Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2019 “Il mio migliore amico” di Massimiliano Ivagnes

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2019

“Flavio sbatté la porta d’ingresso di casa, scaraventò i libri di scuola per terra e si precipitò nella sua camera da letto, contrariato e dispiaciuto.

Si buttò a peso morto supino sul letto, si coprì gli occhi con il braccio sinistro e così stette per qualche minuto, sforzandosi di cacciare indietro le lacrime di rabbia e di disappunto. “Sono pazzi! Sono pazzi!”, urlò all’improvviso, mentre dalla finestra chiusa un indistinto e concitato vociare della folla festosa che percorreva disordinatamente la strada sottostante annunciava l’imminenza di una pubblica e improvvisata manifestazione.ILa Signora Anna Maria fece timidamente capolino nella stanza del figlio, indugiò qualche secondo sull’uscio, guardò preoccupata in direzione della finestra, poi, lentamente, si avvicinò al letto di Flavio e si sedette sul bordo, ai piedi di lui.

Flavio allontanò il braccio dal volto e “Festeggiano l’entrata in guerra dell’Italia!”, urlò con gli occhi fuori dalle orbite. “Festeggiano l’entrata in guerra, quei pazzi!”, insistette mettendosi a sedere sul letto.

“E cosa succederà adesso?”, chiese la Signora Anna Maria con lo sguardo smarrito.

Flavio sospirò con una punta di disperazione dipinta sul volto e si lasciò cadere di nuovo sul letto a pancia in su.

Egli non volle pranzare quel giorno. Aveva lo stomaco completamente chiuso per il nervosismo. “Così farai solo il gioco dei fascisti!”, lo aveva ammonito il padre. “Devi mangiare, devi mantenerti in forze, perché non si sa adesso cosa potrà succedere”, aveva aggiunto. Flavio sapeva che il padre aveva ragione, lasciarsi morire di fame non era la strategia migliore per manifestare il suo dissenso per tutto quello che stava accadendo, ma quel giorno non sarebbe riuscito a mandare giù neppure un cucchiaio di brodo.

Si diresse deciso in cucina, sollevò la cornetta del telefono a muro e compose il numero di casa del suo vecchio compagno di banco.

“Pronto sono Flavio, buona sera, c’è Stefano?”, chiese a precipizio.

“Si, ciao Flavio, ora te lo passo”, rispose educatamente mia madre.

“Pronto, Flavio, dimmi tutto”, dissi afferrando la cornetta del telefono.

“E’ da un po’ che non ci vediamo. Ma allora non vieni più a scuola?”, mi domandò Flavio a bassa voce.

“Lo sai che siamo stati banditi dalle scuole pubbliche…”, interloquii  timidamente. “Mio padre è pure venuto a parlare col preside. E sai cosa gli ha risposto? Che era mortificato, che se fosse stato per lui non ci sarebbe stato alcun problema, ma che alla corporazione lo tenevano d’occhio, che ha moglie e tre figli da mantenere e che se avessero scoperto che permetteva ad un ebreo la frequenza di una scuola pubblica lo avrebbero di sicuro incarcerato”.

“Vigliacco!”, esclamò Flavio a denti stretti.

“E adesso come si metteranno le cose? Hai sentito il Duce?”, domandai quasi sussurrando.

“Ci ammazzeranno tutti!”, si lamentò Flavio esagitato. “E voi cosa avete intenzione di fare? Dovete scappare, dovete nascondervi! Vai a Parigi da tuo fratello! Scappa finché sei in tempo”.

Io deglutii pensieroso e dopo qualche secondo cercai di calmarlo: “Non credo ci sia questo pericolo, almeno per la mia famiglia. Papà è iscritto al fascio e contribuisce regolarmente ai finanziamenti del partito. Papà dice che noi possiamo stare tranquilli. Abbiamo nascosto alcuni gioielli di famiglia, non si sa quali tempi ci attendono d’ora in avanti. Ma stai tranquillo, eccetto che per qualche piccola precauzione, non c’è da temere per ora”.

“Lo spero bene”, sospirò Flavio. “Domani passo a portarti gli appunti di Greco. Il Professor Mantovani ha spiegato l’ultimo periodo dell’età imperiale…”.

