Premio Racconti nella Rete 2010 “Limbo” di Carmina Trillino
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010
Le mie mani sono tra i tuoi capelli. Accarezzo con i polpastrelli la tua fronte, ho la scusa di raccogliere il sapone. Lo scroscio dell’acqua copre gli altri rumori. Tu resti ad occhi chiusi anche quando ti massaggio le tempie. Poi con attenzione ti avvolgo nell’asciugamani la testa. E’ bella la tua testa. E’ una testa che fa perdere la testa. Anche per una persona semplice ed ignorante come me. Mi metti soggezione ogni volta che entri nel salone. Mi metti anche agitazione. Quando mi saluti, accennando un sorriso di circostanza, il mio viso avvampa. La colpa è del caldo sprigionato dalle luci e dai phon.
Mi metti addosso anche la voglia di vivere. Di tornare a sognare.
Ma poi la sera, a casa, tra la lavatrice, i conti e Giulia che non vuole dormire , dimentico il tuo profumo. E non sogno più, ma faccio un cerchio su un giorno del calendario, tra l’appuntamento dal dentista per Giulia e la bolletta di qualcosa da pagare. Ti rivedrò tra un mese.
La stanchezza mi impedisce di rivolgerti ancora un pensiero. I dieci euro che ho nel portafogli mi ricordano che è appena martedì . La prossima paga sarà sabato e devo comprare ancora il libro di inglese per Giulia. Lo sforzo per sopravvivere oscura anche te che mi sembri un raggio di luce.
Ho trenta anni. E la terza media. L’ultimo libro l’ho letto 15 anni fa. Al cinema l’ultima volta saranno almeno cinque anni passati. Non ricordo nemmeno il film. Di sicuro un cartone animato accompagnandoci Giulia. Sono pesante, supero i novanta chili. Per questo mi vesto di nero. Mi faccio le meches con colori strani e a volte accecanti. Persino di viola, una volta. Il colore sbatteva sul mio viso pallido e paffuto.
Quando mi vedesti, abbozzasti un sorriso e mi accorsi che avevi i denti bianchissimi:
” Mi sembri un puffo!” mi dicesti. Io diventai, invece, simile ad un pomodoro maturo. E mi vergognai anche dei miei denti gialli e del dente spezzato e nero che mi manca e che si vede se sorrido. Ma tanto non sorrido mai e per fortuna nessuno se ne accorge.
Sei una persona misurata. Quando vieni al salone saluti tutti allo stesso modo. Non dai confidenza agli altri presenti e non leggi le riviste. Hai sempre un libro con te. E quando giri le pagine lo fai con delicatezza. Vorrei essere una pagina di quel libro.
Non ho conosciuto l’amore. Il segreto che custodisco dentro di me sin dalla nascita e la paura di dirlo anche a mia madre, hanno frenato la mia vita.
Papà era un uomo duro, faceva il muratore e addosso aveva sempre un odore tra la calce e il sudore.
Mamma sempre attenta a difendere una dignità che ormai esisteva solo nella sua testa.
Andavo a scuola perché dovevo e non ero nemmeno un gran che. Sarà perché poi a casa avevo poco tempo per i compiti, perché c’erano i piatti da lavare subito dopo mangiato e gli altri fratelli più piccoli di me che urlavano, piangevano e non stavano mai fermi.
Sarà anche perché c’era solo una stanza dove si mangiava, si dormiva, si viveva.
Ho sempre vissuto in un limbo. Questa parola la sentii che avevo 8 anni e la cercai sul vocabolario che la scuola metteva a disposizione in ogni aula. Limbo: indica uno stato o una condizione non ben definita, di incertezza
Così ho sempre vissuto. E così continuo a vivere. Non mi faccio mai domande e non chiedo mai perché. Faccio tutto ciò che bisogna fare, che si deve fare.
Guardo mia figlia Giulia. Nonostante i genitori che l’hanno concepita, è carina. Ed ha un bel sorriso.
L’hai vista anche tu. Giulia passò a salutarmi un giorno che anche tu eri al salone. Io mi misi ancora di più in agitazione perché parlasti abbastanza con lei. E Giulia si accorse istintivamente di quanto tu sia una persona affascinante. Restò ad ascoltarti per quasi mezz’ora, lei che è una iperattiva e dà ascolto solo al suo istinto.
