Premio Racconti nella Rete 2019 “La Mora infame” di Paolo Ferro
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2019Erano più di due ore che il giudice ripeteva la stessa domanda. Esausto, rivolse lo sguardo prima al notaio e poi al medico, che risposero entrambi con un cenno affermativo del capo.
– Potete riportare la detenuta in cella – comandò alla guardia addetta alla carrucola, un ragazzo di vent’anni ancora non avvezzo alle pratiche della giustizia. Fu ben lieto, infatti, di potersi sostituire alla corda nel sorreggere il corpo della bella mora, ancora accogliente nonostante le storture dovute allo spasimo.
Del resto neanche il giudice, che di anni ne aveva più di cinquanta, aveva mai incrociato una bellezza così vistosa, talmente palese da risultare disturbante. Eppure non era stato fastidio la sensazione che gli aveva procurato la vista di quella pelle color nocciola, così perfetta da far credere che un artigiano l’avesse levigata apposta per l’occasione. Non una piaga, un’escrescenza, un segno alcuno di impurità. Il corpo di una divinità forestiera, fattasi carne per convertire anche il più ostinato tra gli infedeli.
Per fortuna interveniva il volto a tradirne la natura umana, quegli occhi così piccoli, insignificanti, che si erano rifiutati di emergere pure dopo che la rasatura del capo aveva eliminato la concorrenza dei ricci spessi, che ostinati tornavano a disturbare la fronte a ogni movimento. Adesso non ne restava che il ricordo, amplificato dalla povertà di quello sguardo. Non si poteva credere a degli occhi che non sapevano implorare.
Una volta liberata dalla stretta, la mora si abbandonò totalmente nelle braccia della guardia. – Non conosco alcun male – gli ripeteva mentre la trascinava verso la sua cella, ignara di averlo già convinto al grido che era seguito al primo strappo della corda.
– Il ragazzo avrà sogni turbolenti – disse il medico per stemperare il clima che aveva accompagnato l’uscita dei due giovani.
– Non credo dormirà affatto – rispose quasi sollevato il giudice mentre si alzava dalla sedia. Quindi invitò i due uditori a seguirlo nel suo ufficio, luogo più adatto alla riflessione della stanza degli interrogatori.
E di questioni su cui riflettere ce ne erano in abbondanza. La reticenza della ragazza, per niente scalfita dalla tortura, rimetteva in discussione tutto l’impianto accusatorio, a partire dalle testimonianze che avevano dato via libera al suo utilizzo. Che una donna, una prostituta per giunta, fosse in grado di mentire pure dinanzi al dolore più atroce rientrava nell’ordine naturale delle cose, così come che un essere umano, uomo o donna che fosse, potesse trovare nel supplizio il coraggio che nella vita gli era sempre mancato. Ma sulla pelle liscia e perfetta della Mora non c’era alcun segno di corruzione, conseguenza fatale per chi usa il corpo come mestiere. E nello sguardo non ardeva alcun fuoco di temerarietà; solo ignoranza e terrore.
– Corrado, potresti rileggere ad alta voce le due testimonianze?
– Con quale vuoi che inizi?
– Quella del tenente.
Il notaio sistemò nervosamente gli occhiali, infastidito dal non poterne più prescindere e iniziò ad armeggiare tra i verbali, scovandovi poco dopo il foglio richiesto. Diede una rapida lettura a mente del documento, così da non incorrere in pause che ne avrebbero turbato l’esposizione, poi si schiarì la voce e iniziò a recitare:
Testimone: In data sedici del mese di aprile mi recai insieme al capitano Maffei presso lo stabile di via della concia, dove il Maffei stesso mi disse abitare una ragazza di straordinaria bellezza, ma che in quanto di razza moresca si vendeva per meno di cinque lire l’ora. Pur riluttante ad usufruire di tali servigi, mi lasciai persuadere dai racconti entusiastici del Maffei.
Giudice: Il capitano le ha confidato quante volte era già stato nella casa?
Testimone: No. Cioè, non specificò mai un numero preciso, ma nei racconti riportava diversi aneddoti.
Giudice: Vada pure avanti, tenente.
