Premio Racconti nella Rete 2019 “Il frinire dei pensieri” di Silvia Cipolletti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2019Raggi di sole filtravano tra le tende socchiuse e riflettevano su porzioni di mobili, sul divano e sul pavimento di marmo bianco, attraversando la grande porta a vetri che si affacciava sul corridoio, in cima alle scale.
Le sue mani, di dimensioni contenute, misurate nei gesti, tamburellavano rigide ai bordi del tavolo, ai lati dell’i-phone, dove il suo sguardo sostava fisso, pensieroso.
Nel primo pomeriggio, dopo il pasto silenzioso in compagnia della moglie Agata e della figlia Annina, il Professor Augusto Lauricella era salito nello studio richiudendo lentamente la porta alle sue spalle.
Prima di sedersi a lavorare aveva attraversato la stanza, girando intorno alla scrivania e, con la mano destra, aveva sfiorato la libreria a parete dov’erano conservati, sino al soffitto, tutti i testi di medicina ereditati dal padre, anch’egli medico.
Avvicinatosi alla finestra, aveva sbirciato attraverso la tenda di lino bianco e liberato lo sguardo verso l’orizzonto: era pronto. Giratosi, poi, verso la scrivania, aveva scostato sonoramente la sedia e si era seduto per dare inizio alle sue fatiche.
L’orologio sopra la porta a vetri segnava le diciotto e trenta quando il Professor Augusto Lauricella si rese conto dell’inutilità dei suoi sforzi. Non riusciva a concentrarsi e non avrebbe saputo dire da quanto tempo si trovava così, inerme, di fronte all’immagine di quella pubblicità impossessata dei suoi pensieri.
Aveva osservato per tutto il pomeriggio l’app di quel social network, scaricata sullo smartphone alcuni giorni prima, e di tanto in tanto ci aveva cliccato sopra, silenziosamente, quasi a temere che anche il solo pensiero di quell’incosciente tentazione potesse essere udito da qualcuno al di là della porta chiusa.
Seduto alla sua scrivania, circondato da libri ancora da leggere e tesi degli studenti ancora da correggere, sentiva il tarlo di una pulsione incontrollabile trapassargli il cervello, veicolo di controllo e censura, accompagnato dall’eco incessante dei ricordi.
Non era un buon segno che quel pensiero s’ingigantisse senza controllo. Più cercava di non ascoltarlo più sembrava alimentarsi della sua stessa volontà di allontanarlo: produceva più rumore del frinire delle cicale che, al di là della finestra aperta, erano libere di confessare il proprio bisogno d’amore.
Il ricordo di quello spot pubblicitario, che da un paio di sere arrivava puntuale dopo il telegiornale a mescolare ansia al desinare familiare, quel giorno si era insinuato con prepotenza nel lavoro che precedeva le sue “parlate”.
Il Professor Lauricella chiamava così le lezioni all’università e gli interventi ai convegni di medicina dov’era, sovente, invitato a relazionare.
Preparava le sue “parlate” con attenzione certosina, cronometro alla mano. Il suo lavoro non conosceva né domeniche né feste comandate. Ripeteva le sue “parlate” dopo cena e continuava, senza sosta, fino a tarda notte terminando lavori di ricerca o aggiornando il suo curriculum. Altre volte si rovinava il sonno rispondendo ai pazienti che durante il giorno avevano tentato di contattarlo tramite “whatsapp”. “Insolenti! Insolenti, insolenti!”, ripeteva con disappunto nel silenzio del suo studio. Li chiamava “i molestatori” quei pazienti “impazienti” che “si infilerebbero pure nel buco della serratura del cesso!” pur di placare le proprie ansie.
Durante il week end, Augusto era solito trascorrere gran parte del tempo rintanato nel suo studio. Invasioni di campo non erano ammesse senza il permesso del Professore.
Eileen, la cameriera filippina che lavorava da lui da quando, quindici anni prima, era arrivata in Italia, aveva rischiato il licenziamento il giorno in cui, urlando, aveva fatto irruzione nello studio del Professore perché tra le lenzuola di uno dei letti della famiglia aveva rinvenuto un’enorme falena morta: “Bussare! È buona educazione bussare, Eileen! La prossima volta che accade dimmi che è morto qualcuno o te ne vai a pedate nel culo! chiaro?”.
