Premio Racconti nella Rete 2019 “Novembre” di Elisabetta Grignani
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2019Il bosco respirava: il suo alito si condensava nell’aria fresca delle prime giornate di Novembre e anche i sassi sembravano prendere vita.
Lungo il sentiero i nostri stivali di gomma intonavano un’ode al fango: ad ogni passo un rumore d’acqua e terra melmosa ci accompagnava facendo da controcanto allo sgocciolio della pioggia tra le foglie dei grandi castagni.
“Magari troviamo dei funghi!” disse Elia scrutando tra le frasche. I suoi occhi s’erano fatti piccoli come capocchie di spillo alla ricerca di un tesoro succulento.
“Non so riconoscerli” risposi io. “Non ti preoccupare, ti insegno.”
Abbandonammo il sentiero e scendemmo nel bosco, le suole affondavano in uno spesso strato di foglie e ricci di castagne, qualche rovo ogni tanto ci tratteneva come per gioco.
“Guarda questo! È rosso e trasparente nello stesso momento!”
“Non lo conosco, ma ha l’aspetto vagamente mortifero, meglio lasciarlo dov’è.”
Il tappeto del sottobosco era difficile da penetrare con lo sguardo e le radici affioravano dal terreno come grossi nodi.
“Alice, guarda! Questi sono buoni e si mangiano anche crudi, erano anni che non li trovavo!”
“Anche io voglio trovarli!”
Aguzzai gli occhi e con la punta dell’ombrello scostai gentilmente i mucchi di foglie intorno ad ogni ceppaia.
“Li ho trovati!” urlai trionfante “e ci sono anche un sacco di castagne giganti”.
Indossavo un piumino color senape di qualche taglia più grande recuperato in chissà quale armadio, mi copriva fino alle ginocchia e aveva due ampie tasche. Spostai nel taschino dei jeans uno scontrino ancora in lire e un accendino che avevo trovato sul fondo di una tasca e cominciai a riempirle di castagne. Il sacchetto di plastica trasparente che portava con sé Elia invece lo riservammo ai funghi, in modo da non schiacciarli.
Alla fine del bosco la riva era sdrucciolevole e mi aggrappai a un giovane albero per evitare di scivolare. Mi è sempre piaciuto toccare gli alberi, la sensazione dei disegni della corteccia sui palmi delle mani mi sembra un gesto antico, le mie impronte digitali che si poggiano su quelle del legno in una carezza senza tempo. Con un breve salto riguadagnammo il sentiero e dopo un’ampia curva, alla nostra sinistra, si aprì un grande prato che portava alla cima della collina.
“Tagliamo da qui, magari troviamo anche dei prataioli”
“Come sono?”
“Tondi, bianchi e rosa…sono gli champignon”
“Ricevuto!” e mi misi a setacciare il prato scostando ogni filo d’erba. I confini del prato erano immersi nella nebbia, gli alberi si indovinavano a stento.
“Niente, solo funghi sconosciuti, pazienza”.
Raggiungemmo il crinale e finimmo in un prato di erba medica in cui s’era infiltrata qualche sparuta pianta di camomilla. L’erba aveva un colore grigio-verde, quasi metallico, e rifletteva l’aria lattiginosa.
Al fondo del campo il profilo di una vecchia cascina in pietra spuntava dalla nebbia e si appoggiava delicatamente al pendio, nella foschia spiccavano le tegole del tetto ancora intatto.
Ci avvicinammo e vedemmo le finestre chiuse da malconce persiane verdi. Al piano terra la vite vergine si aggrappava ai telai di legno delle persiane, abbracciando con le sue liane le poche assi rimaste integre e colorando il verde di sfumature rossicce.
Circumnavigammo l’edificio e scoprimmo il corpo ad L e la corte interna: le balle di fieno ammassate durante l’estate precedente riempivano i fienili ed i granai pericolanti, tre gradini portavano al cortile racchiuso tra la cascina e un altro caseggiato a due piani. Una costellazione di ruderi più piccoli accerchiava i due edifici principali: un essiccatoio, un forno e una vecchia fontana.
Anche la seconda casa aveva le persiane verdi rotte o semiaperte, come quando ci si addormenta e le palpebre salgono un po’, fino a mostrare il bianco degli occhi.
“Guarda, c’è una finestra sfondata”.
Un’anta della persiana era stata divelta e il telaio bianco della finestra conservava negli angoli poche schegge di vetro. Ci sporgemmo verso l’interno e scorgemmo una scala sul muro di fondo. Le pareti erano in calce bianca e il mancorrente sembrava di ferro. Sotto alla finestra una vecchia stufa di ghisa a 4 fuochi pareva aspettare l’arrivo dei commensali.