Testimone: Sì, signore. Arrivammo allo stabile intorno alle diciannove. Il portone era aperto così salimmo direttamente al secondo piano, dove in fondo a un lungo corridoio si trovava l’appartamento della mora. Il capitano dovette bussare tre volte prima che la ragazza venisse ad aprire la porta. Quando riconobbe il capitano lo invitò sorridente ad entrare poi, dopo che Maffei le disse qualcosa a un orecchio, si rivolse anche a me e con un cenno della mano mi invitò a seguirli in casa, se così si possono definire due stanze dalle pareti decrepite.
Giudice: Si attenga ai fatti, tenente.
Tenente: Certo signore, mi scusi. La ragazza ci fece accomodare sul divano e ci offrì del liquore, ma rifiutammo perché ci eravamo fermati a bere qualcosa in un bar durante il tragitto, per scaldarci. La ragazza allora ha chiesto sorridendo al capitano chi dovesse cominciare e Maffei, ridendo a sua volta, si è voltato verso di me e scusandosi ha detto che in certi casi preferiva andare in prima linea. Quindi ha preso per mano la ragazza e si sono spostati nella stanza a fianco.
Giudici: E lei è rimasto nell’appartamento ad attendere il suo turno?
Testimone: I primi minuti sì. Poi ho iniziato a sentire molto caldo e ho preferito uscire dallo stabile per fumare una sigaretta. Sono rimasto davanti al portone fino a che non è sceso il capitano Maffei e insieme abbiamo preso la strada della caserma.
Giudice: Quindi non tornò a usufruire dei servigi della ragazza?
Testimone: No, signore.
Giudice: E perché?
Testimonia: Avevo perso la voglia.
Giudice: E il capitano cosa le ha detto? Le è parso strano, sofferente?
Testimone: No, signore, era come al solito. Si sorprese solo della mia scelta.
Giudice: Capisco. E quando iniziò a manifestare i primi segni del mal di Francia?
Testimone: Dopo qualche settimana, credo. Ma non so dirle i giorni precisi, perché io ripartii l’indomani per il fronte, mentre il capitano aveva dei giorni in più di licenza. Per stare con la famiglia.
Giudice: Già. Un’ultima domanda, tenente. Anzi, non importa. Può andare, grazie.
Il notaio pronunciò l’ultima frase con particolare enfasi, come servisse davvero per accompagnare il soldato fuori dalla stanza del giudice. Che dietro la scrivania rimaneva silente, la mente persa dietro a un pensiero ancora da articolare.
– Leggo la testimonianza della vicina? – chiese il notaio, impaziente di esser reso partecipe della riflessione.
– Solo l’ultima parte – specificò il giudice, che aveva mal sopportato già la prima volta i pettegolezzi della donna. Era stato costretto ad ascoltarne la testimonianza perché non poteva affidarsi alla sola deposizione del giovane ufficiale. Che sarà stato pure un ottimo soldato, ma rimaneva comunque un forestiero.
Testimone: La casa di quella straniera è sempre stata un porto. Ma nelle ultime settimane era cambiato qualcosa, c’era, come dire, meno trambusto.
Giudice: Cosa intende dire?
Testimone: Che la signorina riceveva meno visite. Forse si era stancata, o forse soltanto ammalata.
Giudice: E questo calo delle visite quando avvenne di preciso?
Testimone: Non saprei dirle eccellenza, non le tenevo mica la contabilità.
Giudice: Non volevo offenderla, signora, ma le sarei grato se potesse essere più specifica.
Testimone: Sarà stato sul finire dell’inverno. Marzo, fine marzo.
Giudice: Ed è in quel periodo che vide i due soldati venir a far visita alla mora?
Testimone: I primi di aprile. Il giovanotto era nuovo, ma l’ufficiale era già stato altre volte dalla mora.
Giudice: Conosceva il capitano Maffei?
Testimone: Non conosco alcun capitano, eccellenza. Ma so distinguere tra soldato e soldato, così come riconosco un vagabondo da un uomo sposato.
– Basta così – sentenziò il giudice, disturbato dalle intuizioni di quella donna così ottusa. Poteva sopportare che la verità richiedesse l’ausilio di simili persone, non che si manifestasse attraverso il suono sgradevole delle loro supposizioni.