Fece decantare quell’irragionevole pensiero, lasciando che ossigenasse col trascorrere delle ore. Era diventata un’ossessione quella pubblicità che s’insinuava nelle sue giornate recitando così: “love your imperfection, se non ami le tue imperfezioni qualcuno lo farà”.
Dalla finestra aperta, la voce della figlia invase le sue riflessioni.
Riversa sull’erba umida del giardino, Annina ridacchiava al telefono. “È la solita amica”, pensò Augusto che, invece, avrebbe preferito immaginarla parlare con un fidanzato. “Quella ragazza mi preoccupa”, confidava spesso ad Agata. “È troppo stronza per trovare un ragazzo… ma, una stronza, chi se la prende?”.
Provò anche a sbadigliare, credendo di favorire uno stato di relax dove pensieri incauti potessero scivolare via. Fu allora che, girando lo sguardo, tra le tende svolazzanti alle sue spalle intravide le gambe lunghe della figlia sgambettare verso il cielo. “Sembra felice”, pensò, mentre allungando lo sguardo oltre la siepe di fichi d’india vide il mare. Soltanto quella piana azzurra riusciva a rasserenarlo. Sentì immediatamente svanire l’inquietudine e al suo posto insinuarsi una calma insperata: premonitrice, forse, di eventi inaspettati? Cos’era quell’improvvisa quiete? C’era sicuramente una relazione tra lo spettacolo rinfrancante che gli mostrava il finire d’una giornata d’estate ed il pensiero audace che gli generava quella pubblicità. Questo pensava, quando sporgendosi dalla finestra vide Agata con il naso all’insù e gli occhi strizzati dal sole al tramonto, che gli diceva:
“Augusto scendi, ho calato la pasta”.
L’odore del mare aveva la capacità di rassicurarlo come il profumo di una bella donna. In quel momento pensò che nulla di male gli sarebbe potuto accadere con il mare negli occhi o il naso tra le pieghe del collo di una donna. Fu allora, che fissando lo sguardo all’orizzonte, respirò, a pieni polmoni, il profumo di quella distesa azzurra, come fosse la prima volta, con stupore. Poi, si voltò per rientrare e, sottovoce, le rispose:
“Ma sì… sto scendendo”.
Il mattino seguente, l’umidità che gli piccava sulle braccia scoperte lo svegliò di buon’ora. Lasciava sempre uno spiraglio di finestra aperta durante la notte. “Per respirare meglio”, diceva.
Con un balzo si precipitò a richiuderla, girò la maniglia ed in fretta si rinfilò nel letto. Lì, immobile, con le braccia coperte ed il lenzuolo sino al mento, il Professor Augusto Lauricella tentò di rimettere ordine allo scorrere caotico dei suoi pensieri. Il chiarore che filtrava attraverso le persiane sembrava favorire un momento di raccoglimento.
“Love your imperfection…”. Era sempre lì quella stramba idea di iscriversi ad un sito d’incontri per cuori solitari, ma al mattino sembrava avere un senso. Un fremito d’entusiasmo lo colse sotto le lenzuola pensando alla consolazione delle sue pene sentimentali, ma anche alla soddisfazione della sua indomita libido: la carica erotica ed il bisogno d’amore erano diventati un groviglio informe di emozioni ingovernabili.
Il suo aspetto morigerato, il capo canuto e gli occhiali per la miopia, celavano una fragilità invisibile ad anima viva. Una natura corruttibile che si rivelava soltanto durante la navigazione in mare. Quando il turbinio di emozioni diventava indomabile, il Professor Lauricella desiderava solo governare la sua barca a vela, cazzare le cime con gesti impetuosi e scivolare lontano. Solo distante dalla terra ferma tutto si acquietava. E mentre le vele si riconciliavano con il vento, il suo cuore, carezzato dal rumore del mare, si riallineava ai desideri.
