Premio Racconti per Corti 2019 “Gli occhiali magici” di Roberto Contini
Categoria: Premio Racconti per Corti 2019Nella sala d’attesa di uno studio oculistico, un ragazzino elegante nei sui jeans e nella camicia azzurra siede, accanto alla mamma, di fronte a una coetanea bionda, dimessa, scialba, avvolta da un impermeabile rosso. I due ragazzi si ignorano, i loro sguardi sembrano incrociarsi solo casualmente.
Invitato a entrare dall’appariscente infermiera, il ragazzino, seguito dalla madre, proietta nello specchio dell’ambulatorio un volto delicato, ma butterato dai brufoli; il gruppetto raggiunge presto la scrivania del medico.
Seduto davanti al dottore, il bambino anticipa tutti asserendo di non voler portare gli occhiali perché lo renderebbero brutto.
“Come le preannunciavo, dottore; – sospira la madre – dovrà ricorrere alla psicologia prima che alla sua competenza specialistica”.
Il medico, lisciatosi i corti capelli brizzolati e appoggiando il mento perfettamente rasato su una mano, sentenzia: “Gli occhiali non peggiorano l’aspetto, il segreto è selezionare una montatura adatta alla propria fisionomia. Guarda me, sono orribile, eppure non porto lenti; tanti attori ‘accessoriati’ invece vengono considerati autentici adoni (indica alcune foto appese alle pareti). Ma in fondo non è questo il punto”.
Va ora a sedersi sul bordo della scrivania, davanti al ragazzo. Fissandolo negli occhi, prosegue: “Ormai sei abbastanza grandicello per sapere che la bellezza da apprezzare non è quella esteriore”.
Notando un sorriso sarcastico che si dipinge sul viso del bambino, propone: “Non sei convinto? Facciamo un esperimento”.
Dopo aver deposto un involucro sulla scrivania, il medico spiega: “Ho seguito le istruzioni di un vecchio manoscritto appartenuto a mio bisnonno, lui sì un vero sapiente, e ho realizzato il prototipo che oggi ti lascerò collaudare: consente di vedere le persone come sono realmente. Vuoi provarlo?” Apre intanto la custodia, rivelando un grezzo paio di occhiali, con le lenti spesse ricoperte da tappi neri.
“Va … bene”. Mormora il ragazzo.
L’infermiera afferra il dispositivo e maldestramente lo posizione sul naso del bambino. Dopo aver percepito un flebile “sì”, in risposta alla domanda “Bimbino, sei pronto?”, la donna ruota la sedia verso la finestra e rimuove gli schermi dalle lenti.
Il ragazzo osserva, con migliorata nitidezza, lo scorcio di studio di fronte a lui e la veduta sul cortile. Si volge quindi verso il paramedico, rimanendo costernato: dalla chioma dell’infermiera spuntano grottesche orecchie di asinello. Inquadra allora la madre, che appare immutata. L’oculista gli si para davanti, incorniciato dal candore di capelli e barba lunghi, da saggio. Afferra il ragazzo per le spalle e lo guida dinnanzi allo specchio. Oltre il vetro il bambino si riconosce nel suo completo azzurro, ma nell’immagine riflessa la testa è nascosta da un ventaglio a coda di pavone, da cui fuoriescono gli occhiali neri.
Al perentorio comando del medico: “Chiudi subito gli occhi!” il ragazzo ubbidisce all’istante, sospirando mentre il dottore riposiziona le coperture e lo riaccompagna alla poltrona.
Rimossi gli occhiali, l’oculista spiega che quella sua invenzione permette di osservare le persone, trasfigurate secondo l’autentica bellezza interiore. Aggiunge: “Hai avuto il privilegio di adocchiare cosa stai diventando, in tempo per cambiare”.
All’improvviso, si ode un tonfo. Gli sguardi di tutti convergono sullo specchio, la cui lamina riflettente è crollata, lasciando intravedere, dietro al vetro, uno spazio nascosto nel quale una bambina in camicia azzurra aiuta l’infermiera a togliersi il costume da asinello. Scoperti, ‘gli attori’ non hanno impulso migliore che quello di ripristinare lo specchio, operando però con una tale foga da provocare la caduta, dal vicino armadio, di un vaso. Questo avrebbe colpito la testa della madre se il bambino, con un gesto protettivo, non avesse frapposto il proprio braccio, ferendosi lievemente un gomito; solo una stilla di sangue trapassa la stoffa leggera della sua camicia.
Perplessità nell’espressione di tutti. È il ragazzo a interrompere il silenzio: “Mamma, se hai inscenato questa commedia per convincermi a portare gli occhiali, tieni davvero al mio bene. Li metterò”.
“Perdonami piuttosto per essermi prestata alla messa in scena, – si scusa la madre, mentre una goccia di pianto le scivola sulla guancia – invece di confidare nella tua maturità”.
“Ragazzo mio – si intromette il medico – non pensare che io sia un attore. Oggi ho cercato di suggestionarti, ma sono un vero oculista e ho dedicato tutta la vita a un sogno: lenti in grado di scrutare l’anima. Ho davvero seguito le istruzioni di mio avo, uno scienziato pazzo, ma come lui non ho realizzato il miracolo e forse mai ci riuscirò. Non so per esempio interpretare la curiosa prescrizione: «detergere le lenti con il siero dell’amore reciproco»”.