Quando finii le medie, a casa mia non si pose proprio il problema su che cosa dovessi fare: lavorare, non c’erano abbastanza soldi e poi avevo raggiunto sempre e solo la sufficienza.
Inutile, quindi, aggiungere altri sacrifici per mio padre e mia madre.
Nessuno si occupava di me, di cosa avessi nel cuore, che cosa nascondessi anche a me, alla mia anima . Scacciavo via questo pensiero anche perché non aveva un nome, non sapevo nemmeno come spiegarla quella paura che cresceva dentro di me. Che cresceva con me.
Così, finita la scuola, iniziai a raccogliere nella paletta i capelli tagliati, a sistemare i flaconi di sapone, tinte, pomate e gel nello sgabuzzino, a pulire il bagno e il salone due volte al giorno, a preparare i caffè e sistemare i giornali, svuotare i posacenere dai quali rubavo le sigarette fumate dai clienti a metà.
Ora che nei locali non si fuma più, ho smesso anche io di fumare. Un pacchetto di sigarette costa oltre i 5 euro. Sono troppi 5 euro per me.
Mi vergogno quando i clienti lasciano le mance. Mettono a stento un euro nel vaso colorato accanto alla cassa e sembra che te ne stiano regalando dieci di euro.
Tu non dai mai la mancia. Ma a fine anno lasci una busta bianca. Dentro ci sono sempre 100 euro per noi e un bigliettino d’auguri. I cento euro vengono subito divisi e il bigliettino gettato nel cestino. Quando lo svuoto, di nascosto e con il cuore in gola, lo faccio sparire nella mia tasca.
Si diventa grandi subito in certi ambienti. Come nel mio. Andavo a lavorare tutto il giorno per sei giorni, i soldi li davo a mia madre che si preoccupava di comprarmi qualche vestito di tanto in tanto.
La domenica la accompagnavo a messa insieme ai miei fratelli, io me ne restavo sempre in fondo alla Chiesa perché quel Dio non è che lo capissi tanto. Mi dissero che non dovevo capirlo, ma semplicemente temerlo e pregarlo. Ma ciò che desideravo io non mi permetteva nemmeno di pregarlo, perché era peccato. Qualcuno mi aveva, infatti, spiegato che ciò che nascondevo dentro di me era un peccato terribile agli occhi di Dio. Finalmente, il mio segreto, anche se era un peccato orribile, aveva un nome.
La paura crebbe ancor di più e temevo che qualcuno si accorgesse di come fossi, quali fossero i miei desideri nel buio della notte e nel letto dalle lenzuola ruvide e strappate a tratti.
Questo mese non ho toccato i tuoi capelli. Ho aspettato che la porta si aprisse e sentissi il tuo buongiorno o buonasera educato e non irritante. Temo che ti sia successo qualcosa. Non è che stai male? Il rossore del mio viso aumenta ancora di più quando ti penso mentre tocco altri capelli che non sono i tuoi.
La padrona mi chiede che ho. Niente, forse un po’ di febbre rispondo. Ma so già che sta facendo qualche commento truce sul mio peso. Me ne accorgo dalla piega che fa la sua bocca, è un sorriso sprezzante.
E ho paura. Paura di perdere il lavoro, paura come quando mi sposai giovane, troppo giovane, ma almeno così sposandomi, nessuno avrebbe scoperto il mio segreto.
Non c’era amore nel mio matrimonio. Non c’è nemmeno adesso. Non c’è amore nella mia vita. Perché per me amore è peccato.
Non dovevo e non devo pensare al mio peccato. Avrebbe dato troppo dolore alla mia famiglia. Darebbe ora troppo dolore alla famiglia che ho formato. Meglio che soffra solo una persona. Che soffra solo io.
Il lavandino gocciola. E la lavatrice si è rotta. Poco male, è inverno, ci si cambia di meno e i panni li laverò di nascosto nella lavatrice del salone. Metterò la scusa di pulire gli specchi e andrò un’ora prima dell’apertura e farò lì il bucato.
La stanchezza non è solo più fisica. E’ di vivere. Soprattutto perché questo mese non ho ancora toccato i tuoi capelli.
Nessuno si accorge che sto male. Nessuno si accorge del mio dolore. E’ un male che non riesco più a sopportare. E’ un male che mi impedisce di portare avanti questa finzione. Ho quasi trenta anni ma è come se ne avessi ottanta.
