Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2019 “La vecchiaia del capriolo” di Dario Alessandro Pagli

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2019

Arturo Soleri fu svegliato da una voce lunga e lugubre, profonda e innaturale come si fosse trasmessa sotto l’acqua. Il sonno compatto del mattino che gli gravava sugli occhi non riuscì ad arginare il brivido che gli gelò il sangue in corpo. La voce della sirena, infatti, non si poteva confondere con alcunché al mondo e ormai la sua mente l’aveva registrata come il più pericoloso dei segnali.
Succedeva sempre allo stesso modo: un tono basso, quasi un ruggito sommesso, che si srotolava in una sequenza di toni sempre più acuta che raggiungeva il culmine in un verso lancinante e inumano che squassava l’aria e faceva rizzare i capelli in testa.
Arturo si rannicchiò sotto le lenzuola profumate di fresco e le sue gracili ossa scricchiolarono mentre si ammonticchiavano le une sulle altre, femori, rotule e tibie strette nella morsa protettiva delle braccia che sembravano due stecchi dentro al pigiama. La testa si posò istintivamente sulle ginocchia. Mentre ancora il grido là fuori perforava il cielo, chi avesse guardato il letto di Arturo vi avrebbe scorto una tremante massa spigolosa a cui le lenzuola davano l’informe consistenza di un fantasma.
Arturo sentì la faccia corrugarsi, solcata da mille rivoli come il gheriglio di una noce e si vergognò della lacrima che percepì calda e salata piombargli da un occhio fino alle labbra rimaste, quelle sì, carnose e rosee come quando, sotto le bombe, mentre suonava la sirena, camminava sprezzante per le vie della città in cerca di gente da aiutare. Era giovane allora e saltava come uno stambecco da un cumulo di macerie all’altro sfidando gli altri partigiani rimasti in città come lui a trovare un modo per compiere la missione più difficile di tutte: attraversare il fiume che divideva il centro dalle campagne, i cui ponti erano stati tutti fatti saltare dal nemico asserragliato per bloccare qualsiasi via di comunicazione. Il tempo in cui tutto questo accadde fu quello più terribile di tutti perché gli assedianti ormai si sentivano spacciati, schiacciati dagli Alleati a sud e dai partigiani nelle colline circostanti. E allora anche quell’ultima scintilla di umana pietà che arde perfino in un boia, abituato a uccidere non per cattiveria ma per assuefazione, si spegneva sotto le stellette dei generali che ordinavano massacri con glaciale progressione matematica: dieci, venti, trenta morti per ogni loro caduto fatto fuori dai partigiani.
Arturo era soprannominato “Capriolo” per la sua abilità nella fuga dopo ogni azione compiuta ai danni del nemico e alla fine della guerra, che gli aveva strappato madre e sorella (forse anche il padre di cui aveva perso le tracce in seguito a una retata), era stato anche decorato di medaglie al merito e delle chiavi della città. Una notte, sotto uno dei bombardamenti più feroci, ormai prossimo alla liberazione, aveva estratto a mani nude un’intera famiglia da una cantina su cui era crollato un palazzo di cinque piani. Una bolla d’aria che si era creata nel ventre polveroso delle macerie e la sua forza fisica avevano dato una mano alla tenacia che, per ore, lo aveva inchiodato a cavar via macigni dai quali spuntavano i pezzi delle vite annientate. Le stesse vite che poco prima ancora nutrivano speranze nella fine della guerra, nascoste dietro alle tende pesanti poste a chiusura delle finestre durante il coprifuoco.
Di quella notte Arturo conservava solo una fotografia che, istintivamente, si era ficcato in tasca mentre scavava come un forsennato. Raffigurava un busto femminile, forse un’inquilina del palazzo collassato di cui mai più si era saputo nulla. Aveva la pelle candida, gli occhi ombrosi e una bocca che era una sottile linea tracciata dal pennello fine di un rossetto.
Anche adesso che, tremante e rinsecchito, piangeva raggomitolato sul letto, lui vecchio, lei eternamente giovane, quello sguardo conturbante lo fissava con la solita dolcezza dalla cornice sopra il cassettone in cui era gelosamente custodita la fotografia. Arturo contò secondi infiniti prima che, di nuovo, la sirena si arrotolasse di nuovo nel ruggito sordo e tacesse il suo lamento. Poi aspettò impotente e rassegnato il primo scoppio e la pioggia di pietre e polvere sparate in alto prima di ripiombare a terra.
Ora, pensava, sarebbe toccato a qualcun altro venirlo a salvare, semmai una bolla d’aria avesse avvolto anche lui. Ma non successe niente. Il silenzio piombò nella stanza da letto e Arturo, rilassando timoroso i muscoli sfibrati dagli anni, srotolò il gomitolo di ossa, alzò la testa tra sinistri scricchiolii di gomiti e ginocchia e guardò l’ora. Le lancette sul quadrante della sveglia segnavano le otto e un minuto. La sirena di entrata del turno di mattina nella grande fabbrica dove si producevano i treni era appena suonata riecheggiando come sempre su tutta la città. Arturo si passò veloce una mano sull’occhio che aveva lasciato cadere la prima lacrima e si vergognò. Ma la paura che prima o poi la sirena, quella cattiva, potesse tornare a squarciare l’aria non lo aveva abbandonato del tutto. Diede una scrollata di spalle e pensò a quanto tutto, perfino il sorriso sulla cornice, fosse effimero.

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2 commenti »

  1. Grande sensibilità dare voce alle paure che si risvegliano e aumentano di intensità con l’avanzare dell’età.
    Trovo il modo di scrivere di questo autore molto delicato ma anche incisivo e capace di ben descrivere situazioni e sentimenti. Bello

  2. Grazie luciavaiani per il commento e per le riflessioni

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