Ecco, solo lì, solo in quei momenti la smania di vivere poteva viaggiare a briglie sciolte, per poi abbandonarsi all’immaginazione di corpi intrecciati e bocche assetate di baci.
Quel mattino tutto ciò accadde nel talamo nuziale, con Agata che dormiva sonoramente al suo fianco.
Desiderava una donna, morbida e profumata. La desiderava così tanto che iniziò ad immaginare un addome liscio, una pelle giovane e calda sopra la sua, sino a quando i sogni si mescolarono ai ricordi.
In quel momento il pensiero di Annina s’insinuò in quella breve fantasia e la vergogna, che avrebbe provato ad essere scoperto proprio da sua figlia, fece immediatamente crollare l’impalcatura di “quell’assurda idea” di iscriversi ad un sito di incontri e si convinse a desistere, mortificandosi per lo stato di eccitazione in cui si trovava: “mii…che razza d’idea!”, pensò.
Ad occhi chiusi, fermo nel letto, aveva ricordato una stanza in penombra. Il rumore di una barella passare sul corridoio e il vociare degli infermieri fuori la porta chiusa. Aveva rivisto una vetrina d’acciaio colma di medicinali e una lettiga che non stava ferma. Aveva sentito, come allora, il desiderio smodato di nutrirsi di quella pelle umida e nuda. E poi, l’emozione che celavano gli occhi scuri della giovane donna, quando si scioglievano di passione davanti ai suoi, e la felicità di un sogno condiviso. Ma anche la paura di essere scoperto e lo stato d’ansia che provava, ogni volta, al ritorno a casa, quando ad accoglierlo sull’uscio c’erano gli occhi di Agata che scrutavano nelle viscere dei suoi sensi di colpa.
Gli anni degli imbrogli e delle telefonate sottovoce, durante i quali aveva desiderato cambiare vita per la dottoranda dalla pelle diafana e soffice. Sino a quel pomeriggio, prima di cena, quando dovette scontrarsi con il muro del silenzio di Agata, divenuto insostenibile.
“È sgradevole il rumore delle chiavi che girano nella serratura”, aveva pensato, Augusto, quella sera rientrando a casa. Poi, le aveva lasciate cadere nello svuota tasche di ceramica, sulla credenza di legno massello, alla sua destra, subito dopo l’ingresso: era il segnale, “sono tornato”.
La tv, accesa sul primo canale, trasmetteva il telegiornale nazionale, appena iniziato.
“Agata? Dov’è Annina?” Le aveva chiesto lui.
“A cena da un’amica” Aveva risposto Lei.
Il profumo degli involtini di carne al forno si era diffuso sino fuori la porta: la cucina di Agata era il richiamo familiare che ogni sera sapeva ricondurlo a casa.
La tavola era apparecchiata: due piatti, due forchette, due coltelli. Due bicchieri.
“Agata? Quella bottiglia di vino bianco che mi ha regalato Gaetano? Mi pare ci sia ancora, vero?” Le aveva domandato.
“Vedi, Agata, che a tavola non c’è acqua”.
E mentre frugava alle sue spalle tra due cuscini del divano dov’era seduto, disse:
“il telecomando, Agata! Non c’è…”
Nel tentativo di scuotere quel muro del silenzio aveva l’abitudine di parlarle della prima cosa gli venisse in mente, reclamandone l’attenzione: “Ricordi, Agata, quel paziente di cui ti ho parlato lunedì? Te ne ricordi, sì o no? Quello che non sta mai zitto. Capito di chi parlo? Mi ascolti o fai finta? Dai, allora, dimmi: chi è? Sei muta Agata?”
Quella sera, invece, il suo interesse sembrava rivolto alle pieghe sulle pantofole di pelle marrone, regalo di Annina del Natale appena trascorso, dalle quali non riusciva a distogliere lo sguardo.
Seduto sul divano, con i gomiti poggiati sulle ginocchia e la fronte sorretta dalle mani, aveva osservato, per un tempo indefinito, i riccioli di lana color panna che spuntavano dalle pantofole e gli avvolgevano il piede, nudo e magro: “sono calde”, aveva pensato, mentre gocce di sudore gli imperlavano la fronte.