Non ce la faccio più. Il corpo è obeso. La mia anima ancor di più. Ho voglia di amare. Ho voglia di amore. Di sentire mio il corpo con cui faccio l’amore. Di sentire che il respiro si fa grosso perché non lo controlli. Di girare la testa di lato per far uscire un sorriso e non per asciugare una lacrima.
Far l’amore per me è una condanna. E’ il pretesto per fingere . Anche Giulia è stato un pretesto. La prova da sbandierare per nascondere, affossare nel posto più buio dentro di me, ciò che sento, ciò che provo, ciò che sono.
A volte nel buio della notte guardo mia figlia. E mi domando cosa pensa, cosa sogna, se è felice, se è come tutte le altre ragazzine. E ritorno a pregare Dio che lei non sia come me. Lo prego perché almeno a lei venga risparmiata questa sofferenza, questo vivere costantemente nell’ombra. Fino a dimenticare di esistere per davvero.
Non ho amici. Nessuno con cui fare una passeggiata o una semplice telefonata. Un lamento, una parolaccia. Niente. La paura di farmi scoprire e di non aver comprensione ma solo compassione, è stata un motivo in più per non aver contatti con altre persone.
A volte sembro mia madre. Difendere una dignità che non esiste più. Che non ho mai avuto.
Quando Giulia sarà un po’ più grande, se trovo il coraggio la faccio finita. Ma devo trovare il modo. Dovrà sembrare una disgrazia. Dovrò fingere. Anche di fronte alla morte. Ancora una volta. Ma sarà l’ultima.
In frigo c’è solo latte a lunga conservazione, così non scade e non si butta. Nella dispensa, qualche pacco di pasta e i biscotti buoni per Giulia, per noi grandi quelli comprati al discount. Sono due giorni che dimentico di fare la spesa. In verità ho saputo che domani metteranno delle offerte su tanti prodotti al supermercato e questo mese c’è anche l’abbonamento della piscina per Giulia da rinnovare.
Vorrei partecipare ad uno di quei giochi in televisione, dove male che va ti danno un po’ di soldi. Mi servirebbero a farci respirare un po’. Anche il mio segreto sarebbe meno pesante.
Con i soldi è tutto più facile. Si ha più coraggio. Anche delle proprie debolezze.
Sul lavoro la distrazione mi divora.
Oggi stavo sbagliando una tinta. Al posto di un biondo cenere che mi era stato chiesto, stavo facendo un nero corvino. Il padrone se ne è accorto in tempo. Con una scusa ha proseguito lui e intanto mi lanciava occhiate infuocate.
Ho preso in fretta l’uscita . Non volevo che nessuno mi vedesse piangere. Sfortunatamente proprio tu hai visto le mie lacrime.
“ Tutto bene? Posso fare qualcosa per lei? – Mi chiedi e la tua voce scioglie il mio dolore.
“No. Grazie. Tutto bene. E’ l’acido di una tinta. A volte mi fa piangere. Entriamo, che le faccio subito lo shampoo”. E il mio cuore inizia a battere all’impazzata.
Mi tremano le mani. Te ne accorgi quando ti bagno involontariamente il viso. Ma non dici nulla. Non ti muovi nemmeno. Abbozzi solo un sorriso, continuando a tenere gli occhi chiusi. E vorrei baciarti. Sentire che sapore hanno le tue labbra. Affondare il viso nel tuo collo. Sentire ancor più da vicino il tuo profumo che di solito sfiora appena le mie narici. Sento arrivare una sensazione strana nel ventre. Una sensazione che scende più giù, tra le gambe. E stavolta il viso è più rosso di un pomodoro marcio sotto il sole d’agosto.
Per fortuna non te ne accorgi. Chissà cosa hai fatto in questi due mesi. Cerco di scrutare il tuo corpo. Ma tutto è simile a due mesi fa. Indago il tuo volto. Nessuna nuova ruga, quindi nessuna preoccupazione per te. Meno male, mi rasserena questa scoperta. Temevo che potesse esserti successo qualcosa di brutto. Solo i capelli sono un po’ più lunghi. Segno che non li hai tagliati da nessuna altra parte. Questo pensiero mi tranquillizza. Non c’è stato alcun tradimento, allora. Avrai avuto solo da fare. Ma che sto facendo? Sto impazzendo? Che diritto ho di pensare queste cose su di te? Non so nemmeno il tuo nome, il tuo stato civile, che lavoro fai. Se hai figli. Non so niente di te. So solo che mi stai facendo perdere la testa. Come non mi era successo mai in trenta anni.
