Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2019 “Codarda” di Enrica Poggio

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2019

Il piccolo aereo vola basso. Osservo da vicino il mondo che ho deciso di abbandonare: porterò con me tutti i volti e le immagini, testimonianze della mia vigliaccheria. Ero impreparata: è la mia unica scusa; non ci ho provato abbastanza: sarà per sempre il mio rammarico.

Salgo sul secondo aereo, mi condurrà verso una città normale. Avevo grandi aspettative, credevo di essere capace di raddrizzare il mondo; sarei stata la voce di chi non può urlare così forte da farsi sentire ovunque.

Come ero entusiasta di lavorare in redazione: il primo passo per costruire il mio sogno.

– Tutti vogliono fare il giornalista… è un mestiere difficile e si deve iniziare dal basso!

Così fui accolta da Alberto, il caporedattore. Imparavo poco e nessuno badava alle mie didascalie, ma non m’importava. Lo consideravo il prezzo da pagare per il grande salto: andare in qualche angolo del pianeta e raccontare ai lettori vite diverse dalle loro.  

L’unico sollievo alla frustrazione era Patrizia, la mia coinquilina: è stata lei a mettermi sulla strada che, in una sera d’estate, mi avrebbe portato lontano stretta alla mano di Matteo.

Intorno a me prevale il grigio. È incredibile come l’uomo abbia piegato l’ambiente alle sue necessità! L’aeroporto è così grande che gli occhi vedono solo l’asfalto delle piste e l’acciaio delle torri di controllo. Anche le persone si adeguano: ripiegati in loro stessi tralasciano di guardare oltre. Conosco bene questo stato d’animo… Ho buttato al vento un’occasione preziosa per imparare a vivere; come queste persone che mi passano davanti mentre aspetto il prossimo volo, ho scelto di erigere una trincea, sopraffatta dalla paura.

Matteo mi aveva avvertito, ma avrebbe dovuto essere più scrupoloso e immaginare che l’impatto, per me, sarebbe stato devastante. Ecco, ci risiamo: attribuisco ad altri responsabilità che sono solo mie.

Come quando ho accusato Khaled di farmi sentire in colpa:

– Molto di quello che vedi dipende da Paesi come il tuo!

Ripeteva frasi simili ogni volta che mi portava a visitare un campo profughi, un ospedale o una delle tendopoli improvvisate nel deserto. Era l’angelo custode a cui Matteo aveva affidato la mia sicurezza. Sento ancora il suo astio, ma solo adesso lo comprendo. Quando ero là, schiacciata dal dolore che vedevo ovunque, mi sono irrigidita… come chi, davanti a una scena horror, si copre gli occhi con le mani.

Fra un paio d’ore mi lascerò tutto alle spalle: l’ultimo volo e poi sarò a casa. Cercherò una testata interessata a una giovane giornalista in carriera, disposta a viaggiare. Dovrò tacere sul fatto che sono scappata: non dirò che mi era insopportabile vedere bambini mutilati, ragazze con negli occhi i segni delle violenze subite e madri disperate per la perdita dei figli! Nessuno saprà che voltavo la testa quando i feriti entravano in ospedale… No, non sarò più capace di affrontare tutto questo.

– Sarà fantastico per te: racconterai ciò di cui parlano tutti da una posizione privilegiata!

Le parole di Matteo erano entrate poco a poco nella mia mente. La sua proposta di seguirlo in uno dei periodi che dedicava al volontariato mi aveva lusingata: mi giudicava all’altezza.

Arrivammo al campo in una serata bollente; la canottiera si appiccicava alla pelle, anche i sandali mi facevano sudare.

– Ti abituerai presto… – disse Matteo – Il clima del deserto è stimolante!

Quella fu la prima di numerose notti passate con gli occhi inchiodati al soffitto della casupola che dividevamo con altri volontari dell’ospedale, cucina e servizi igienici in comune. Sapevo che non avrei vissuto in un hotel a quattro stelle ma la totale mancanza di privacy mi schiacciò come un macigno. Matteo rientrava a notte fonda: esausto, si buttava sul letto. Mi concedeva solo qualche parola e l’intimità fra noi diventò un miraggio.

– Questo è Khaled! – annunciò la seconda mattina indicandomi un giovane alto e robusto: i suoi occhi di pece mi fissavano severi.

– Ti accompagnerà a visitare il campo e dovunque vorrai andare.

– Una guardia del corpo?

– Un interprete, piuttosto. Segui sempre i suoi consigli: non tutti, qui, amano i giornalisti occidentali!

