Premio Racconti nella Rete 2019 “Scelta fatale” di Dario Alessandro Pagli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2019Oscurità. Silenzio. Pace, finalmente. Nella saletta dall’alto soffitto decorato, da quasi un’ora, ormai, non si sentiva più lo scalpiccio e lo strofinio ossessivo di scarpe sul liscio pavimento di marmo. Da fuori provenivano, attutiti, i rumori della strada, lontana, o apparentemente tale, al di là degli alberi del parco. Per tutto il giorno, come sempre del resto, un continuo flusso di facce annoiate, incuriosite o, per la stragrande maggioranza, falsamente interessate si era riversato, a intervalli regolari, nei locali del bel palazzo bianco.
La donna si voltò di scatto, come se la muscolatura del collo si riavesse, dopo uno sforzo intenso, che aveva provocato una forte, insopportabile trazione. In realtà quel gesto esasperato era solo il frutto di un’impazienza maturata da lungo tempo. Diresse in alto lo sguardo, puntandolo sulle decorazioni della volta. Paride ancora non si era mosso, Venere era ancora lì, trionfante con il suo pomo, Giunone e Minerva, manifestamente offese, mantenevano un’espressione corrucciata. La donna mosse lentamente la mano destra, poi l’intero braccio, distendendolo in avanti per adagiarlo con grazia lungo il corpo, morbidamente posato sul lettino. Puntò quindi entrambe le mani sul divanetto e, esercitando una leggera pressione su di esse, si sollevò per sedersi in modo più comodo. Erano, in lei, le movenze gentili di una ninfa e la nobiltà altezzosa di un cigno, tratti che non nascondevano, comunque, un vigore d’animo profondo e ben radicato.
Adesso aveva abbassato lo sguardo e si trovava immobile sul morbido e candido triclinio, come chi si svegli e necessiti di qualche attimo per dissolvere i fumi del sonno. Il suo volto, però, non presentava nessuno dei segni che accomunano, di solito, chi proviene da una felice incursione nei propri sogni: non la minima imperfezione della pelle, non uno sbadiglio, non un accenno di disorientamento. Si deve sapere, infatti, che la donna non aveva dormito: si era soltanto liberata dalla postura forzata cui era stata costretta, nobile, è vero, elegante, s’intende, ma sempre dettata e imposta da mani esistite in un tempo lontano.
Ruotò improvvisamente su se stessa, eseguendo un quarto di giro, per posare i piedi nudi a terra, leggera. Non provocò alcun rumore, né produsse il minimo spostamento d’aria. Si percepì solo il lieve volteggio di un ectoplasma nell’aria scura. Il materassino del divanetto, venendo meno il contatto con il corpo di lei, si mosse, traballò, colmò all’istante le fossette provocate dal peso gentile delle sue belle membra.: rimase unicamente qualche piega al centro. Uno dei due cuscini posati sullo schienale scivolò, roteò sull’altro, trascinandolo con sé in un veloce carosello che si concluse a metà del triclinio.
Che fare? Dove andare? La donna, candida nel suo panneggio delicato, mosse qualche passo attorno al proprio giaciglio, con fare annoiato e adirato al contempo. I suoi lineamenti erano perfetti, la sua andatura armonica e coordinata. Nell’insieme non si potevano rilevare in lei i difetti, che, inevitabilmente, si riscontrano in un corpo umano. Sciolse i capelli, che caddero sulle sue spalle come una cascata bianca, che riflesse nel buio un raggio lunare fatto permeare dalla tenda della finestra. Si trascinò lentamente, allo stesso modo, senza mai mutare andatura, per tutta la notte, tra le sale silenziose. Possibile che solo lei fosse così irrequieta? Alla perfezione materiale faceva, infatti, da contraltare un turbinoso malessere, che con gran piacere della donna sarebbe sfociato nelle lacrime. Se solo i suoi occhi avessero potuto produrne! Non era possibile continuare così.
Chi aveva dato il diritto ad un essere imperfetto di mettere mano ad una massa informe di marmo, di modellarlo a suo piacimento, di trarne un corpo perfetto e di cospargerlo in molte occasioni di cera, per renderne la vista ancora più bella e sottoporlo, quindi, alle luci del mondo? Perché quest’essere crudele, seppur involontariamente, non le aveva fatto capire che quello sfarzo sarebbe degenerato in un ipocrita gioco di indifferenza collettiva? Forse neppure lui poteva immaginarlo, forse non era capace di guardare oltre la propria esistenza. O forse aveva addirittura creduto che la sua opera sarebbe presto finita. Invece lei era ancora lì, orfana in un oceano di dubbi, portatrice di un nome non suo, di sembianze non proprie, appartenute a qualche modella ancora molto celebre, stando a quanto era riuscita a sapere. Si sentiva vuota, priva di identità.
Albeggiò. La donna si diresse istintivamente al suo triclinio, vi si coricò esattamente come la sera prima e quella prima ancora. Ma proprio mentre stava per piegare nuovamente il braccio sul cuscino, riportato alla sommità dello schienale, si fermò. Pensò. Stette per un tempo indefinito immobile, con l’avambraccio a mezz’aria. Poi si mosse di scatto, fulminea e ancora tragicamente aggraziata.
Dalla stanza pervenne un tonfo sordo e un rotolare di scaglie informi che si sparpagliarono tutt’intorno al punto dell’impatto. In un baleno la perfezione, l’eleganza e la nobiltà si frantumarono, disperdendosi in polvere e detriti. La testa ad un’estremità della sala, il busto al centro, le braccia lontane l’una dall’altra, i morbidi piedi persero le dita. Paolina, così usavano chiamarla, si era concessa la rivincita, aveva messo in atto la propria ribellione. Non era più bella, non era più perfetta. Al vortice interno, finalmente, corrispondeva il giusto, caotico, aspetto esteriore. Per la prima volta era libera nella prigione che chiamavano museo.
La gabbia pirandelliana della forma voluta da altri; questa volta l’autore ha finito la sua opera, ha bloccato il flusso vitale; ma Paolina reagisce: al diktat preferisce il caos.
Originale immedesimazione in un’antica, famosa e bella scultura la cui essenza non si sente rappresentata nella sua esteriorità, ma soprattutto vi si sente intrappolata. Drastica interpretazione della modernità dell’essere e dell’apparire. Bel racconto.
Una bella metafora sulla libertà di essere se se stessi questo racconto. E fu così che quel marmo dal quale qualcuno aveva “liberato una forma”, si ? ripreso la sua essenza.
Complimenti Dario questo racconto è scritto benissimo. Mi sembrava di vederla Paolina che si muove “tragicamente aggraziata” per le sale del museo. Bello anche il finale, ribelle al punto giusto. Magari le persone, quelle in carne e ossa, riuscissero a liberarsi dalla prigione di questa ricerca ossessiva della perfezione esteriore! Davvero bravo e molto originale.
In risposta a luciavaiani
Grazie mille del commento!
In risposta a Monica Menzogni e Valeria Rago,
grazie, mi fa molto piacere che il racconto vi sia piaciuto!