– I tempi coincidono – disse il dottore con indolenza, prima di tornare a concentrasi sulla piccola bilancia in alabastro che dava tono alla scrivania e all’intera stanza. Il silenzio interrogativo dei due uomini di legge lo costrinse comunque ad aggiungere: – Risulta sempre difficile stabilire i tempi di contagio, specie quando non si può avere un quadro esaustivo di tutti i soggetti con cui è venuto in contatto il presunto untore. Tuttavia, anche nel mio mestiere, alle volte, bisogna lasciare spazio alle congetture, e queste indicano chiaramente che il capitano Maffei ha contratto la sifilide, o il mal francese se preferite, durante il suo periodo di licenza, dove secondo le testimonianze ha avuto la sciagurata idea di fare visita all’accusata, della cui promiscuità, dato il mestiere che esercita, non si può dubitare. E dove altro conduce la promiscuità se non al contagio?
– Eppure la ragazza non mostra alcun segno – intervenne il giudice, più per riprendere il controllo del discorso giudiziario che per chiedere conferma al medico di un aspetto che avevano già discusso. Ma il dottore volle concludere lo stesso il ragionamento, consapevole che da lì a poco il suo ruolo si sarebbe ridotto di nuovo a quello di aguzzino.
– Si tratta di una malattia perversa, che non rispetta né la logica né i tempi. Un contagiato può vivere mesi senza mostrare evidenze della malattia, mentre un altro dopo pochi giorni è già infestato dalla fronte alla punta dei piedi. Ambedue conoscono il dolore, ma solo il primo ha il privilegio di poterlo nascondere.
– E la responsabilità – aggiunse il notaio, ansioso di mostrare anch’egli di aver compreso il nucleo essenziale del ragionamento.
Il giudice osservò entrambi gli uditori con severità. In altre occasioni li avrebbe rimessi al loro posto con una massima di Cicerone o Bartolo da Sassoferrato, ma quel pomeriggio persino il suo orgoglio cedeva il passo al turbamento per le creature innocenti che avevano pagato l’avventatezza del capitano.
– Può riportare la ragazza – comandò il giudice alla guardia che aspettava ordini in piedi davanti alla porta. Il ragazzo si avviò a passo svelto verso le celle, mentre i tre uomini riprendevano le loro posizioni all’interno della stanza degli interrogatori. Qualche minuto di attesa e li raggiunse anche la mora, a cui il riposo aveva restituito parte della forza, se non altro quella della disperazione:
– Vostra eccellenza, vi prego, cosa volete da me?- implorò al giudice sorretta sempre dalle mani attente della guardia, che supplivano alle giunture andate delle caviglie.
– La verità – rispose serafico il giudice, pur guardando in un’altra direzione.
– Ma quale verità? – chiedeva spaesata la ragazza, rivolgendosi questa volta a tutti i presenti, confidando che qualcuno di quei dotti potesse venire in soccorso alla sua ignoranza.
– Esiste una sola verità – sentenziò il giudice, questa volta sforzandosi di guardare l’accusata negli occhi. Che sentì il peso di quello sguardo più della canapa che le veniva stretta di nuovo intorno ai polsi.
– E ditemela questa verità e io la confermerò tutta – riuscì a balbettare a bassa voce, tra le lacrime, mentre il dottore le tastava il corpo, palmo a palmo, per valutarne la residua resistenza.
– Potete issare l’imputata – si rivolse il giudice alla guardia, accompagnando il comando con un gesto plateale, a dargli conferma che stavano ricominciando ad agire in vece di un potere più alto. Nutriva per quel giovane un affetto spontaneo, che lo portava a assumere un insolito atteggiamento protettivo. Con quella posa rigida, cameratesca, doveva essere cresciuto per forza in un orfanotrofio o in una famiglia di militari. L’educazione che avrebbe certamente ricevuto il figlio del capitano Maffei, se la sua esistenza fosse durata più delle poche ore in cui il suo cuore aveva continuato battere, prima di arrendersi di colpo come qualche istante dopo avrebbe fatto quello di sua madre.
Tutto era pronto. La ragazza era stata sospesa molto in alto, se la schiena non fosse stata piegata in avanti, a formare un angolo retto con la parte bassa del corpo, la testa avrebbe sicuramente impattato con i tre metri del soffitto. Così, appesa come i resti di una bestia in macelleria, la mora aveva perso ogni traccia di bellezza.