“Ma io non credo che sarò ammesso agli scrutini, Flavio” lo interruppi con tono amaro. “E poi è pericoloso per te. Se dovessero vederti entrare in casa mia…”, stavo dicendo.

“Che mi denuncino pure!”, oppose Flavio stringendo i pugni. “Stefano, vorrei che…vorrei che le cose rimanessero come un tempo. Questa paura, questo terrore che ci hanno messo addosso la da loro vinta. E io non voglio darla vinta a quel mucchio di bastardi oppressori!”.

Sospirai: conoscevo Flavio sin dai tempi delle scuole elementari e sapevo che non avrebbe mai rinunciato ai suoi ideali di uguaglianza e di libertà.

“E va bene”, concessi rassegnato. “Se mai tutto questo potesse servire…Ma vieni presto. Domattina presto! C’è poca gente in giro e pochi occhi che osservano”.

Flavio si era iscritto alla facoltà di lettere di Firenze, che frequentava regolarmente con profitto. Tra qualche mese avrebbe compiuto 21 anni e con ogni probabilità sarebbe stato chiamato a difendere la patria al fronte. “Piuttosto me ne vado in carcere per diserzione!”, aveva esclamato. E, c’era da giurarlo, avrebbe con ogni probabilità mantenuto la sua promessa.

Io dovetti rinunciare agli studi classici perché agli ebrei era stato vietato la frequenza delle scuole pubbliche di ogni ordine e grado: mi limitavo a studiare qualcosa da autodidatta, acquistando qualche libro universitario di letteratura italiana presso il mercatino dell’usato di Massa, con la speranza, mai sopita nel cuore, che quegli assurdi divieti sarebbero stati revocati un giorno e avrei potuto riprendere i miei studi umanistici.

Flavio, di tanto in tanto, tornava a Massa e non mancava di venirmi a trovare per parlare con me di tutto: dei fascisti, delle dottrine socialiste, della sua vita a Firenze, di Ester, che aveva conosciuto all’Università, al corso di filologia romanza e delle loro lunghe passeggiate sul ponte vecchio fantasticando un domani di pace e di uguaglianza.

Nel mese di novembre 1943, Flavio volle rientrare a Massa in occasione del compleanno di mamma Anna Maria. Il 5 novembre, alle 07.00 del mattino, avvolto nel suo impermeabile grigio, era già per strada in direzione di casa mia. Aveva saputo che a Firenze i nazifascisti si recavano all’improvviso nelle case delle famiglie ebree e dopo averne fatto l’appello, per evitare che ne sfuggisse qualcuno, li caricavano con la forza su treni dalla destinazione ignota. Voleva dirmi che dovevo scappare con la mia famiglia, che dovevamo rifugiarci tutti quanti a Parigi, dove mio fratello maggiore, Daniele, era iscritto alla facoltà di ingegneria della Sorbona.

Percorreva di buona lena il viale della Stazione, quando un rumore di passi svelti provenienti da Via Carducci lo fece arrestare. Tese l’orecchio in direzione del rumore ma, oltre a qualche parola pronunciata con foga in tedesco, non sentì altro. Si affacciò con il capo sulla strada e notò subito una truppa nazista composta da un ufficiale biondo con gli occhi di ghiaccio e da quattro altri sottufficiali armati sino ai denti, che, all’evidente ricerca di qualcuno, facevano rimbombare i loro stivali neri sugli umidi sampietrini.

Flavio decise di voler capire cosa stesse succedendo e, imboccata Via dei Gelsi si accostò al portone di un’abitazione dove, poggiato al muro portante, si accese una sigaretta, simulando noncuranza.

Dopo neanche un minuto, vide provenire di corsa dalla direzione opposta alla sua qualcuno che, voltandosi di tanto in tanto alle spalle ed incespicando sul marciapiede sconnesso, stava certamente cercando di sottrarsi alla cattura.

Mettere a fuoco l’immagine di quell’uomo in fuga e riconoscere nelle relative fattezze la mia persona fu quasi simultaneo.

Flavio attese che io gli passassi accanto, mi afferrò per un braccio e mi trascinò all’interno dell’androne di ingresso di quel palazzo, provvidenzialmente aperto.

“Che succede?” domandò preoccupato.

