Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2019 “La montagna nuda” di Mauro Cotone

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2019

Non è possibile che la natura abbia creato una mostruosità del genere, mi dicevo osservando la parete verticale che schizzava su verso le nuvole.

         Ricordo ora a malapena, qui nel letto d’ospedale, i contorni sfumati di quella roccia surreale, come una di rampa di lancio verso le nuvole. Più di quattro chilometri, che per la teoria della relatività si possono percepire in maniera diversa, in orizzontale: in auto sull’autostrada o in pochi minuti di bicicletta. Ma in linea verticale, la pietra ti presenta un lastrone che sembra artificiale, tanto è lugubre nella sua imponenza.

         La telefonata mi era arrivata di notte. Quell’improvviso suono lacerante si era aggrovigliato con un sogno che stavo facendo, proiettandomi in un attimo dal torpore più profondo in quel corridoio di passaggio, e poi fino al mondo aristotelico. Mi sono guardato intorno, e ho capito che non si trattava della sveglia, ma del telefono.

         Ricordo come mia moglie mi si è avvicinata impaurita (È Luca, vero? È lui che ci dà notizie? Oppure…?), tendendo le orecchie per capire quello che io stesso, con la cornetta schiacciata sulla tempia, non riuscivo bene a percepire.

         «Sì» le ho detto poi «Era dal consolato pakistano. Hanno perso i contatti con Luca e la sua spedizione»

         In quei casi il silenzio, quando si sa che non c’è altro da dire, diventa glaciale: rispetto al mondo che sta in cima a quelle montagne, qui mancavano il rombo del vento e il fruscio delle nuvole.

         Quando mi ha visto alzarmi, mia moglie ha capito che, se Luca era salito fin lassù e si trovava in difficoltà, era il momento di seguire i suoi passi.

         In realtà, già al consolato mi hanno fatto capire che le speranze erano minime. Dopo la perdita dei contatti, erano passati gli altri tre giorni necessari per organizzare il viaggio. Il console, attraverso la vetrata, mi mostrava i massicci ghiacciati in lontananza, pronunciando parole di speranza e di rassegnazione: non mi voleva dire chiaramente che ogni tentativo sarebbe stato inutile, però non se la sentiva di impedire a un famoso scalatore di andare a cercare il figlio.

         «Ho trovato un alpinista russo che stava qui, in attesa di unirsi a una spedizione…» mi diceva, mentre i miei occhi vagavano sui costoni lontani «Se vuole, può portarlo con sé. È molto esperto…»

         «Come si chiama?»

         «Andrej Goshunov»

         «Lo conosco. Va bene» In realtà lo conoscevo appena di nome, ma in quel momento chiunque sarebbe andato bene.

         Già dalla mia partenza dall’Italia il consolato aveva avviato i preparativi, e così la mattina dopo, alle sette, incontrai Andrej, all’eliporto.

         Ricordo che scambiai una stretta di mano e qualche parola di ringraziamento con quell’omone barbuto e poi, poco dopo, salivamo verso Campo Uno nell’aria sempre più rarefatta. Più in su il volo sarebbe diventato rischioso, tra l’aria sottile e il pericolo di raffiche improvvise. Sapevamo che ci saremmo dovuti arrampicare dal campo posto a più di 4.500 metri. L’elicottero ondeggiava e scalciava come un puledro, ma alla fine si posò sulla neve: quella che dall’alto sembrava panna si è rivelata un pavimento sodo, sul quale siamo scesi in fretta con i nostri sacchi, tra la neve che ci turbinava fredda intorno, lo sguardo già perso sui fianchi della montagna.

         Ed eccomi lì, tra le lacrime che mi ingioiellavano le guance, e il pesante respiro di Andrej che, in piedi al mio fianco, faceva le sue valutazioni in silenzio, per arrivare al Campo Due, quello da cui Luca era partito con la sua spedizione. Sentivamo che dovevamo approfittare di quelle giornate calme, con il respiro della Montagna Nuda che si era placato, trasformandosi da un ansito raschiante a un sibilo appena percettibile. Sapevamo ovviamente che quelle fiancate di pietra, come polmoni umani, si sarebbero potute dilatare in qualunque momento, gettando fuori un fiato ultraterreno destinato a spazzar via tutti quegli insetti che faticosamente si stavano inerpicando su di loro.