– Era a conoscenza di essere infetta dal mal di Francia? – il tono del giudice era tornato forte e risoluto come a inizio giornata. Voleva concludere in fretta; non ci sarebbe stato un successivo interrogatorio.
Ma la mora si ostinava a non collaborare. Dalle labbra uscivano solo versi flebili, parole tremanti come tremava tutto il corpo della giovane, denudato anche dei pochi stracci che l’avevano coperto durante la permanenza in cella. Il giudice, che camminava avanti e indietro per la stanza, si soffermò per un istante a osservare il corpo della ragazza, le gambe scosse da continui spasimi, il sesso che osceno si apriva alla vista dei presenti. Era per quell’apertura rozza e tumefatta che il capitano Maffei e chissà quanti altri avevano compromesso la loro vita e quella delle proprie famiglie? Il giudice fu investito da un improvviso moto di rabbia. Fu lui stesso a lasciar andare la corda.
Questa volta la voce della mora si sentì fino alle fondamenta del palazzo di giustizia, che dovette far ricorso a tutta la sua storia per non essere crepato dallo strazio di quelle grida, che affondarono invece nella carne della guardia, così come in quella del dottore e del notaio, che di istinto avevano chinato il capo a terra, come doveva aver fatto Abramo mentre conduceva Isacco verso il monte Moriah. Voce che era penetrata anche dentro la pelle del giudice, che di colpo aveva ritrovato in quell’agnello appeso la giovane donna che solo qualche ora prima gli aveva riempito la vista. E di cui ora voleva a tutti i costi la redenzione, non per le vittime, non per senso di giustizia, ma per lei stessa, per la salvezza di quel volto straziato che adesso stava sospeso proprio all’altezza dei suoi occhi. Frenando la tentazione di carezzarle la nuca, il giudice le si avvicinò, implorando:
-Liberati del tuo errore. Che sia stato per negligenza, per debolezza, o per malizia, ora non importa. Basta solo che tu ammetta la tua colpa. Ammettila e liberatene per sempre.
Forse la ragazza avrebbe esaudito la preghiera del giudice, purgando se stessa per il delitto che le attribuiva e lui e tutti gli altri per quello che le stavano infliggendo. Avrebbe ammesso la colpa più infame, confessato il reato più atroce, se solo il dolore le avesse risparmiato la voce, lasciandola libera di condannarsi. Ma alla mora non fu concessa neanche questa forma vile di clemenza. Per altre due volte la corda ne sollevò le membra, per poi rigettarle con disprezzo verso terra, come a scaricare merda nella fogna. Il giudice stava per ordinare il quarto giro di corda, quando un gesto inequivocabile del medico lo fece desistere. I polsi vennero liberati dallo spago e il corpo deposto supino sul pavimento. Da un vecchio mobile, il medico tirò fuori una coperta impolverata e la passò alla guardia, che l’adagiò subito sul ventre della ragazza. Il notaio, deluso, rimise nella borsa carta e calamaio, convinto che il verbale non sarebbe stato più aggiornato. Il giudice volle comunque fare un ultimo tentativo, ripetendo anche al cadavere il medesimo quesito. Non ottenne risposta.
Un racconto intenso e forte per un personaggio che riesci a rendere vivo, concreto, nitido nella mente di chi legge. Si colgono la sua bellezza deturpata e la sua innocenza condannata, ci si avvicina al suo corpo con passo leggero e delicato. Proprio come hai saputo fare tu. Mi piace molto il tuo stile, mi piace molto la storia che racconti. Bravissimo!
Ti ringrazio molto, Carola. Ci tenevo davvero a che emergesse l’umanità della vittima, nonostante il “silenzio” e l’impotenza a cui la costringe la vicenda. Grazie ancora.
Notevole, soprattutto nel dettaglio psicologico dei personaggi attraverso la narrazione. Complimenti
Grazie, Diego.
Paolo, complimenti. Ci si alza a fine lettura come dalla sedia basculante di un vecchio cinema, complimenti davvero.
Grazie, Elena, sono davvero contento ti abbia lasciato questa sensazione.