a casa con il figlio. Un viaggio di ritorno pieno di interrogativi taciuti, nel quale diventava naturale pure domandarsi se c’è vita o meno su Marte.
i miei più sentiti complimenti
Ganzo! Davvero complimenti
Grazie, Elena.
Grazie, Butel!