“Quand’ero piccolo qua ci abitava una strana vecchia, tutti in paese credevano fosse una strega e dicevano di starle alla larga. Io però venivo qua di nascosto e lei mi offriva sempre l’acqua della fontana da un grosso mestolo. Se l’avessero saputo i miei nonni…”
“Perché pensavano fosse una strega?”
“Da giovane perse una figlia e, sopraffatta dal dolore, si ritirò nella sua casa in paese. Dopo un paio d’anni ricomparve con uno sguardo folle e stringendo al petto una bambola di porcellana il cui viso era identico a quello della figlia scomparsa.” Elia mi fissò per sincerarsi di avere tutta la mia attenzione e continuò: “sembra che abbia gridato sul sagrato della chiesa: – Ritornerà e non la lascerò più andare via! – e si sia avviata verso il bosco, per poi rintanarsi in questa casa, ereditata da una vecchia zia.”
“Povera donna…”
Sentimmo un cigolio alla nostra destra. Trattenendo il respiro ci girammo e vedemmo un gattino tigrato uscire da un piccolo portoncino in legno. Il micio si strusciò un paio di volte sulla cornice della porta per marcare il suo territorio.
“Ehi Ali, quella porta è aperta, che ne dici di esplorare la casa della strega?”
“In un giorno di nebbia fitta? Mi sembra l’ideale…”
“Non fare la bambina, sarà divertente”.
Seguii riluttante Elia che si era diretto verso il portone. Una catena pendeva arrugginita all’altezza della serratura: le assi erano marce ed il pezzo assicurato con la catena si era staccato lasciando il portoncino libero di muoversi.
Lasciammo gli ombrelli vicino all’ingresso ed entrammo, un odore di umido e muffa colpì le mie narici. La stanza sembrava spoglia, nella penombra si indovinavano le sagome di una panca e dei ganci appesi al muro, messi lì per accogliere le giacche degli ospiti. Una porta giaceva per terra, i cardini avevano ceduto chissà quando, scavalcandola entrammo nella stanza della stufa, l’unica illuminata dalla luce del giorno che entrava della finestra sfondata. Non c’era molto di più di quello che avevamo già visto: qualche straccio e dei vasetti di vetro che nessuno avrebbe più riempito.
“Saliamo!” disse Elia.
“Ma la scala reggerà?”
“Secondo me è la parte meno pericolante. Vieni, fifona!”
I gradini erano ben saldi al muro, neppure uno scricchiolio. Elia aveva ragione e questo un po’ mi infastidiva. Pensai che Alice, per seguire la sua curiosità, era caduta nella tana del Bianconiglio e per poco non le tagliavano la testa; nonostante l’omonimia non mi sembrò un esempio da imitare.
La scala portava in una grande stanza dove qualche raggio di luce lattiginosa filtrava dalle persiane e cercava di fendere l’oscurità polverosa lasciando intravedere un pavimento di piastrelle a nido d’ape color terracotta. Due porte rompevano la monotonia del muro di destra: erano di legno scuro con dei pomelli in ottone.
“Dividiamoci” disse Elia, “Io vado nella stanza in fondo, tu esplora quella vicino alle scale”.
Appoggiai con poca convinzione il palmo sul pomello, era stranamente lucido e senza polvere. Girai piano la mano verso destra, cercando di non far rumore, come se temessi di svegliare qualcuno. La porta si aprì senza cigolii. La stanza era buia, l’unica lama di luce proveniva dalla porta che avevo appena aperto e scorsi solo l’ombra di una sedia. Attivai la torcia del telefono e feci un respiro profondo, mi avvicinai alla sedia: era in legno con la seduta in paglia e si trovava vicino ad una culla, orientata in modo da poterla guardare. La culla era di foggia antica ma dava l’impressione di non essere mai stata utilizzata, immaginai la strega seduta lì, a cullare ininterrottamente il simulacro della figlia morta. “Maledetta autosuggestione, ad ascoltare le storie di Elia finirà che non uscirò più di casa” mormorai a denti stretti.
Mi girai lentamente e il fascio di luce illuminò uno scendiletto beige e i piedi di un letto. Il copriletto in lana cadeva ordinatamente fino ad una spanna dal pavimento e non c’era traccia di polvere, come se il tempo si fosse fermato in un istante incantato.