Trascurò di dirmi che, Khaled per primo, li odiava…

Mi sistemo al mio posto, lato finestrino. Accanto si siede una ragazza con lunghi capelli rossi; avrà qualche anno in meno di me: cosa l’avrà portata, sola, fin quaggiù?

Subito dopo il decollo reclino il sedile; viaggiare mi sfibra e ho bisogno di dormire.

Il sonno mi è mancato del tutto nelle ultime settimane: ero troppo angosciata per concedere alla mia mente di spegnere i pensieri e con le mie paure impedivo anche a Matteo di riposarsi.

Ricordo la mattina in cui visitai per la prima volta il campo profughi con Khaled, il tablet e molto entusiasmo. Conobbi una famiglia appena arrivata: marito, moglie, quattro figli e l’anziana nonna; sette persone a soffocare sotto una tenda. La prima cosa che mi colpì furono gli occhi della giovane donna, così intensi e fieri che non riuscii a sostenerne lo sguardo. Ci sedemmo fuori, sulla sabbia, e Khaled iniziò a tradurmi il racconto dell’uomo: raccontò di un viaggio al limite della sopravvivenza, dei bambini che piangevano affamati, dei cadaveri che incontrarono e del terrore di essere colpiti. Alla fine disse:

– Non so cosa ne sarà di me… ma farò di tutto affinché i miei figli tornino nel loro Paese!

Rimasi colpita dalla dignità di quell’uomo: neanche un lamento o un gesto di rabbia.

Azzardai un commento con la mia guida mentre ci aggiravamo per le stradine polverose:

– Ti aspettavi di vederlo piangere o che ti implorasse di aiutarlo?

– Al posto suo sarei disperata…

– Credi che lui non lo sia? Noi abbiamo imparato a sopportare.

L’aereo continua placido a condurmi verso casa e io assisto alla proiezione degli ultimi mesi della mia vita: le scene che mi scorrono davanti agli occhi resteranno in me per sempre, come il campo profughi vicino a quello in cui vivevamo.

Salimmo sul fuoristrada dell’Ong alle prime luci dell’alba.

– Qui è un paradiso in confronto a quello che vedrai! – mi aveva avvertito Matteo.

La parola ‘inferno’ non rende l’idea di ciò che il mio tablet iniziò a riprendere fin dall’ingresso nella tendopoli: nessun prefabbricato né baracche, solo tende improvvisate e molte persone non avevano neanche quelle. Adulti e bambini ci circondarono; parlavano a voce alta, dalle espressioni e dalle mani tese dedussi che chiedevano qualcosa… cibo e acqua, forse.

– Gli aiuti fanno fatica ad arrivare fin qui – spiegò un rappresentante dell’organizzazione umanitaria. – La zona è controllata dai ribelli che fermano i convogli.

– Perché? – domandai e Khaled mi lanciò un’occhiata di disapprovazione.

– Questa gente proviene dalle città filogovernative. Più morti ci saranno, maggiore sarà l’attenzione del mondo.

Ci dirigemmo verso un gruppo di persone sedute in cerchio: erano tutte donne, perlopiù giovani, avvolte in abiti laceri.

– Lei è Ghalia – disse il funzionario.

Un volto emaciato e rigato dalle lacrime si sollevò verso di noi per riabbassarsi subito.

– È arrivata da due giorni e non ha mai smesso di piangere.

Khaled le si avvicinò; qualche parola sussurrata e la ragazza si alzò.

Ci sistemammo poco più in là e lei iniziò a raccontare.

La notte, trascrivevo le parole di Ghalia; non sentii rientrare Matteo, assorta nel dolore di chi aveva assistito impotente al massacro della sua famiglia e subito il più odioso degli abusi.

Era rimasta raggomitolata su se stessa per giorni, accanto ai corpi dei genitori e dei fratelli; poi, mani pietose l’avevano sollevata e trasportata al campo. Aspettava un bambino. Odiava chi le aveva fatto questo ma dichiarò che avrebbe amato suo figlio con tutta se stessa.

– È così difficile… – dissi con un filo di voce.

Matteo era chino su di me, gli occhi fissi allo schermo.

– Hai un compito importante: tutti devono sapere cosa succede qui!

Abbracciati sul letto, il sudore colava copioso sui nostri corpi.

– Sento che il peso di tutto questo mi schiaccia ogni giorno di più.

– Le prime volte, mentre lavoravo con poca luce e in mezzo alla polvere, dicevo a me stesso che avrei mollato.

– E invece fai il volontario da dieci anni…

– Già! Ti devo confessare una cosa: non lo faccio per aiutare gli altri, ma me stesso.

– In che senso?

– Non riesco a stare lontano da una sala operatoria: è adrenalina!