“Vogliono prendermi”, sussurrai ansimante e terrorizzato. “Sono venuti questa mattina a casa mia. Hanno preso tutti: mamma, papà, Mattia. Io sono riuscito a scappare dalla porta sul retro, ma ora mi stanno inseguendo e io…”.

“Spogliati!”, mi interruppe Flavio. “Dammi i tuoi indumenti!”, esortò serio.

In men che non si dica, Flavio aveva indossato sciarpa, cappello e cappotto miei. Ed io feci altrettanto con l’impermeabile di Flavio.

“Tieni questi!”, mi ordinò portandomi la mano all’interno della tasca destra dell’impermeabile. Ne cavai fuori alcune banconote e “Vai verso la stazione! Scappa in Francia, Stefano. A loro ci penso io!”, mi incitò.

“Ma…cosa vuoi fare?”

“Non perdere tempo, ora. Scappa! Scappa appena mi vedrai voltare in Via Carducci!”.

Flavio si coprì il volto con la mia sciarpa e il mio cappello di lana, aprì il portone, lanciò uno sguardo circospetto all’esterno e si diresse verso l’intersezione con Via Carducci. Attese qualche secondo e poi, quando fu certo di essere stato avvistato dai nazifascisti, che indugiavano nervosi sul Viale della Stazione, imboccò deciso Via Carducci in direzione centro. Quando appurai che la truppa era sufficientemente lontana, uscì anch’io da quel nascondiglio di fortuna e, gambe in spalla, mi diressi alla volta della stazione dei treni.

Nel frattempo, Flavio, nel tentativo vano di seminare gli inseguitori e di far loro perdere le tracce, aveva imboccato diverse viuzze, fino a ritrovarsi in un vicolo cieco. Si accasciò sul muro di confine, come a volerlo rimuovere con il solo peso del corpo, mentre sentiva i passi della truppa tedesca farsi sempre più vicini. Si voltò di scatto: ormai non aveva più scampo. Si ritrovò circondato dai militari che gli avevano già puntato i fucili addosso, mentre l’ufficiale dagli occhi di ghiaccio, dritto davanti a lui, gli urlava: “Wer bist du?”. Senza attendere risposta, con un violento gesto, sfilò il cappello di lana dalla testa di Flavio.

Di tutta risposta, questi, con un ghigno sarcastico, sputò in faccia all’ufficiale tedesco, colpendolo alla guancia sinistra. Quest’ultimo, accortosi da subito di essere stato beffato, digrignò i denti e, tremante dalla rabbia, “Zum tod!”, esplose paonazzo in viso.

Io correvo ancora verso la stazione dei treni quando udii due colpi di arma da fuoco esplodere poco distanti. Mi arrestai col cuore in gola, mi voltai in direzione degli spari, ma poi ripresi la mia corsa disperata, mentre gli occhi si riempivano di lacrime. Caddi, mi strappai i pantaloni, mi rialzai con i palmi delle mani sbucciati e ricominciai a correre più veloce che potevo, tentando di soffocare quel pianto disperato che mi offuscava la vista”.

“Fu così che riuscii a nascondermi in un carro bestiame di un treno diretto a Parigi, Emma, a raggiungere tuo padre e a salvarmi dalla deportazione”.

“Che storia triste, oncle Stefano!”, considerò la piccola Emma, mentre la televisione accesa mandava in onda un’intervista esclusiva al Presidente in carica, Georges Pompidou. 

“Si, una storia triste come tante altre di quegl’anni…Ed eccoti spiegato chi è la signora Di Marco a cui scrivo a Natale di ogni anno: è la mamma di Flavio, il mio migliore amico di sempre. Un piccolo grande eroe che ha combattuto contro l’ingiustizia, contro la dittatura, contro la repressione. Colui che mi ha salvato la vita. L’amico migliore che un uomo possa desiderare”, concluse l’uomo con gli occhi lucidi.

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2 commenti »

  1. Avrei potuto trovare la storia di Flavio tra quelle dei piccoli e grandi eroi raccontate nelle testimonianze degli audiovisivi del Museo della Resistenza di Fosdinovo, in provincia di Massa: mi hai riportato lì, con la tua storia, ed è un bel ricordo. Grazie.

  2. Grazie, Luca. Sono contento che ti sia piaciuto.

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