A quelle parole, il bambino muove il gomito leso e punta lo sguardo sulla lacrima della madre.
Mentre l’infermiera torna nell’ambulatorio, in un abito sobrio e priva di trucco, il ragazzetto abbraccia la mamma, accarezzandone il volto irrorato. Poi, arrotolata la manica, raccoglie con quella stessa mano una goccia del proprio sangue.
Approfittando della distrazione degli adulti, le due donne sono infatti ora intente a incoraggiare il medico, elogiandolo per la determinazione dimostrata nel perseguire l’ambizioso progetto, il ragazzo libera gli occhiali dalle protezioni e dopo averne pulito le lenti con i suoi polpastrelli inumiditi, li inforca.
Vede l’infermiera, l’oculista e la madre luminosi e raggianti.
Corre allo specchio sorprendendosi nello scorgere nella propria immagine un occhiale diverso dal prototipo che inforca.
Dopo essersi sincerato di non essere visto, con un lesto colpo di mano raccoglie una manciata di caramelle da una ciotola vicina, mettendosele in tasca. Subito una ruga si insinua sulla fronte del suo riflesso. Restituisce allora i dolciumi bisbigliando “Scusa, era solo un test”. Quel solco svanisce.
Sopraggiunge una bambina bionda, splendida, vestita d’azzurro, con un impermeabile rosso al braccio. “Scusami – proferisce in un tono soave – i miei genitori, quei due paciocconi laggiù, mi hanno spiegato che si trattava di uno scherzetto ‘a fin di bene’. E’ stato bello essere te, sia pure per pochi istanti”. Il bambino non risponde, rimane inebetito, affascinato, mantenendo lo sguardo putato sugli occhi azzurri di lei. A ogni cambio di inquadratura i sorrisi dei due si fanno più ampi e magicamente, uno dopo l’altro, scompare ogni brufolo dal volto del ragazzo.
Il medico si avvicina ai giovani, dicendo: “Maria, ricordati del corso di chitarra; se non vuoi arrivare tardi, devi partire subito”.
La ragazza tende la mano al nuovo amico. Il bambino stringendola si avvicina e bacia la fanciulla sulla guancia. Sfiorandosi, gli occhiali dei due tintinnano. Mentre si allontana, Maria commenta: “Oggi la vita appare diversa, spero di rivederti”.
L’oculista si rivolge al ragazzo: “Riccardo, rendimi il prototipo e vieni che esaminiamo la tua vista”.
Il bambino toglie gli occhiali. Ai suoi occhi, gli adulti, pur sorridenti, hanno istantaneamente perduto la precedente luminosità.
Saluta con la mano la ragazzina, vedendola ancora bellissima, mentre il proprio riflesso nello specchio rimane privo di brufoli.
Magari avere un paio di occhiali magici come quelli del tuo racconto. Non ci sarebbero brufoli, né rughe, e i visi degli adulti brillerebbero di una luminosità speciale – come dici tu. Un bel racconto fantareale – si parla di magia -, in cui esalti la bellezza interiore, e menzioni gli attori: in questo ci troviamo sulla stessa linea d’onda. Bravo. In bocca al lupo!
Molto carina l’idea e scritta molto bene. Un racconto più che un corto. Come vorrei un paio di occhiali così !
L’ho letto e ho iniziato bene la giornata.
Oggi il mio collega d’ufficio ha l’aureola brillante, ieri aveva due corna maestose. Mi sa che ho bisogno di una visita dal psicoculista. Mi daresti l’indirizzo, per cortesia?
Mi ricordano le lenti di “Dippold l’ottico” di Edgar Lee Masters. Bel racconto fantasioso.
Grazie Lucia per il tuo generoso commento.
Certo con gli occhiali magici si metterebbero a fuoco anche molte brutture e non ci si potrebbe rifugiare nell’ipocrisia. Ma tu, e il tuo bel corto ne dà testimonianza, sai guardare alle cose per come sono.
Allora Monica te ne prenoto un paio.
In effetti, il mio corto è lungo; ho quantomeno cercato di privilegiare un linguaggio visivo.
Grazie per l’apprezzamento.
Certamente Luca, eccoti l’indirizzo dello “psicoculista”: seconda stella (maculare) a destra.
Grazie per il tuo frizzante commento.
Ti ringrazio, Andrea.
Mi fa vacillare l’accostamento a Edgar Lee Masters, che confesso di avere letto “di rimbalzo” dopo l’ascolto di De Andrè.
Da irrecuperabile fan di De Andrè, il tuo bel racconto mi ha fatto inevitabilmente tornare alla mente l’ottico tratto dall’antologia di Spoon River che potrebbe chiudere come colonna sonora questo corto: “faremo gli occhiali così … faremo gli occhiali così “
Bello questo corto che mette l’accento sul potenziale (a volte, purtroppo, un po’ troppo nascosto) di ognuno di noi.
Ti ringrazio Danilo, mi ha fatto molto piacere il tuo commento.
Ad essere sincero non mi ero ispirato consciamente a Faber nel concepire questo soggetto, ma poiché sei già il secondo scrittore che coglie una analogia tra il mio oculista e l’ottico Dippold, comincio a pensare che la passione per De André e l’ammirazione per Edgar Lee Masters abbiano in qualche modo condizionato la mia creatività.
Grazie Elisabetta per il tuo apprezzamento e per le tue osservazioni.