Erano giorni che Ghalia accompagnava il trascorrere delle ore. Davanti al computer cercavo di rendere al meglio la sua testimonianza, ma le parole erano sempre inadatte. La sera ascoltavo il racconto di Matteo e degli infiniti punti di sutura che gli era toccato dare a donne, uomini e bambini – “neanche un intervento, immagina la noia!” – e vedevo solo gli occhi pieni di lacrime di quella ragazza. 

Forse la mia compassione, paralizzata troppo a lungo dalla meccanica quotidianità, si era risvegliata all’improvviso, trovandomi impreparata. Ma questo giustificava il senso di oppressione di cui non riuscivo a liberarmi? Quello che vedevo andava oltre la sofferenza: ogni mattina avevo intorno a me persone private del futuro. Perché, allora, tutta quella pena non ha fatto scattare in me la volontà di cambiare le cose, per loro e per me stessa? Per quale motivo non sono stata capace di restare, ascoltare altre ragazze come Ghalia e diventare la loro voce? Ormai sul cielo di casa, non ho risposte.

Il personale di volo si prepara all’atterraggio. Nessuno mi aspetta all’aeroporto: Matteo è rimasto al campo.

– Pensaci bene! Sarà difficile avere un altro permesso.

Ha reagito così all’annuncio della mia partenza; io, invece, avevo bisogno di qualcuno che mi obbligasse a restare e ad affrontare la mia debolezza. Ma lui non è la persona giusta: l’ho capito la sera dello scoppio, quella terrificante nottata che ha segnato la mia rinuncia.

Mi ero appisolata, nonostante lenzuola imbevute di sudore e un’aria così spessa che i polmoni si rifiutavano di assimilarla. La porta della camera si spalancò:

– Corri! Abbiamo bisogno d’aiuto!

Mi precipitai fuori. La scena era illuminata dai fari dei fuoristrada e dei furgoncini, lasciati accesi per consentire al personale del campo e ai suoi abitanti di squarciare il buio della notte.

– Vai in ospedale da Matteo!

Entrai nella tenda sanitaria: una ventina fra bambini e ragazzi erano sistemati in ogni angolo; qualcuno piangeva in silenzio, altri gridavano dal dolore.

– Reggimi questa!

Matteo mi diede una lampada portatile. La avvicinai al tavolo; lui medicava un ferito: parte del volto era ridotto a una poltiglia di pelle e sangue, l’occhio sano mi fissava senza espressione. Mi voltai e incrociai lo sguardo di una ragazzina: si teneva premuto sul ginocchio un grumo di bende che aveva perso tutto il bianco originario; al di sotto, non c’era niente. Lasciai cadere la lampada e corsi via; sentii Matteo che gridava il mio nome, poi caddi nella polvere. Mi hanno raccontato che sono svenuta; io ricordo solo il viso di Matteo, di ritorno la mattina dopo sfatto dalla fatica, che mi rimproverava senza dire nulla.

Erano inutili spiegazioni e scuse. Avevo lo zaino pronto; sarei partita la sera stessa.

Aspetto il bagaglio e osservo le valigie colorate girare in tondo. Molti hanno i volti abbronzati, sandali ai piedi e magliette colorate: la vacanza è finita, domani saranno di nuovo alle scrivanie dei loro uffici. Io non tornerò in qualche redazione a scrivere didascalie. Ghalia, Khaled, Matteo e il campo… i bambini e le donne feriti, i morti e i disperati che ho incontrato hanno svelato qualcosa di me che non conoscevo. Niente di edificante, ma con cui devo fare i conti.

Non posso fare la giornalista, almeno come intendo io questo mestiere: mi arrendo con troppa facilità, non sopporto il dolore, sono troppo debole per aiutare gli altri. Questa è la mia realtà.

Il taxi mi porta verso casa; dal finestrino osservo strade e palazzi famigliari e non provo alcun sollievo. Sento le parole di Khaled:

– Il problema è che a nessuno importa di questa guerra! Una foto d’impatto, un titolo gridato e poi tutti dimenticano cosa succede qui… ogni giorno!

Adesso so che faccio parte della moltitudine che si gira dall’altra parte.

Loading

2 commenti »

  1. Ti dirò quello che più mi ha colpito in questa storia. Prima di tutto complimenti per la scelta e per il taglio che hai dato a questo argomento e poi la frase che mi ha colpito: “non lo faccio per aiutare gli altri, ma me stesso”. Penso ci sia molta verità in quello che dici. Una forma di egoismo che fortunatamente, si esplicita in buone azioni una volta tanto.

  2. Mi piace il tono, è quello delle confessioni strappate e scomode.

Lascia un commento

Devi essere registrato per lasciare un commento.