Poi, risollevato il busto, aveva palpato velocemente i cuscini al suo fianco e aveva detto:
“Agata vieni qui… ti devo parlare.”
“Ho cose da fare Augusto, non ho tempo da perdere, io.” Aveva risposto lei.
“Ti prego, Agata! vieni qui, siedi qui, vicino a me. Devo parlarti, Agata…”
Torcendo un tovagliolo tra le mani, Agata aveva trascinato le sue pantofole sino in soggiorno. Poi, in piedi davanti alla tv, mentre simulava interesse per una notizia di calcio al telegiornale, aveva detto:
“So già cos’hai da dirmi Augusto e non mi interessa…”
“Siedi” aveva ripetuto lui, mentre con il dorso della mano sinistra tamponava la fronte, oramai madida di sudore.
“Devo farlo, Agata, ora!
“Per l’amor del Cielo, Augusto smettila! Gli involtini bruciano! Vuoi mangiarli carbonizzati? Non ho intenzione di cucinare altro, tantomeno di ascoltarti, chiaro? Quindi, fammi un favore: chiudi quella bocca!”
“Io, stavolta, me ne vado Agata! Lo vuoi capire, sì o no? Fai almeno un cenno col capo!” Le aveva detto lui, serrando la testa tra le mani.
Dalla cucina, il suono del timer aveva accompagnato una silenziosa smorfia di disgusto sul volto di Agata che, arricciate le sopracciglia, si era girata per andarsene.
La cena era pronta.
Augusto, ancora seduto sul divano, con la schiena ricurva e le mani abbandonate sui cuscini al suo fianco, l’aveva guardata tornare in cucina. Poi aveva ripreso il telecomando e cambiato canale.
“C’è Montalbano, stasera”, aveva detto lui, mentre Agata ritornava dalla cucina con la pirofila colma di fumanti involtini di carne.
Quella sera, come ogni sera, avevano cenato alla stessa tavola.
In silenzio. Come sempre.
“Gracchia… La sveglia. Augusto, gracchia…” disse Agata, con la voce soffocata sul cuscino.
Augusto si voltò e la vide. Era coricata al suo fianco. Restò a guardarla per una manciata di secondi, poi rivolse gli occhi al soffitto e sospirò.
Il calore umido del respiro di Agata era rassicurante, proprio come quello degli involtini di carne. Fu in quel momento che frugando nelle sue memorie la rivide arrivare da lontano, con fare buffo, pensierosa e in disordine.
I suoi occhi scuri sbirciavano incerti tra ciocche di capelli ciondolanti sul viso, mentre frettolosa saliva i gradini dell’ingresso all’università. I suoi seni, quasi inesistenti, erano occultati da una larga t-shirt rinsaccata nei jeans: un’istantanea color seppia, con i bordi consumati dal tempo e dal rancore, si mostrava ora nitida davanti ai suoi occhi. Fu allora che tentò di portare avanti quel ricordo, cercando di rammentare i giorni che seguirono, ma la sveglia suonò di nuovo:
“Augusto…’sta sveglia…miii!”.
Augusto, raccolta la giusta dose di energia, sollevò le lenzuola e balzò fuori dal letto.
Era lunedì:
“Eileen? Il caffè! Si comincia”.
Bellissimo titolo! la storia è accattivante ma per come era partita avevo immaginato una situazione più drammatica. Meglio così.
Grazie Monica
Anche a me piace molto il titolo, onomatopeico ed azzeccato. Il frinire che rimane in sottofondo, che tormenta, che si insinua. Pensieri che portano l’onta a questo personaggio ligio, apparentemente integerrimo. Hai descritto molto bene il professore, ne sento l’accento, l’inflessione, ne vedo i tratti, ma vedo anche le sue insicurezze, quasi stillare dal sudore della fronte, insieme all’imbarazzo, non tanto di tradire col pensiero la povera Agata, ma forse anche di tradire l’immagine che vuole dare di sé. Ho sorriso giunta alla citazione di Montalbano, perché ricostruendo nella mente lo scenario, stavo richiamando proprio quel tipo di ambientazioni! Mi è piaciuto, brava Silvia.
Grazie tantissime Silvia