         Ho fissato Andrej e ho letto nei suoi occhi quello che non voleva esprimere a parole: dopo tanti giorni senza contatti, trovarli vivi sarebbe stato più che un miracolo. Certamente i miracoli, la storia ce l’insegna, si possono verificare: il malato terminale si riprende, il fulmine ci evita di pochi centimetri. Forse è la religione a dirci così, ma la mente a quel punto ci interroga: e allora tutti gli altri malati che vanno a ingrossare la statistiche?

         Ma non era il momento di perdersi in disquisizioni… Occhialoni, zaini, corde, e la camminata ha avuto inizio.

         Le vetrate dell’ospedale mi impediscono adesso di vedere quei costoni che abbiamo attaccato, Andrej e io. Ma ho mantenuto chiara dentro di me la percezione della salita: a mano a mano che andavamo su il rischio delle valanghe diventava sempre più una certezza. Come noi ci grattiamo quando un insetto ci si arrampica sulle gambe, e lo scacciamo infastiditi, così evidentemente la montagna si vuole liberare di noi. Qualche volta è in buona, e allora sopporta di essere percorsa fino in cima: i nostri chiodi che le trafiggono le carni non sono altro che un leggero solletico. Ma quando è irritabile, quando è già infastidita dai venti gelidi e dalle continue valanghe, ecco che si fa intrattabile, pronta a scaraventarci giù, da dove stiamo faticosamente emergendo.

         Quasi spingendoci a vicenda, ecco che siamo arrivati al Campo Due. Qualche tenda ancora allestita, e le tracce della loro salita ancora evidenti sull’unico costone che, a un occhio esperto, rappresentava la via verso la cima. Andrej è salito per primo, mentre io ispezionavo ogni metro di roccia, per trovare tracce del passaggio. Non avevo tempo per le emozioni, in quel momento: sapevo che il tempo del cordoglio sarebbe venuto dopo.

         Metri e metri, che diventavano lentamente centinaia. A fianco, a una certa distanza, mi scorreva quella parete che sembrava nata da un incubo. Forse quella distesa verticale non esisteva prima che qualcuno la sognasse e le desse forma pietrosa: sarà stato Kafka? sarà stato Borges a sognarla, creando uno di quei labirinti di libri e specchi in cui non è più possibile districarsi?

         E infine, eccoci al passaggio più difficile.

         Andrej mi ha avvicinato la bocca a un orecchio e, nel rombo del vento, mi è sembrato di distinguere le sue parole: «Se sono passati di qui non ce l’hanno fatta. Sono rimasti incastrati nella parete di roccia: hai visto che questa è una zona di valanghe? ».

         Io l’ho fissato: in un contesto diverso, le sue parole sarebbero suonate dolorose, quasi offensive. Ma in momenti del genere non c’era spazio per i pietismi: le cose andavano dette com’erano. Ho annuito, ma allo stesso tempo abbiamo capito entrambi che avrei tentato di passare. L’ho visto esitare: stava per dirmi qualcosa, ma poi ha capito che niente poteva rallentarmi, in quel momento.

         L’ho guardato e ho cercato di parlargli. Un po’ a voce, nell’urlo del vento, e un po’ a gesti, gli ho fatto capire che dovevo andare avanti. Se Luca era salito per quella sella, era davvero probabile che fosse rimasto sotto qualche valanga, ormai imprigionato nel ghiaccio. Lui mi ha stretto la mano e mi ha lasciato andare, dopo avermi fatto capire che sarebbe rimasto lì, sull’orlo della sella, per aiutarmi sulla via del ritorno. Se al di là ci fosse stato un qualunque scalatore da soccorrere, probabilmente avrei seguito il suo silenzioso consiglio: ma era Luca che si era avventurato su quel valico, e c’era una possibilità su mille che fosse ancora vivo.