In cucina siamo Giulia ed io stasera. Per lei c’è pronta la carne e l’insalata, le mele rosse, io mangerò pane e salame. Così farò prima a mettere a posto e me ne andrò a letto. A ripensare a quello che mi è successo con te . A sperare che il sonno vinca i miei pensieri. Le mie speranze.
“ Mercoledì uno di voi deve accompagnarmi a scuola. “ . La voce di Giulia sembra uscire dal televisore acceso.
“Perché? “ chiedo stancamente.
“Perché vi siete ancora una volta dimenticati di venire ai colloqui ieri . “ aggiunge mia figlia
Corro verso il calendario: ci sono due cerchi sopra il 18. Ma io ho visto solo quello che ricorda il tuo taglio di capelli.
Ho rimorsi e sensi di colpa.
“ Ti accompagno io. Mi scuserò con i professori. Non preoccuparti piccola”. E mi mordo le labbra per aver detto piccola a mia figlia.
“Piccola? Ho dodici anni. Ve ne siete accorti tutti e due?”. E Giulia si alza e se ne va in camera.
Lo so che hai dodici anni. Che ancora non sei una donna. Ma che anche tu per colpa nostra forse stai crescendo in fretta. Sento la tua voglia di indipendenza. Sento la tua vergogna quando ci guardi, i corpi deformati, dal cibo, per me, dall’alcool, per l’altro genitore.
E mi vergogno ancor di più. Perché è vero che i figli si fanno per puro egoismo. E per paura. Per paura di essere diversi dalla maggior parte che i figli li fa perché ci si sposa.
Ti avrei voluta fare per amore. Ma io l’amore l’ho scoperto da poco. Lavando i capelli ad una persona di cui non so nemmeno il nome. Ma a cui aprirei la mia vita, se solo fosse un po’ meno brutta e squallida.
Ho perso anche l’autobus. In verità è stato impossibile salirci. Era pienissimo ed io con la mia mole non c’entravo. Devo chiamare il salone e avvertire del ritardo. E mi ricordo che non ho credito. E che nel portafogli ci sono solo ventidue euro. Venti devo darli a Giulia stasera . Me ne restano due, pochi anche per il taglio minimo della ricarica.
Vorrei mettermi a piangere di fronte a questa vita miserabile che faccio da trenta anni. E se tutto va bene, devo farla ancora per almeno dieci, dodici anni. Il tempo che Giulia si faccia grande lei. E la faccia finita io.
Il prossimo autobus è tra trenta minuti. Più altri trenta per arrivare al salone. Se non c’è traffico. Un’ora di ritardo. Otto euro in meno in busta paga. Meno altri sedici per le due ore chieste per accompagnare Giulia a scuola. Fa ventiquattro in meno. E poi questo mese c’è un giorno di lavoro in meno. Altri sessanta circa in meno. Fanno in tutto ottantaquattro euro.
Il pullman è arrivato nel bel mezzo dei miei conti. Mi faccio avanti, sgomitando e con un po’ di prepotenza .Per una volta non mi vergogno della puzza del mio sudore. Anzi, la ringrazio in silenzio perché qualcuno si allontana . Stavolta devo salire prima degli altri. Altrimenti saranno novanta euro. Novanta . Come la paura. Che non mi abbandona mai. Come il dolore, ormai sordo, ma non ancora vinto.
Al lavoro mi aspetta un mucchio di asciugamani da piegare. Devo anche fare attenzione a controllare che non siano bucati o sfilacciati. Mi guardo le mani per accertarmi che siano pulite.
Vorrei gettarmi sulla pila e immaginare che sia sabbia calda e che sopra di me ci sia tu. E che il mio corpo sia diverso. Che non ci sia più grasso che mi piega la pancia in due, che le mie gambe siano meno gonfie e che il sudore non sia acido ma sappia di acqua di mare.