Un comodino semplice, dello stesso legno del letto, riposava sul lato destro e il muro bianco continuava ancora per qualche centimetro prima dell’angolo che lo collegava all’altra parete. All’improvviso la torcia si spense. Fine della batteria, maledizione! Frugai nel taschino dei jeans e ritrovai l’accendino, un po’ di luce mi avrebbe salvata di nuovo dai miei incubi ad occhi aperti.
Feci scattare la rotella e fissai con gratitudine la fiamma. Un cerchio di luce tremula e calda si irradiò dal mio pugno e fece arretrare l’oscurità di qualche centimetro, mi avvicinai alla parete di fronte dove un lungo specchio, che sovrastava un alto cassettone, mi restituì l’immagine della parte sinistra del mio volto illuminata. I grandi occhi marroni scrutavano il buio al di sotto di una lunga frangia di capelli rossicci. Avevo lo sguardo di qualcuno che non avrebbe voluto essere lì.
“Fifona” pensai. E lo pensai con la voce di Elia.
Respirai a fondo. “È solo un po’ di buio. È solo una casa in mezzo al bosco”. Passai l’accendino nella mano destra, per fare riposare il pollice ormai anchilosato.
Percorrendo con lo sguardo il bordo inferiore dello specchio vidi qualcosa appoggiato sul ripiano del mobile. Mi avvicinai di un passo e la luce rischiarò il volto di una bambola in porcellana: aveva i capelli rossi, la fronte era nascosta da una lunga frangia ed era infagottata in un cappottino color senape troppo grande, le cui tasche sembravano piene fino all’orlo. Coi suoi grandi occhi marroni mi fissava. Urlai, e per una frazione di secondo vidi il volto della bambola contorcersi nel mio stesso grido. Sobbalzai, l’accendino si spense e rotolò sul pavimento di piastrelle fredde. Mi voltai verso la lama di luce proveniente dall’ingresso con l’unico pensiero di correre via di lì, ma in quel momento vidi cedere il muro sopra la porta. Sentii qualcosa afferrarmi le caviglie e stringere forte. Sentii le ossa cedere, i malleoli frantumarsi e il sangue non riusciva più a fluire verso i piedi. Gridai più forte, con tutta la disperazione che avevo in corpo.
Vidi in controluce la sagoma di Elia scavalcare le macerie, sentii le sue mani che mi afferrarono liberandomi dalle tenaglie che mi tenevano prigioniera. Volammo giù dalle scale e, una volta fuori, continuai a correre. “Si può sapere che è successo?” lo sentii urlare, ma ero troppo lontana e volevo solo tornare a gran velocità verso la valle, dove la nebbia non c’era e la ragione regolava ancora le cose del mondo.
Brava Elisabetta! Mentre leggevo mi cresceva costantemente l’ansia. Mi sono piaciute moltissimo le descrizioni dei luoghi, quando sono fatte così bene sembra di entrare proprio “dentro” la storia. Complimenti.
Un racconto pieno di pathos. Hai usato sapientemente la descrizione in prima persona portandomi con te nelle stanze polverose e buie della casa abbandonata. Ho trovato molto belle tutte le descrizioni della natura con alcuni tratti davvero poetici. Molto brava, mi è proprio piaciuta tanto questa storia.
Trascinato nel delirio, apparsa la bambola di porcellana sono saltato per aria. Bello con quelle immagini che si susseguono e si richiamano.
Grazie Valeria per il tuo commento! A volte è difficile capire quanto le immagini e le atmosfere che si cerca di imprimere su un foglio passino in effetti al lettore e sono felice delle tue reazioni (sì, anche dell’ansia, in fondo è un’ansia sana, di trasporto 🙂 ).
Grazie mille!
Grazie Monica, sono felice di averti portato con me a spasso nei boschi e in esplorazione!
Grazie davvero dei commenti, sono sempre uno stimolo fantastico per continuare a provare a scrivere nuove storie 🙂
Bellissimo racconto in prima persona, ti spinge a vedere se l’intuizione sulla bambola è giusta. Complimenti.
Luca, sono felice che ti sia piaciuto e che la storia ti abbia catturato così tanto!
Partire con una bella passeggiata (ed un titolo congruo all’attuale stagione) per giungere ad un finale alla The Blair witch project :). Ci hai rilassati con Memento e resi ansiosi in Novembre. Mi unisco al coro di complimenti!
Grazie Cristiano!
Silvia, ti ringrazio per il commento e i complimenti, sono felice che i miei racconti siano riusciti a smuovere delle emozioni 🙂