         La neve era friabile sotto i miei primi passi, e il vento mi aspettava al varco, dietro il primo costone. In lontananza, lo scroscio di una valanga che fortunatamente scendeva sull’altro versante. Aria fredda, ostile, sottile come la punta di un pugnale. Il peso del corpo mi faceva affondare a tratti fino alle ginocchia, a tratti invece mi faceva slittare, quando passavo su una superficie vetrosa.

         Se Luca era salito, mi dicevo, non poteva essere lontano, fra quelle rocce aguzze e quell’aria cattiva. Un paesaggio avverso, che viveva in una natura ostile all’uomo: uomo che, chissà per quale motivo, insisteva a tentarla, ad assalirla, a violentarla. Fermiamoci, ricordo che mormoravo a me stesso salendo, usciamo da questo paesaggio che ci detesta, abbandoniamo il nostro orgoglio. Uno scricchiolio, una ventata, uno scossone come un urto tra la folla, e poi ecco il rombo lontano. Qualcosa che inizi a sentire attraverso la struttura ossea, che ti sale dalle gambe fin dentro i denti, ti gonfia le orecchie e infine ti fa piombare in mezzo a quella farina sottile, che inizialmente sembra quasi amichevole. Dopo, però, segue la parte malvagia: qualcuno ha mandato prima l’avanguardia, per sondare il terreno, poi ecco le truppe che, in grande stile, sferrano l’assalto. Come un sacco di farina, pesante come la pietra, che si spalanca e si rovescia in basso. Ho capito in quell’istante che Andrej, più in basso, aveva intuito l’arrivo della valanga e mi aveva dato per morto: schiacciato, travolto come Luca prima di me, impossibile da ritrovare per tutti i secoli dei secoli.

         E così, il rovescio di neve, o di sabbia, o di pietre, o forse era un intero oceano, alla fine mi ha investito. Ho capito che la mia presa sulla roccia sarebbe stata niente più che la carezza di un bambino sul tronco di un albero secolare: sotto di me il ghiaccio mi aspettava, una superficie liscia e senza appigli destinata ad accompagnarmi fino al fondo del versante, centinaia di metri più sotto. Ho tentato goffamente di scendere qualche metro, prima che l’ondata mi investisse, e poi ho perso il controllo. Sentivo che stavo ridiscendendo verso la sella dove Andrej mi aspettava, ma non avevo appigli: se solo avessi trovato una roccia per fermarmi un momento, avrei potuto aspettare il passaggio della valanga. Ma sentivo le mani scorrere sul ghiaccio liscio, sentivo che la forza di gravità, amplificata dal peso della neve, aveva deciso la mia sorte. Mi è sembrato di vedere, non molto lontana, la figura semi-indistinta di Andrej, nella sua tuta rossa. Lui al riparo dietro il costone, in attesa forse che io riuscissi a fermare la mia caduta.

         Ho sentito in quel momento quello che Luca poco prima di me aveva provato, mi sono sentito per un attimo accomunato alle migliaia di miei simili che, prima di me, avevano accettato la sfida che quelle montagne avevano lanciato al genere umano, perdendola irrimediabilmente.

         Rassegnato, scivolavo sempre più in basso mentre, nell’istintiva ricerca di un appiglio, tastavo il terreno sperando di imbattermi in una sporgenza, in una presa sicura.

         Ed è venuta, infine: la presa che mi ha salvato, consentendomi di restare, lì, semi-coperto e semi-congelato, dopo il passaggio della massa di neve, quando Andrej è riuscito a sporgersi e ad afferrarmi, per portarmi in salvo.

         Io, salvato da un appiglio che era uscito dalla parete di ghiaccio: una mano guantata, congelata nel suo ultimo saluto.

Loading

Lascia un commento

Devi essere registrato per lasciare un commento.