Il mio cuore batte forte. Vorrei stringere la tua testa contro il petto, baciare i tuoi capelli. Far scivolare le mie mani sulla tua pelle che immagino vellutata e compatta. Soffocare un grido e piangere di gioia. Finalmente di gioia.
Giulia mi dà la scheda da firmare. Lei è brava a scuola. E ciò mi fa sperare che lei avrà sicuramente una vita diversa da quella dei suoi genitori. Una vita dove saprà e potrà apprezzare il sole, il mare e una bella canzone. Dove non ci sarà posto per la paura e la vergogna. Una vita di amici . Una vita d’amore.
Le dico brava e le accarezzo i capelli. Lei mi sorride e se ne va. Vorrei andar via anche io. Venirti a cercare, chiederti se ti va un caffè. Passeggiare per la città e chiacchierare. Perdersi negli sguardi e nelle parole. Sorridere alle mie stupidaggini. Ascoltare le tue certezze. Non so perché, ma ti avverto come una persona concreta, solida. Ma che sa sorridere.
Una porta che sbatte interrompe la mia favola. E’ arrivata la persona con cui da quindici anni divido una vita fatta solo di bollette, conti e obblighi. Senza amore, senza passione, senza sorrisi, senza sogni. Solo per colpa mia.
Sì per colpa mia. Perché la mia freddezza ha spento i suoi slanci. La mia paura soffocato la sua passione. Far l’amore per dovere coniugale. Sperare che tutto finisca presto. Fare subito un figlio e avere la scusa di non far sesso per oltre un anno. Inventarsi una malattia immaginaria per impedire rapporti sessuali.
Ricorrere ad una ricaduta per continuare l’agonia di un rapporto .
E i soldi che non bastano mai e le preoccupazioni reali, la stanchezza reciproca tutte buone e infinite scuse per rimandare un altro figlio.
Disprezzare non solo il mio di corpo, ma anche il suo. Vederlo solo come un peso sopra o sotto di me. Aver schifo del suo alito di vino a buon mercato e orrore del mio di fumo, di cibo mal masticato.
Fingere, fingere, fingere per paura di essere scoperti. Paura della sua reazione. Paura che se ne vada. Perché in una vita del genere anche dell’inutile c’è bisogno.
“ Come vanno i suoi occhi? Le danno ancora problemi gli acidi delle tinture? “ E’ la tua voce, inaspettata, mi perdo, ci metto un po’ a rispondere.
“ Buonasera. Mi scusi ero sovra pensiero. No, nessun problema più, non mi succede sempre. Ogni tanto. L’abitudine è più forte, per fortuna. “ le mie parole che escono chissà come e da dove.
“Usi comunque il collirio, l’aiuterebbe un po’ “ mi dici.
Quando allunghi la mano e mi dici – buonasera. A presto – vorrei che quel presto fosse subito, fosse ora. Vorrei stringerti piano la mano, portarla alla labbra e baciarla, dito per dito, cm per cm, sul dorso, nel palmo.
Vorrei portala tra le mie gambe, per provare ciò che per me è ancora sconosciuto, ma solo immaginato e desiderato da quanto ti conosco.
Ho quasi una vertigine a questo pensiero ma avverto anche pienamente quanto sia sola la mia anima, quanto inutile il mio corpo.
Resto, così. Sul marciapiede, guardando la direzione verso la quale ti allontani e facendo finta di parlare al telefono.
Chissà se abiti qui o se eri solo di passaggio. Chissà che fai stasera, cosa hai fatto oggi, dove compri i vestiti, dove vai in palestra, cosa leggi, cosa pensi.
A chi pensi quando a volte, spiandoti, il tuo sguardo resta fisso troppo tempo su una pagina del libro che leggi mentre al salone aspetti il tuo turno.
Sullo stipite della cucina c’è un biglietto che mi avverte che stasera a cena non ci sarà nessuno. Meglio così. Mi preparo pane e mortadella e lo mangio in piedi svuotando la lavatrice. Ancora tu che irrompi nei miei pensieri. Provo a ricordare quando mi hai fatto capire che anche una persona come me poteva innamorarsi. E’ stata la prima tua visita al salone. Mi hai dato del lei. Nessuno l’aveva fatto prima di te. Mi hai fatto sentire importante. E hai continuato a darmi del lei. Sei stata anche l’unica persona di quelle che vengono al salone che non si dimentica di dirmi grazie. E continui a dirmelo. Chissà se me lo diresti ancora se sapessi cosa provo e immagino di fare con te.
Fantastico di dar fondo al mio coraggio e dirti che vorrei fare l’amore con te, vivere con te, che mi piaci e che mi piace tutto di te.
Che quando tocco la tua testa, un brivido di piacere percorre la mia schiena, rende leggere le mie braccia e risveglia il mio sesso.
Che ucciderei chi in questo momento sta suonando con insistenza alla porta, interrompendo ancora una volta i miei sogni ad occhi aperti.
Qualche sera dopo, rifaccio lo stesso percorso alla stessa ora, con la speranza di rincontrarti. Sarebbe bello. Mancano troppi giorno al diciotto del mese. Non ce la faccio ad aspettarti così tanto. Chissà quale dio mi ascolta. I nostri corpi si urtano all’improvviso. Tu mi chiedi scusa e sorridi. Io sono tra cielo e terra, nonostante il peso.
Quando mi chiedi: “Abita qui anche lei? “ io rispondo “Magari, così ti incontrerei ogni giorno e non una volta al mese quando vieni al salone. Mi scusi, le ho dato del tu.” E scoppio a piangere. Ed ho paura. Vorrei scappare, provo a farlo ma mi tiri per la giacca evitandomi di finire sotto una moto.
“Ho perso la testa per lei. Non ce la faccio più a tenermi dentro tutto. Sono trenta anni che fingo. Prima con i miei. Poi a scuola. Poi al lavoro, mi sposo per fingere meglio. Fingo con tutti. E’ uno strazio mi creda. La prego, non lo dica a nessuno che sono una….” E la parola si ferma in gola, mi strozza, mi mozza il respiro.
Non riesco ad ammetterlo, ho vergogna.
Tu resti in silenzio, mi dai un fazzoletto. Mi guardi e sorridi.
Incalzo. Insisto. “Mi giura che non lo dice a nessuno al lavoro che sono una…” e ancora non ce la faccio.
“… che sei una persona. Ma questo lo sapevo già. E sei anche bella dentro come persona, per il rispetto e il pudore che hai dei tuoi sentimenti. Non importa se ami un uomo o una donna. Basta scoprire che si può amare. Non è tardi. Non è mai tardi. “.
E nessuna parola, ora, mi mette più paura.
bello. fa riflettere su come le persone possano vivere in maniera diversa l’omosessualità. pensavo al confronto con altre donne, magari cresciute in contesti diversi, o semplicemente con un altro carattere, che si sentono tranquille così come sono.
(traduzione del mio commento precedente, che probabilmente non era chiarissimo 🙂 : leggendo il racconto ho pensato come persone differenti vivano la propria omosessualità in maniera del tutto diversa fra di loro. chi la nasconde, come la protagonista, chi la vive in maniera del tutto naturale, etc etc)
Questa narrazione, sembra seguire il ritmo asmatico della difficoltà d’esistere, giorno per giorno.
Nella mancanza di spazi e di aria il soffocamento totale di se stessi. Un limbo privo di ossigeno vitale.
L’ho sentita è compresa “ appieno “.
Grazie per la lettura, e dell’esperienza, che ci hai offerto.
Ho letto trattenendo il respiro.
Grazie per l’emozione
Non si può non amare un personaggio come questo…
Complimenti vivissimi.
Un personaggio che si vorrebbe conoscere sempre di più, che non stanca. Sentirlo parlare è come liberarti di tutto ciò che è superfluo, ridondante, inutile, per scoprire che forse la felicità sta soprattutto nell’accarezzare la testa di chi hai sempre sognato ” LA TESTA DI CHI TI HA FATTO PERDERE LA TESTA”! GRAZIE BELLISSIMA STORIA!
DANIELA COIALBU
Ciao Macondo!Finalmente riesco a dedicarmi alla lettura dei racconti che non avevo ancora letto, fra cui il tuo bel racconto. E’ una storia triste che ti rende subito partecipe dell’angoscia della protagonista, scorre bene e la scena delle mani sulla testa è un’immagine forte che resta dentro.Non bisognerebbe avere mai paura nella vita di manifestare un sentimento, nessun rimpianto sarebbe più grande di dire a se stessi”non ho avuto il coraggio di vivere ed amare!”.Brava a presto vederci a Lucca!.